di STEFANO KENJI IANNILLO.
Ad Avellino è esploso un fulmine a ciel sereno: all’improvvisio un boato assordante che si è potuto sentire attraverso ogni dispositivo: televisioni, telefonini, computer, messaggi privati. Mentre succedeva tutto questo, immagino che tante stanze di quel potere logoro formale e informale che per decenni ha distrutto la nostra città siano rimaste chiuse, impenetrabili dall’esterno ma pronte a captare ogni minimo segnale della città. Che ogni tanto qualche testa facesse capolino dalle finestre per vedere se per caso fosse finito il mondo.
Cosa sarà mai successo? Per quale motivo tanta rabbia e tanta preoccupazione?
Ebbene è stato eseguito un mandato di custodia cautelare agli arresti domiciliari per l’ex direttore dell’ispettorato del lavoro di Avellino– ora dirigente ministeriale e responsabile dell’ispettorato interregionale del lavoro di Napoli – a causa di alcune condotte da lui svolte durante l’esercizio della sua passata mansione in Irpinia. Insieme a lui le misure – con tanto di sequestro milionario – sono state corrisposte a due S.p.a. irpine di cui ancora non si conosce il nome.
L’accusa è molto grave e si spinge molto al di là della mera vicenda giudiziaria: il signor Pingue avrebbe chiuso un occhio (“compiuto atti contrari al proprio dovere di ufficio”) su una serie di malefatte compiute delle imprese con lui indagate nei confronti di alcuni lavoratori in cambio dell’assunzione di suo figlio.
In questa vicenda c’è tutta la tragedia di una città del sud appenninico come la nostra e il fallimento della sua classe dirigente che da decenni continua a riciclarsi e rigenerarsi, continua a riproporsi e a tutelare i propri interessi sulle spalle della città. In un capoluogo con una disoccupazione giovanile altissima, con una crisi iniziata ben prima del 2008 e che ancora oggi morde alle caviglie di migliaia di famiglie, con un’emigrazione giovanile che rasenta dei numeri vertiginosi, quello che emerge da questa inchiesta è una fotografia insopportabile degli artefici – messi bene in posa – della nostra condizione.
A volte in una fotografia un dettaglio svela il senso di tutta l’immagine: proviamo quindi ad avvicinarci a questa vicenda e verificare se effettivamente è possibile raccontare per suo tramite la nostra crisi ed individuarne – anche solo idealtipicamente – i responsabili. Perchè dire che la colpa è di tutti molto spesso è uguale a dire che la colpa è di nessuno.
Ci sono alcune cooperative di lavoratori che prestano servizi ad un’azienda. Già si potrebbe aprire una riflessione sull’uso delle cooperative e dell’esternalizzazione dei servizi – molto spesso anche con un combinato disposto con il lavoro interinale – per aumentare i profitti dell’azienda ( cioè dell’imprenditore) abbassando i salari dei lavoratori aggirando i contratti collettivi nazionali. In questo primo spaccato della vicenda si vede il tentativo di arricchirsi da parte del potere economico sulle spalle dei lavoratori e dei salari, l’idea della competizione come una competizione sui diritti e non sui saperi. In poche parole la miseria di una classe imprenditoriale che non investe in ricerca, diversificazione, riqualificazione e sviluppo ma semplicemente trova alcuni escamotage per abbassare i salari: già questa è una causa di emigrazione. Ma c’è di più.
Pare che a questi lavoratori non siano stati versati i contributi o che comunque non siano state eseguite tutte le tutele previste dai contratti, e anche qui assistiamo al disprezzo di quel minimo di sistema normativo ormai rimasto a tutela i lavoratori. A questo punto interviene il pubblico, lo stato e i suoi apparati che dovrebbero difendere l’interesse del soggetto più debole, peraltro truffato, da quello con il potere economico (il potere ricattatorio del licenziamento): arriva l’ispettorato del lavoro.
L’ispettorato del lavoro in una democrazia sana è un’istituzione fondamentale conquistata dai lavoratori per ottenere che il potere pubblico controlli il potere economico per tutelare l’esercizio dei diritti dei lavoratori che sono il fondamento della nostra democrazia costituzionale. Un ruolo di primaria importanza. Da noi è stato uno degli uffici di collocazione – più che di collocamento – di consorterie e clientele varie.
Cosa è accaduto quindi secondo le autorità investigative?
Di fatto l’ispettorato, su richiesta dell’ispettore, avrebbe chiuso ben più di un occhio sul torto subito dai lavoratori in relazione ai loro diritti e ai loro contributi lavorativi facendo in questo modo un favore agli imprenditori coinvolti. Per quale motivo? Qui interviene un tema central, quello della corruzione. L’azienda coinvolta in cambio avrebbe, infatti, assunto il figlio dell’ispettore, finito ora sotto custodia cautelare.
Avete capito? L’istituto che, ad esempio, dovrebbe controllare il lavoro nero che flagella migliaia di giovani irpini o che dovrebbe tutelare l’esecuzione dei diritti prescritti dai contratti di lavoro abiura al suo ruolo per sistemare una sola persona: il figlio. Sistemarne uno per mandarne via migliaia. L’emblema del sistema, della rete di consorterie della nostra città.
Ovviamente la vicenda giudiziaria è ancora aperta e noi aspettiamo con fiducia l’esito delle indagini, ma da questa prima fotografia forse è possibile trarre qualche insegnamento: quando cerchiamo le responsabilità di quello che quotidianamente succede ad Avellino facciamo attenzione a queste cose, a queste persone, a chi dovrebbe controllare, a chi dovrebbe fare economia pulita, civile, in grado di rilanciare un territorio ma invece punta solo all’arroganza del denaro e dell’accumulazione. E facciamo attenzione ai loro interessi, alle loro reti relazionali con il potere pubblico: in queste vicende non si è mai lupi solitari.
Che poi queste sono le stesse persone che ci dicono: ma perché restate qui, non c’è niente per voi, dovete emigrare!
Io, invece, aspetto che se ne vadano loro. Perchè non siamo noi ad avere carte sbagliate per costruirci un futuro in questa terra da cittadini liberi, sono loro a truccare il tavolo.
Le foto sono di Ugo Santinelii.
L’impaginazione è di Franco Festa.