di UGO SANTINELLI.
Il più è già passato, di questo anno. E con esso del ricordo e delle celebrazioni di quando accadde nel 1968.
- Immagini
Domenico Megali sta curando un volume dal titolo ’68 Testimonianze, vi ha raccolto le parole di un gruppo di allora giovani, dell’Italia di provincia, che si affacciarono in quell’anno al mondo. Non mi sono sottratto alle sollecitazioni di Domenico e propongo le mie parole qui di seguito. Il titolo Immagini in lotta è quello dell’omonima mostra che, dopo mezzo secolo, ha riproposto i manifesti del maggio francese, sulle pareti di Beaux Arts, dove erano stati ideati e stampati.
La ragazza mi dice gentile di leggere il foglio. Ho più di sessantacinque anni, ho diritto alla riduzione sul biglietto d’entrata. Ne ho sessantotto di anni e 68 è il numero magico di questa mostra, ma non vinco nulla di particolare.
Già dal banchetto d’ingresso posso sbirciare attorno, scorrere lo sguardo sulle pareti del vasto ingresso ora silenzioso. Alle pareti, senza spazi che li distanzino, i manifesti che gli studenti avevano discusso ed approvato, forse in questo androne; dovevano esserci voci e voci che si rincorrevano e si accavallavano, alte di tono per farsi sentire e prevalere. Ora silenzio.
I manifesti hanno tratti spessi, volutamente elementari per facilitare la serigrafia in serie, poche le parole, approvati dopo le molte spese in assemblea. I fogli non dovevano pronunciare concetti ma gridare slogan, subito compresi e ripetuti. Spesso il segno dice già tutto. E in alto, su uno schermo da cinemino di periferia, scorrono le immagini. I pochi spezzoni di ripresa che ora, comunicano non gli inizi, le discussioni, le parole degli interventi e quelle delle pause tutte avvolte dal fumo delle sigarette che leggero vola verso l’alto; le immagini scorrono sul dopo, sui dispositivi di piazza per rintuzzare l’azione dopo le parole, pesanti come pietre e pavé a minacciare l’ordine costituito. La tecnica è quella dei mezzi dell’epoca, con le riprese traballanti, il bianco e nero sgranato, sfuocato, il diaframma aperto per compensare il buio. Giovani che corrono, strade sconvolte, scoppi di bianco nel nero della notte, la benzina che esplode e schizza dalle molotov “champagne, molotov!”.
Oggi mi è chiaro che le immagini della televisione di stato, quel bianco e nero che mostra i buoni ed i cattivi, i cattivi studenti che attaccano i poliziotti, dovevano spaventare. Rimpolpavano il telegiornale della sera, lievitavano nel sonno e sconvolgevano il circuito mattutino boulanger-épicier-boucher-fruits et legumes-pas des poissons: dovevano rinforzare il rincorrersi di altre parole, quelle spaventate delle massaie e dei bottegai. Oggi immagino e riesco ad ascoltare quelle angosciate, smarrite, stizzite distribuite nel baretto dei genitori di Annie Ernaux, nel profondo Nord di Normandia, tutto vacche e prati, prima di arrivare alle miniere dell’est, distanti una luna da Parigi.
Le rivivo quelle immagini e non ricordo che mi spaventassero. Gli studenti del maggio radioso mi sembravano in continuità biografica con quelli dei libri di scuola. Studente liceale, il tempo della storia era per me annullato nel passaggio dalle pagine del libro alla televisione di stato. Le barricate delle cinque giornate di Milano erano simili a quelle fresche di Parigi. Studiavamo l’unificazione italiana, mostrata come inarrestabile, un processo meccanico, sì certo, talvolta con i moti e le guerre che rimuovevano, spazzavano fastidiose resistenze ancien regime. Anche la storia locale aiutava, con i centrotrenta cavalleggeri e i venti carbonari che avevano marciato, in nome della costituzione liberale, nel 1820 da Nola ad Avellino per un colpo di stato. Avevano bloccato il fondamentale traffico di merci e persone tra Puglia e Napoli; il moto aveva coinvolto il regno e il re aveva ceduto, concesso la costituzione, salvo rimangiarsela l’anno seguente con contorno di morti ed esuli. Gli studenti del quartiere latino ora si presentavano come naturale prosecuzione di quelle storie, tutte accomunate da liberté – fraternité – égalité. La storia rincuorava e sorreggeva, un piano inesorabile ed inclinato che non giungeva a spiegarci quel guazzabuglio del novecento, né in letteratura, né peggio nella politica della guerra, del fascismo e della repubblica.
