L’identità della città “straniata”

di MARIA GRAZIA CATALDI.

<<Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville change plus vite, helas!, de le coeur d’un mortel)>>: così , nella raccolta dei Tableaux parisiens (1861) , primo esempio di poesia che descriva l’angoscia della città moderna, Charles Baudelaire esprimeva il proprio turbamento dinanzi alla Parigi delle ristrutturazioni realizzate da George Eugène Haussmann su incarico di Napoleone III tra il 1852 e il 1869. La raccolta è tutta imperniata sul rapporto tra il poeta e la nuova città, modernizzata e a tratti irriconoscibile, ma riflette in realtà il suo disagio a misurarsi con la variegata nuova umanità che la abita. Un sentimento molto umano ed universale, dunque, tradotto in poesia. In fondo, lo stesso disagio lo avvertono, oggi, le generazioni più anziane di fronte all’esperienza della trasformazione urbana e nel confrontarsi con i nuovi “memi”, favoriti senza dubbio dal diffuso uso dei social ,che connotano l’evoluzione culturale della popolazione di cui esse fanno ancora parte. È il senso di trovarsi in una città “straniata”, dove si fa fatica a ritrovare i propri ricordi e, ancor più, a trasmetterli adeguatamente ai giovani, che quella città della memoria non l’hanno mai conosciuta né possono trovarne riscontri sufficienti nella realtà quotidiana che li circonda.

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Generalmente un’attenta lettura della cartografia progressiva delle città dà un’ idea della loro trasformazione nel tempo, chiaramente leggibile sul piano urbanistico, ma anche spiegabile se rapportata alle dinamiche storico-sociali delle diverse epoche. Appare così evidente che un po’ alla volta il territorio urbano si è venuto a trovare come sdoppiato in due entità diverse e per certi versi antitetiche: un centro storico, ormai sempre più privato delle sue funzioni principali e, nel migliore dei casi, ridotto a mero luogo comune, da cartolina illustrata; e la città nuova, debordante e invasiva, il più delle volte conforme a schemi e criteri imposti da progetti preconfezionati, che finiscono col rendere molto simili tra loro le periferie urbane. La spaccatura tra le due realtà, un po’ più evidente nelle grandi città, ma purtroppo riscontrabile anche nei centri di provincia, ha col tempo determinato, così, una sorta di emarginazione dei nuclei più antichi, dovuta, oltre che a motivazioni di carattere economico-sociale, ad errati e miopi processi culturali. Questo contrasto, che è in sostanza la mancanza di una perfetta coincidenza tra “valori d’ uso” e “valori di contemplazione”, non è che il riflesso di un più grave squilibrio venutosi a creare tra popolazione e ambiente costruito, per un’ effettiva incapacità dell’uomo moderno di stabilire un rapporto spazio-temporale valido ed appagante con l’ambiente artificiale da lui stesso realizzato. Distruggere per costruire, insomma, e poi accorgersi che quello che si è costruito, magari eccessivo e sovradimensionato, non era in fondo così necessario, anzi perfino inutilmente oneroso.

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Le trasformazioni che cambiano il volto delle città seguono generalmente processi lenti, protratti nel tempo, a meno che non intervengano precise volontà, da parte di particolari tipi di governo, di lasciare segni evidenti del proprio potere o, più spesso, eventi sconvolgenti ai quali dover porre rimedio. A distanza di tempo è ormai evidente come un terremoto devastante, come quello irpino del 1980, di cui in questi giorni ricorre il triste anniversario, possa fare molti più danni di quelli immediatamente visibili e quantificabili. La ricostruzione, per quanto filtrata e tenuta sotto controllo dagli Organi preposti a compiti di conservazione e di tutela, peraltro spesso fraintesi ed osteggiati, innesca inevitabilmente meccanismi collettivi di aspirazione alla modernità, di ricerca spasmodica del “nuovo” ad ogni costo, e finisce assai spesso col diventare una sorta di “autodistruzione innovativa”. Recuperare il più possibile e restaurare secondo criteri rigorosi e legittimati dalle normative vigenti: era questo il compito di una Soprintendenza istituita appositamente all’indomani del disastroso evento. La compartecipazione ai Piani di Recupero redatti dalle Amministrazioni Comunali più avvedute della provincia ha consentito di restituire alle comunità locali un patrimonio di beni: castelli, chiese, palazzi signorili, scalinate, cortili, interi borghi antichi; il cui significato va ben oltre il valore delle pietre. Esso rappresenta, infatti, l’irripetibile testimonianza di un passato fatto di storia, di leggende, di tradizioni, di punti di riferimento, che costituiscono complessivamente l’identità culturale di una popolazione, definendone e tramandandone la vera essenza genetica.

