Avellino, la zona grigia e la servitù volontaria

di GENEROSO PICONE.

Ha ragione Michel Foucault: “La questione del potere non è stata posta da noi: si è posta, ci è stata posta, dal nostro tempo, questo è certo, ma anche dal nostro passato, un passato recente che si è appena concluso”. Vero ciò, conviene chiedersi se davvero il passato recente, per Avellino e l’Irpinia – Foucault ragionava invece del XX secolo –, si è concluso e con esso sia andata all’incasso anche la questione del potere per come essa era stata declinata negli ultimi decenni. Probabilmente non negli ultimi 50 anni, come il sindaco di Avellino, Vincenzo Ciampi, dichiara per darsi un terreno d’azione, in mancanza d’altri. Chissà perché proprio 50, non si capisce bene che cosa in città sia stato avviato giusto nel 1968 se non una messa in discussione – non lineare e magari incostante – del potere in tutti i modi costituito. Ma le cifre tonde devono fare sempre un certo effetto, specie nelle campagne elettorali permanenti e continue.

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Il potere, e ogni potere, ha sempre una sua genealogia e per arrivare a risalire la sua tortuosa rotta e tentare così di coglierne le radici, il senso, il portato e gli effetti, Michel Foucault raccomandava di chiedersi in che cosa consistano i rapporti di potere: studiare, cioè, il potere laddove diventa capillare, nelle sue forme e istituzioni locali e non limitarsi al suo centro; non chiedersi chi detiene il potere e che cosa abbia in mente perché è fondamentale capire come concretamente funzioni; sottolineare che il potere opera attraverso un’organizzazione e transita attraverso gli individui; compiere un’analisi ascendente del potere a partire dai meccanismi infinitesimali e vedere in che modo questi siano integrati in meccanismi generali; considerare che non è possibile esercitare in maniera capillare il potere senza allestire gli apparati di sapere che non sono riducibili alle ideologie. “In altre parole, – sintetizza Vincenzo Sorrentino accompagnando gli scritti di Foucault su “L’impazienza della libertà” (Feltrinelli, Milano 2005) – si tratta di liberarsi del modello del Leviatano, incentrato sulla sovranità, sulla legge e sul divieto”. Vuol dire che ad Avellino, per esempio, immaginare di disfarsi di un sistema che abbia avuto 50 o chissà quanti altri anni di vita può apparire soltanto una scorciatoia retorica, uno scotto da pagare giusto a una catartica – e assai autoassolutoria – impazienza della libertà, una sorta di goffo ricorso alla teoria del capro espiatorio di René Girard destinato però a non intaccare per niente i modi e le forme in cui il potere realmente si è manifestato.

Sarà perché si è ancora prigionieri del demone del rancore, ma non si arriva ad approntare nei termini foucaultiani una genealogia del potere ad Avellino, o in Irpinia o – se si vuole, e sarebbe meglio – in un luogo simbolico del Mezzogiorno d’Italia che presenta caratteristiche sue ma agevolmente in grado di costruire un paradigma meridionale. Friedrich Nietzsche nella “Genealogia della morale” ha indicato il risentimento come la malattia delle emozioni nelle società moderne regolate dalla democrazia, come il morbo che punta a rovesciare l’ordinamento aristocratico ed elitario. L’impazienza della libertà, appunto: ma l’impazienza che muove gli animi e non la ragione, non analizza e si limita a condannare, a denunciare, ad accusare, a impancare strani processi con i mezzi di cui si può disporre – i social, i manifesti 6 per 3 – provocando il sospetto che non si sia in grado di andare oltre, addirittura di non porsi nemmeno il problema di volerlo fare, paradossalmente di puntare a una rapida sostituzione dei ruoli nell’ambito dei rapporti di potere senza proporsi di entrare nel merito, nella sostanza autentica, nella profondità della questione.DSCN8311