Avevo già lasciato in prima il pretenzioso ginnasio Pietro Colletta di Avellino e frequentavo un liceo di provincia, il Pascucci di Pietradefusi. Tutte le mattine andavo a prendere un autobus e costeggiavo il carcere borbonico, ormai inglobato nella città. Mi serviva da orologio: se incrociavo il suono della conta delle sbarre in un certo punto, sapevo se ero in orario o dovevo affrettare il passo. Mi sembrava normale, io a piedi ed i detenuti in cella, io che mi sarei rinchiuso in un aula di lì a poco, e i detenuti nel loro mondo. Avrei letto Foucault molto dopo. Uscivo dalla città, il pullman lento saliva verso la Serra di Prata e a capofitto scivolava sulla vecchia strada regia, quella del 1820. Attorno, dopo il grigio o il bianco della neve invernale, il verde tenero del grano di primavera che cresceva ed avvicinava la fine dell’anno scolastico, le vacanze.
La campagna mi staccava netto dalla città, mi introduceva in un panorama nuovo e diverso. Dimenticavo la piccola borghesia di Avellino, le quattro famiglie che si proclamavano importanti, covavano le loro cucce sudate, chiudevano gli occhi sul mondo e ringhiavano ai tentativi di spartizione democratica degli ossi. I miei nuovi compagni, e compagne, erano figli di gruppi diversi : gli avellinesi scapocchioni che avrebbero tentato di andare avanti con l’aiutino salvifico di fine anno, i figli di dottori-medici-avvocati-farmacisti dei vari paesi, destinati a perpetuare posti ed ambizioni e i figli degli emigrati, quelli che avevano lasciato la loro terra. Gli studenti dei paesi che borbottavano contro gli avellinesi, a studiare duro e questi qua con la raccomandazione. Cominciavo a leggere un panorama sociale più complesso, con semplificazioni e destini e partenze dei singoli, talvolta ingiuste. Ma l’ascensore sociale funzionava ancora, nel pieno dei trenta gloriosi, come li chiamavano di là delle Alpi, alla coda del boom; bastava mettersi in fila, attendere il concorso giusto, andare fuori per prendersi il lavoro dopo l’Università. Certo, non partivamo tutti dal pianterreno, alcuni già dalla nascita erano più vicini all’attico con piscina, intravisto in qualche rivista, non certo nel quotidiano di un’Irpinia dove il reddito pro-capite era ancora tra i più bassi d’Italia, con l’agricoltura e l’emigrazione, l’arretratezza e il dualismo a spiegare cosa eravamo.
Ricordo una contestazione in periodo natalizio alla Standa, unica vetrina della modernità, già alla fine del 1969. Quelli venuti dalla provincia con gli autobus bombati che circolavano ancora dal dopoguerra, ammassati davanti alle vetrine sul corso principale già prima dell’apertura, per un panettone milanese, i colori dei tessuti, la roba a portata di mano. E, megafono in mano, i giovani contestatori cittadini della parrocchia di S. Ciro che spiegavano la trappola del consumismo: ne valeva la pena solo per un panettone che rendeva il pranzo di Natale meno quotidiano? In tante case dove la famiglia non poteva neppure riunirsi al completo? Per evitare di mettere assieme il microcosmo colorato del presepe e la dolcezza del panettone?