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Più complesso e difficoltoso è stato il percorso nella ricostruzione della città capoluogo, dove per buona parte, in fondo, si erano già allentati i legami più profondi con le proprie radici. Per me, che ero nata e vivevo in gioventù la mia quotidianità nella parte occidentale della città, quella sviluppatasi specialmente nel dopoguerra, il rione Terra con il suo circondario rappresentava quasi un oltrefrontiera, dove ci si allungava raramente e quasi esclusivamente in occasioni speciali. Confesso che solo davanti alle macerie del dopoterremoto ne ho compreso fino in fondo il valore intrinseco, di testimonianza concreta di un passato al quale riallacciarsi per potersi ritrovare tutti insieme a programmare, in un percorso di continuità culturale identitaria, un futuro per le nuove generazioni. Dopo una decina d’anni vissuti altrove, proprio nei mesi successivi a quel maledetto 23 novembre avevo deciso di tornare nella mia città natale per dare anche il mio modesto contributo all’attività di interventi postsismici svolta dalla neonata Soprintendenza di Mario De Cunzo, che fin da subito si oppose con ogni mezzo alle “ruspe selvagge” (mi piace ricordarlo a quei nostri concittadini che allora lo criticavano ferocemente e ora piangono la città perduta!), pronte a fare piazza pulita anche di quel poco risparmiato dal sisma; e lo spettacolo che vedevo dovunque intorno a me era davvero terribile.

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Il terremoto, distruggendo il centro storico della città, aveva in realtà infierito su un organismo già debole, devitalizzato dall’abbandono e dal degrado, conseguenti, sì, ad uno sviluppo urbano naturalmente eccentrico, ma anche ad un generale disinteresse culturale della classe amministrativa e, di conseguenza, degli stessi abitanti. La ricostruzione divenne ben presto terreno di scontro tra chi si batteva per una sana conservazione di una piccola città di provincia, non particolarmente bella ma “a misura d’uomo”, e chi, invece, voleva a tutti i costi cogliere l’occasione per realizzare il sogno di una città finalmente “moderna”, rivelatosi poi, in quanto limitato ad aspetti formali privi di contenuto, sostanzialmente irrealistico e fortemente sovradimensionato . Ancora nel 1984 l’Amministrazione Comunale di Avellino, con la solita motivazione della pubblica incolumità e sulla base di fredde valutazioni tecniche, varava una serie di sbrigative ordinanze di demolizione; mentre la Soprintendenza, raccogliendo le deleghe di interi condomini, progettava e realizzava il restauro di antichi edifici del centro storico, con adeguamento antisismico, oltre che abitativo, e a prezzi competitivi. E che dire del Corso Vittorio Emanuele, la strada principale della città, del passeggio e dello shopping, caratterizzata da due cortine di interessante architettura ottocentesca, sostanzialmente risparmiate dalla violenza sismica? Qui si instaurò un vero e proprio braccio di ferro tra Comune e Soprintendenza e partì una lotta contro il tempo per l’imposizione di vincoli, che in qualche modo impedissero abbattimenti a tappeto e una ricostruzione completamente fuori contesto. Per l’ingerenza della politica, quando quella locale coincideva per buona parte con quella nazionale, il Ministero Beni Culturali mediò per una soluzione senza né vinti né vincitori, con un vincolo architettonico d’insieme, che consentiva di demolire ma con l’obbligo di conservare almeno nelle facciate lo stesso numero di piani e la stessa alternanza di vuoti e di pieni degli edifici preesistenti. Una scelta obbligata, insomma, rivelatasi, alla luce dei risultati, piuttosto ambigua, perché si è cancellata di fatto la matrice formale fondamentale di origine ottocentesca; e tuttavia meno stravolgente, rispetto ai discutibili progetti già previsti per quella zona. E non era neanche il peggio, visti gli orientamenti degli anni successivi, quando la ricostruzione è diventata via via un intreccio di interessi, che poco avevano a che fare ormai con la sana umana esigenza di riprendere la vita dopo aver pianto i morti.