Che cosa è stato il potere in Irpinia? Una definizione attendibile può essere tratta da “L’umiltà del male”, il saggio di Franco Cassano (Laterza, Bari 2011) in cui prende in esame “La leggenda del Grande inquisitore”, la storia che Ivan racconta ad Alioscia nel quinto libro dei “Fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij. Qui, il Grande inquisitore processa e condanna il Cristo tornato sulla Terra per aver affidato agli uomini un compito insopportabile per le loro forze: la purezza del Bene, apparsa così aristocratica e intransigente. Lui, il Grande inquisitore, al contrario ha capito che gli uomini non hanno bisogno di esempi di irraggiungibile virtù, ma – spiega Cassano – “di protezioni, di sottomissioni e genuflessioni”: “Quanto più il potere saprà lavorare su queste debolezze, quanto più saprà usarle a suo favore, tanto più riuscirà a interrompere le comunicazioni tra i migliori e tutti gli altri, tanto più riuscirà ad avvelenare i pozzi, lasciando gli eletti senza eserciti e arruolando la grande maggioranza degli uomini alle loro dipendenze”. Il Grande inquisitore si è alleato con la debolezza degli uomini, “la moltiplica e la usa come uno scudo contro i migliori tra essi”. L’estremismo etico di Gesù Cristo può valere per ventimila santi, ma il resto degli esseri umani, fatto da deboli e peccatori, chiede di essere pascolato come un gregge.

O trattato come un cane. Perché la sola virtù che si chiede così agli uomini è quella riconosciuta da Simone Weil alla gratitudine che in tale esercizio si genera. “Il benefattore ha l’obbligo di essere interamente assente dal beneficio. E la riconoscenza non deve, in nessun grado, generare attaccamento. Perché questa è la riconoscenza dei cani”, scrive ne “L’ombra e la grazia” del 1947. È seguendo questa strada che si genera l’assistenzialismo venato dal clientelismo più spinto e insopportabile, di cui il lessico del beneficio e della gratitudine diventa il fondamento ontologico, il nucleo costitutivo su cui edificare le architetture dei rapporti di potere.

Sicuramente la pratica politica del beneficio non avrebbe avuto l’esito storico che si registra se non avesse puntato sulla debolezza degli uomini: debolezza provocata da una condizione di urgente bisogno, di gravi condizioni personali e sociali; e di ciò la politica della gratitudine non dovrebbe che vergognarsi. Ma: c’è un ma a cui richiama un prezioso testo di metà ‘500, di cui è autore Étienne de La Boétie, filosofo, poeta e umanista morto purtroppo a soli 33 anni nel 1563 tra le braccia di Michel de Montaigne, che ebbe a salutarlo come “il più grande uomo del suo tempo”. Nel suo “Discorso della servitù volontaria”, La Boétie pone l’interrogativo: “È vero che all’inizio si serve perché costretti e sconfitti dalla forza; ma chi viene dopo serve senza rimpianto e fa volentieri quel che i suoi predecessori avevano fatto per costrizione. Così, gli uomini nati sotto il giogo, nutriti e cresciuti in servitù, incapaci di guardare più lontano, si accontentano di vivere come sono nati; non pensano di avere altro bene e altro diritto se non quelli che hanno trovato, prendendo così per naturale la loro condizione di nascita”.

È Enrico Donaggio, nell’introduzione all’edizione 2014 del “Discorso” (Feltrinelli, Milano) a riconvocare il Grande inquisitore con l’interrogativo che pone Dostoevskij: “Di quanta emancipazione è capace l’uomo?”. Problema aperto almeno dalla “Repubblica” di Platone che nelle pagine di Étienne de La Boétie fa emergere – aggiunge Donaggio – “la patologia sociale quotidianamente esorcizzata nella litania di lamenti e sua culpa verso il potente di turno; la religione politica per dare un significato a troppi giorni di quaresima. Il diniego di chi non ammette, accanto a un’effettiva quota di impotenza, anche la forza di cui potrebbe disporre, se soltanto volesse davvero sfuggire all’incanto – amalgama opaco di alienazione, fatalismo e benessere – del potere a cui permane avvinghiato”.

Enrico Donaggio, insomma, evidenzia in La Boétie “una delle verità fondanti la sua geometria non euclidea dello spazio politico: l’asservimento di una massa non si può ottenere esclusivamente con la forza, la violenza o il terrore. Né, per converso, esiste un dominio talmente pervasivo da saturare in sé, contro la volontà dei soggetti, l’intera società. Le scelte collettive non devono dunque venire interpretate come reazioni, obbligate o automatiche, entro un contesto retto esclusivamente da necessità, costrizione o fato. Poiché il potere di chi governa origina sempre da un “dono”, da una compiacente concessione dei sudditi: la sua materia, insomma, è quella di cui sono costituiti i desideri e i sogni che fanno registrare il più alto tasso di consenso”.DSCN8219