Ma io chi ero? Non un ribelle consapevole ma ancora un imbambolato, con alcune istintive pulsioni che germinarono grazie ad alcune persone ed un paio di episodi. Uno zio che mi prestò Lettera ad una professoressa e Ragazzi di vita. Don Milani e Pasolini mi aprirono gli occhi al di là dei monti che circondano Avellino: “La realtà è così?” chiedevo e mio zio latinista, grecista e preside annuiva. Nel mio nuovo liceo, abbandonavo un preside fascista di fatto e grigi professori, per un preside della sinistra lombardiana che parlava guardandoci negli occhi e trovavo professori dolcemente di sinistra; nell’altra sezione insegnava filosofia Elisa, la figlia di Guido Dorso, l’azionista avellinese amico di Piero Gobetti, “esule in patria” come scrisse Carlo Muscetta. E dal solito cubo del bianco e nero le parole di un giovane professore che dibatteva casi sociali trasformati in atti unici. Un giovane professore che mi sembrava comprendere a fondo quella realtà didascalica, pur simile al mio vissuto, spiegare meglio di avvocati, preti, professoresse e persino carabinieri; Franco Ferrarotti, così dinoccolato ed americano nel vestire e nel muoversi.
Eravamo in un mondo così marginale che, durante la gita scolastica a Paestum del 1968, rimanemmo muti e fermi a contemplare il passaggio tra le rovine degli studenti di un liceo romano, nostri coetanei, ma già così avanti, sicuri e belli nei primi jeans, nei maglioncini attillati e colorati, uno perfino con una tromba in mano a suonare, il massimo dell’eccentrico.
Anche nel mio liceo arrivò la contestazione, come l’acqua delle onde che dopo la vetta schiumosa delle onde, si distende piana e stanca a baciare la sabbia della spiaggia. Arrivò con calma, per moto inerziale, depurata dalla violenza, mescolando fino a rendere morbide le parole più atroci. Il Vietnam ed il Che ci commuovevano, ma così lontani. Non avevamo spazio sufficiente all’interno, neppure una palestra dove riunirci ed andammo in piazza, a costruire un tondo pieno di corpi vocianti contro leggi e riforme. Ma di assemblee avevamo in testa quelle del parlamento e pretendevamo di cominciare con l’elezione di un presidente. Per interrompere i battibecchi, un mio compagno di classe scampanellava le campanelle “prese in prestito” dalla vicina chiesa. Poi, come in tante città italiane, ci riunimmo tutti ad Avellino ed invademmo il corso. Non era il corteo processione del primo maggio, con i partiti officianti, le bandiere numerate per “democratica” rappresentanza. Quel giorno il semplice, caotico scendere dal marciapiedi, camminare al posto delle auto ci rendeva primi attori, protagonisti finalmente del nostro tempo. E questo conta, l’immagine, la sensazione più delle parole pronunciate o scritte.
- Cinquecento più cinquecento
Mi colpisce l’accostamento di due foto che ritraggono una fiat 500. In luoghi e tempi diversi.
La prima è stata scattata da Gilles Caron, un giovane fotografo parigino, come mostra l’autoritratto del 1968, durante un viaggio in Guinea. Un fotografo già engagé, nato nel 1939, militare in Algeria dove non collabora con i golpisti che lo incarcerano. Attento ai problemi del terzo mondo, non disdegna, per professione, di ritrarre dive ed indossatrici in modo scanzonato.
Caron capita a Nanterre e fiuta l’aria. Non ha l’età della maggior parte degli studenti, ma una bella mostra all’Hotel de Ville de Paris ha svelato il suo lavoro tra i corridoi, le aule, le assemblee all’aperto, tanti scatti pieni di empatia ed intelligenza. Riproduco in parte una sola foto, dove si vedono uno studente ed un operaio dei vicini stabilimenti Renault insieme, durante un’assemblea. Un’immagine ancora ottocentesca con lo studente barbuto e capellone, in giacca militare, e l’operaio in salopette: questione di mise, ma sono parenti stretti del borghese un po’ bohémien e l’operaio, sciabola sguainata, dipinti da Delacroix nel 1830 all’interno del grande quadro della Marianna, anzi della Libertà che guida il popolo. La foto dà corpo ad uno slogan, “ operai, studenti, uniti nella lotta”, che in Francia ebbe una vita ben più breve che in Italia.
