di CARLA PERUGINI.
Quando morì pochi se ne accorsero, molti di più se ne meravigliarono, giacché lo davano per morto da un tempo imprecisato. È che lui s’era chiuso la porta dietro le spalle da così tanti anni, che il mondo s’era scordato di lui, a parte pochi amici o parenti a cui concedeva, in minime dosi, di accedere al suo cospetto o di telefonargli.
Conversatore brillante su qualsivoglia argomento (amava le arti come la tecnica, la letteratura e la musica, l’informatica e il lavoro manuale), spiritoso e affettuoso nei momenti d’euforia, sfidava, nei più frequenti periodi di depressione, la capacità di sopportazione dell’ascoltatore, a cui di rado concedeva il diritto di replica, sfiancandolo con la sua logorrea e le provocazioni intellettuali. Amava infatti proporre come modelli ideali, in politica come in altri ambiti, personaggi ambigui, destrorsi o autoritari, anticipando, per noi fedeli alla linea, già in tempi non sospetti la futura venerazione per un detestabile Putin, ovvero cancellando tutta la musica classica post bachiana (devo a lui la scoperta precoce di Pachelbel) o privilegiando una letteratura misticheggiante o reazionaria, della cui stupefacente bellezza di scrittura ci si sarebbe resi conto solo liberandoci dei paraocchi ideologici.
Ma lui amava stupire l’interlocutore anticipando il futuro, come quando cominciò a trafficare con i computer in un’epoca ancora gutemberghiana, o acquistando il rame quando gli altri lo consideravano un metallo buono solo per i tegami, o spaventandoci con una visione catastrofista del pianeta e del suo inquinamento quando ancora l’ambientalismo era un ridotto per anime belle.
Dipingeva, costruiva, inventava, scriveva, leggeva, con lo stesso furore inquisitivo con cui poi abbandonava le sue passioni a favore di altre destinate alla stessa sorte. Ma in realtà non lasciava mai niente del tutto: segnato dall’abbandono di un padre misconosciuto e dall’iperprotezione di una madre nevrotica, tutto ciò che prendeva per sé lo conservava. Quando dico tutto lo intendo in senso letterale: dai barattoli vuoti ai mozziconi di sigaro, dalle confezioni dei pacchi ai flaconi dei sedativi, l’accumulo seriale aveva reso un appartamento borghese un’impressionante discarica dove muoversi, sedersi, mangiare, dormire, erano azioni che potevano svolgersi solo seguendo dei percorsi di guerra, fra mucchi di libri, cimiteri di macchinari testimoni delle sue molteplici provvisorie vocazioni, aggeggi incomprensibili, panni i cui ultimi acquisti risalivano a tempi remotissimi, sì che era normale trovarlo scalzo e seminudo anche in pieno inverno.
Aveva paura della morte Joseph, delle malattie e della fine, anche se toccavano ad altri. Per questo evitava accuratamente manifestazioni di cordoglio, telefonate di condoglianze, men che meno partecipazioni a funerali et similia. Persino sua mamma la mandò sola al cimitero. Della morte del padre seppe qualche anno dopo, ricevendo un piccolo beneficio in dollari. Quel padre a cui ogni tanto scriveva lettere mai spedite, progettando viaggi in America mai compiuti. E come avrebbe potuto, se il percorso più lungo dei suoi ultimi anni lo effettuava sul balcone di casa? Casa come bozzolo in cui rinchiudersi, grembo in cui ritornare feto, in cui cancellarsi e farsi dimenticare. Non voleva vedere il male che aveva dentro e che lo ha stroncato senza fargli troppi danni, abbattendolo sul pavimento di quella cucina oscura, dove gli piaceva sperimentare ricette, mangiare il suo miele e bere il suo rhum, senza permettere mai al sole di entrarvi.
Ma abbiamo dovuto aprire le finestre, Joseph, per far entrare quegli infermieri e quei necrofori che tu non avresti voluto vedere, quelli che ti hanno portato via dalla tua casa ormai inutile, via senza neanche un oggetto. Anche i vestiti ti abbiamo dovuto prestare, per l’ultima rappresentazione, quella che ti avrebbe sicuramente fatto esplodere in una delle tue ironiche risate, nel vederti con camicia, cravatta e scarpe chiuse.
Aveva appena compiuto settant’anni e assomigliava un po’ a Kurt Vonnegut, uno dei suoi scrittori preferiti. Si chiamava Joseph Maniscalco ed io ero sua cugina.
La foto è tratta da avellinesi.it
Joseph è il ragazzo che stringe i libri tra le braccia.
Lo ricordo bene, anzi benissimo!
Siamo stati contraddittori ideologici e, forse amici per qualche tempo!
Mia madre è stata amica della madre che, sovente e già negli anni 60/70 si confidava, piangendo per quel senso di abbandono che la signora ha, involontariamente, trasferito al figlio.
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