Di chi parla Étienne de La Boétie? La sua profezia – giustamente definita carsica da Donaggio – riappare nello sgangherato crocevia di questo 2018 avellinese, irpino e italiano come aveva fatto alla vigilia delle stagioni delle rivoluzioni europee, la francese, la napoletana, il Quarantotto, i consigli o all’alba della tirannide nazionalpopolare del nazismo e del fascismo o – se si vuole – a ogni increspatura rabbiosa di quell’animale informe e minaccioso che è la folla vista da Gustave Le Bon e José Ortega y Gasset. Anticipa, La Boétie, l’ambigua dialettica tra signore e servo su cui si sarebbe soffermato Georg Wilhelm Hegel nella “Fenomenologia dello spirito”: “Il signore si rapporta al servo in guisa mediata attraverso l’indipendente essere, ché proprio per questo è legato al servo; questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indipendenza nella cosalità”, si legge in quel testo del 1807, al capitolo sintomaticamente dedicato a “Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza; signoria e servitù”.

Di chi parla, allora, se non del melmoso paradigma che ha racchiuso i rapporti di potere ad Avellino e in Irpinia e nel Sud da un periodo ben più lontano del cinquantennio declamato da Ciampi: un radicato sistema assistenziale che tutto concedeva in cambio di qualcosa, che smostrava il diritto acquisito in elargizione pelosa, che chiudeva in una catena di comando che nessun Edward Banfield con la sua scoperta del familismo amorale nel 1958 sarebbe riuscito a svelare. Un meccanismo pressoché scientifico, meticoloso e puntuale. Ne hanno beneficiato in tanti, troppi: la maggioranza. Finché ha retto. Fino al momento in cui c’è stato qualcosa da promettere e assicurare. Finché un Pantalone ha potuto pagare. Quando le condizioni, soggettive e oggettive, non ci sono più state, ecco che il rancore e la rabbia ha montato ed è diventato incontrollabile e ha messo in mora i signori di ieri. Non per una rivolta dei servi, rivestita da moralismo un tanto al chilo: perché si pretendeva che il sistema continuasse. “Se la servitù è il frutto del dono di sé al potere, la sua fine consegue dalla sospensione di quel dono, da un passo indietro, che si tratti di uomini dotti o comuni”, rileva Miguel Abensour nel commentare il “Discorso” di Étienne de La Boétie. La sospensione c’è stata o siamo di fronte soltanto a uno stato di attesa?

Riflettendo sulle fasi che caratterizzarono il crollo del Regno dei Borbone tra il 1848 e il 1861, nel tentativo di comprendere congiunture che segnarono allora apparati e opinione pubblica, Paolo Macry – in “Quando crolla lo Stato” (Liguori, Napoli 2003) – propone uno schema della percezione degli accadimenti di agevole applicazione a ogni momento in grado di essere definito come cambio di stagione. Macry con lucidità avverte subito che “la percezione del crollo, dei suoi ritmi intensi o della sua dolorosa aritmia resta un processo di tipo soggettivo. Dunque antropologicamente diversificato”. Così, c’è un tempo dei vincitori, dominato dalla percezione adrenalinica della velocità, una sorta di ebbrezza che rende forsennato il ritmo degli eventi, “un calendario spasmodico come i “Dieci giorni” di Pietroburgo che John Reed racconterà senza mai perdere di vista le lancette dell’orologio, la tipica esaltazione di chi sta vincendo la partita, dei rivoluzionari che s’accorgono di avere in mano le chiavi del gioco”. Dall’altra parte, poi, il tempo dell’entropia, quello del “tempo ansiogeno della macchina istituzionale che s’inceppa e muore”, segnato da un forte effetto aritmico, “onda lunga, processi strutturali irrefrenabili, malattia terminale”. Succede, insomma, che “i vincitori sanno di fare la storia, o così credono. I vinti constatano di esserne fuori, privati di opzioni e di margini operativi”. Tra questi due poli si delinea per Paolo Macry il tempo della quotidianità, “il quale convive con quegli eventi drammatici, sovrapponendo alla cronaca furibonda una continuità giornaliera che, di per sé, dovrebbe costituire la migliore smentita alle nuove urgenze della politica”. Si tratta del tempo della dissimulazione: “È l’attitudine di quanti, i più, sembrano far finta di niente, consapevoli del rischio che per la gente comune rappresentano, comunque, i fenomeni di mobilitazione e, sospettosi di fronte all’esito del gioco o di fronte alla politica tout court, restano in una zona grigia di estraneità”.