Gilles Caron avrà vita breve, come gli eroi, come il Che. Morirà appena dopo due anni. Nel 1970 aveva deciso di non coprire più i teatri di guerra. Parte per un ultimo reportage in Cambogia; forse è attirato in una trappola. Di certo si sa che scompare in una zona a cavallo tra Cambogia e Vietnam, un cuscinetto di transito per khmer rossi e vietcong. Ha visto, testimoniato e fotografato troppo.
La bianca 500 è lì, immobile e fragile paravento, in un momento degli scontri del maggio parigino. Per la strada in pendio, dovrebbe esser stata scattata in rue Claude Bernard, con Caron che dà le spalle alla zona della Mouffe. E’ una bella foto; si vede l’allievo di Cartier Bresson nel pugno che stringe il pavè, il braccio e il parallelepipede si stagliano per contrasto sulla portiera bianca. E dietro il pugno basso, leggermente sfocato, il pugno in alto, pronto al lancio della pietra, come il riassunto di un unico movimento. Sullo sfondo, l’onda compatta e nera, la carica dei CRS.
Immaginiamo la concitazione del momento, in questa e nelle decine di foto degli scontri ed apprezziamo il lavoro di tanti fotografi, noti e meno noti, al lavoro con le tecnologie dell’epoca.
La seconda foto è quella di un dilettante, alle prese con i tempi più calmi e gestibili di un corteo. E’ tratta dal libro le pietre e la polvere, confezionato a quattro mani con Generoso Picone. La macchina ha un nome, Camilla, ed è l’indispensabile strumento di vita e di lavoro politico di Fonzo e Ninì; deve reggere le trombe spropositate alimentate dalla batteria e dare forza, consistenza al gruppo di amici che seguono. Il cartellone e lo striscione portano la firma e le istanze di due comitati spontanei, i contadini delle Selve e gli emarginati dei rioni fatiscenti di Avellino, alcuni degli spazi di quell’opera di alfabetizzazione alla politica che resta la parte più bella e sincera del sessantotto avellinese, prima che la narrazione e la pratica della violenza, la velassero nel ricordo. Casa, trasporti, agricoltura, temi e problemi sempre attuali.
3. 1974
Il volantino ha una vita propria. Si nasconde tra i libri della scarsa biblioteca e ne emerge a tratti, quando sposto le pile. La carta è spugnosa, giusto per essere imbevuta dell’inchiostro rosso della Gestetner; il formato è lungo, di quelli che oggi provocano stizza alle fotocopiatrici. A toccarla, i polpastrelli rievocano la matrice cerata, incisa dai tasti della Olivetti e, con molta accortezza, dalla mano di chi ha disegnato, accanto alle parole, i corpi straziati dalla bomba delle dieci e dodici, come indica l’orologio a pezzi. Me lo passò a Trento una compagna di Brescia, dopo i funerali delle vittime di piazza della Loggia.
Chi ha vissuto quel tempo comprende la retorica dei versi, l’antitesi tra i lavoratori della città che si è autogovernata e i rappresentati delle istituzioni, fischiati durante i funerali di Stato, avvenuti due giorni dopo la strage del 28 maggio 1974. E non furono senza conseguenze per Giovanni Lombardo i suoi versi, chiamato a difendersi in due querele.
Brescia rievoca due immagini. I vigili del fuoco lavano la piazza e cancellano la scena del delitto. Lo squarcio fresco e chiaro in alto del portico, accanto alla fontanella, che mette a nudo la pietra, ciò che è dentro la pelle esterna scurita dallo smog; e sembra che qualcuno abbia squarciato il muscolo vivo. Il sessantotto gioioso è finito, sta inabissandosi nelle acque buie del terrorismo.
I versi di Giovanni Lombardo sono stati poi raccolti ne Il giardino di Marianna, edito nel 1977 dalla Cooperativa Popolare di Cultura di Brescia; nel 2009 musicati e cantati da Mirko Dellera nel concept album Diedidodici, voluto dalla Casa della memoria di Brescia.
In coda al foglio, la sigla cicl.in proprio, talvolta ciclinprop., che dava allora veste legale e di autodenuncia per chi stampava al ciclostile, e per rendere certe le informazioni dei rapporti redatti dalle squadre politiche. Erano anni in cui le parole non viaggiavano da sole, libere nell’aria e nelle radio.
Ugo Santinelli