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Lo sviluppo ottocentesco verso ovest della città, che pure aveva determinato un’iniziale cesura tra il nucleo originario e la zona di espansione sulla direttrice per Napoli, aveva una sua logica. Non l’ha, invece, la crescita disordinata di questi ultimi decenni intorno ad un dedalo di strade e stradine invase da automobili, dove il cemento, che già aveva cancellato il nostro ricordo dei caratteristici corsi d’acqua che attraversavano alcuni tratti urbani, ha finito con l’inghiottire anche il verde dei giardini davanti a decorose palazzine diventate anonimi palazzi condominiali; e neanche la smania megalomane che ha creato inutili mostri e cattedrali nel deserto, nell’illusione vana di liberarsi di un provincialismo invece sempre più evidente. Non l’ha neanche l’abbandono a se stesse delle periferie, piene di quartieri-dormitorio e di gente raramente radicata sul territorio, dove vanno scomparendo inesorabilmente negozietti e botteghe di artigiani, luoghi dove avvenivano quotidiani scambi di varia umanità, mentre le invadono catene di supermercati importate da un altrove sul quale a volte è meglio non indagare.

Quello che non si è riusciti a recuperare, diciamocelo francamente, è piuttosto l’ “anima” della città: quell’insieme di elementi, non tutti positivi al cento per cento, naturalmente, ma pur sempre peculiari, che ce la facevano amare nonostante tutto e facevano tornare sempre volentieri chi, per necessità, ne viveva lontano. Un’amara sconfitta per chi in tanti modi ha provato a far conoscere aspetti di una “storia minore”, leggibile ancora attraverso quelle che sembravano soltanto “pietre vecchie”, alle quali si è cercato di dare il significato più dignitoso di “monumenti”, finalizzando ogni attività a ristabilire sentimenti di appartenenza vera alle proprie radici. Insieme a qualche assessore “illuminato” delle passate amministrazioni si è pure dato vita ad iniziative di divulgazione con pubblicazioni, mostre, visite guidate … ; ma è sconfortante constatare come poco o niente di tutto ciò sia stato davvero recepito: basta leggere sui social alcuni post di improvvisati “cultori della cultura” dell’ultim’ora o perfino le recenti paradossali “sviste” (per usare un eufemismo) sui cartelli turistici della città, per rendersene conto. A rattristarci è soprattutto che queste considerazioni ormai capiti di farle sempre più frequentemente soltanto tra amici di una generazione in via di estinzione, come la mia, che pure hanno vissuto tante diverse stagioni e della propria infanzia e giovinezza conservano ricordi belli e meno belli, ma restano pur sempre animati dalla voglia di dare un senso, da cittadini prima che da individui, alla propria esistenza.

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Forse, a ben riflettere, la città, con tutto quello che essa comprende, si va disgregando sempre più, materialmente e spiritualmente, perché è solo così che può andare, considerato il più ampio e generale vuoto di valori sociali e culturali dell’epoca che stiamo vivendo. E, mentre a prevalere sembra essere la cultura “mordi e fuggi”, mi viene da pensare che quando anche noi saremo passati nel tempo (“Non è il tempo che passa, siamo noi che passiamo nel tempo” usava dire il mio professore di Scienze del Liceo), probabilmente non si avvertiranno neanche più l’angoscia e il senso di estraniazione di fronte alla propria città divenuta “altra”; ma soltanto perché l’evoluzione culturale, già oggi fatta quasi esclusivamente di “memi” fluidi ed estremamente labili, finirà col rendere sempre meno definibile il concetto di identità culturale. Quanto a noi, nutrendo ancora sentimenti di baudelairiana nostalgia, continueremo forse fino all’ultimo ad assistere, sia pure sentendoci pressoché impotenti, all’affermarsi di un mondo fondato prevalentemente sull’ “a-valorità” (mi sia consentita questa licenza lessicale, ché non saprei trovare un’altra parola altrettanto pregnante) e sul narcisismo, individuale e collettivo, come modelli culturali evolutivi; ma, ne sono certa, senza rinunciare ad attendere di veder risplendere il sole sull’ “inverno del nostro scontento”.

 

 

 

Le foto sono di Ugo Santinelli

 

 

 

 

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