Abbassata di qualche grado la temperatura emotiva, personale e sociale, del quadro descritto da Macry per la caduta del Regno di Francesco II, l’impianto torna decisamente utile per cogliere il senso degli avvenimenti in un momento di mutazione – o meglio: di percezione della mutazione – come quello che Avellino sta vivendo tra il 4 marzo e il 24 giugno del 2018. Certo, si può agevolmente allargare l’area intermedia del tempo della quotidianità e della dissimulazione, che appare il terreno dove facilmente alligna la pianta del trasformismo e delle declinazioni della sua lunga stagione, quantomeno dall’Unità alla Repubblica così come l’ha descritta Giuseppe Moricola nel suo saggio del 1995 – “Le stagioni del trasformismo. Stato, società e governo locale dall’Unità alla Repubblica. Il caso Avellino” (Grafic Way Edizioni, Avellino), sulla traccia della lezione di Francesco De Sanctis in “Un viaggio elettorale” del 1876 e di Guido Dorso ne “La rivoluzione meridionale” del 1925. Ma proprio nell’individuazione del profilo della zona grigia dell’estraneità si incontra il nocciolo duro di quella che può dirsi l’ideologia avellinese, nel senso del complesso di sentimenti e motivazioni mossi dalla convenienza più furba che acconcia gli individui all’opportunità di non schierarsi e in questo modo di essere sempre schierati: di attendere, accorti e vigili, il corso dei fatti per potersi adeguare al vento corrente; di essere gli autentici protagonisti e beneficiari della considerazione del principe Fabrizio di Salina al cavaliere di Chevarley di Monterzuolo, inviato del governo sabaudo nella Sicilia ormai presa dai Mille di Giuseppe Garibaldi, ne “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

Non è soltanto questo, però. Non c’è soltanto l’esposizione in chiave avellinese del gattopardismo più puro. Anzi, si rischia di non comprendere che cosa sia successo – ben oltre il 4 marzo e il 24 giugno 2018 – se ci si ferma acquietati all’affermazione dei principi di Salina “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni. Quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”.

In quelle parole c’è, invece, l’apertura di uno spazio intermedio in cui risalgono alla ribalta gli “apoti” irpini, i succedanei – e in questo mediocri nella loro spregiudicata disinvoltura – dell’umanità disincantata prefigurata da Giuseppe Prezzolini nella lettera inviata il 28 settembre 1922 alla “Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti. Prezzolini adoperava il termine greco degli àpotos, di coloro che non la bevono, augurandosi l’instaurazione di una loro Società che nella dichiarata difesa della verità in realtà dissimulavano i valori di una tipicità italiana in senso strapaesano, traccia della società rurale e della morale cattolica, rifiutandosi di riconoscersi nei mutamenti in nome di una insofferenza per la politica e i suoi riti. Con Prezzolini si schierarono Indro Montanelli, Curzio Malaparte, Leo Longanesi, Giovanni Guareschi e altri esponenti di quella cifra del carattere nazionale che il grande Giulio Bollati – nel decisivo “L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione” pubblicato da Einaudi nel 1983 – avrebbe segnalato come il trasformismo via italiana alla politica. Giornalisti e scrittori nel cui percorso Alberto Asor Rosa ritrova “quel tipo d’intelligenza (e d’intellettuale) che si costringe a viva forza a servire il potere – e lo serve, in verità, con cocciutaggine e fedeltà senza pari – per poter poi dire male, per prendersi il gusto di provarne schifo; o forse, più esattamente: quel tipo di intelligenza (e d’intellettuale) che dice male con gran gusto e con grande umorismo del potere, per poterlo poi servire a scarico di coscienza con fedeltà a tutta prova” (“Letteratura e giornalismo” negli “Annali della Storia d’Italia”, Einaudi, Torino 1981).

È uno degli atteggiamenti che si devono ascrivere al corpus dei sentimenti della transizione. Dominano nella zona grigia di – finta – estraneità descritta da Paolo Macry. È l’indifferenza che Antonio Gramsci già l’11 febbraio 1917 dichiarava di odiare, altro che “apoti”. “Perché mi dà fastidio il loro piagnisteo di eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime”, scriveva ne “La Città futura”.

Per comprendere il significato del potere e delle sue forme, per poterlo ribaltare nel senso di una democrazia civile e moderna, c’è sempre più bisogno di mettersi sulla sua via. Via Gramsci.

Foto di Ugo Santinelli

 

 

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