di UGO MORELLI.
Ogni cosa è connessa ad un’altra nell’evoluzione dei sistemi viventi. Spostare l’attenzione e la conoscenza dagli enti alle relazioni è stato per me una rivoluzione. Da quella base si sarebbero evolute le mie ricerche e il miei interessi verso l’intersoggettività umana e la creatività. La distinzione specie specifica di noi umani, che sappiano comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori disponibili, è diventata la mia priorità di studio, insieme alla crisi della vivibilità negli ecosistemi.
Comunicazione, intersoggettività, corpo-mente, creatività, vivibilità, ecosistemi, sono concetti raccolti da fonti che vanno dall’esperienza diretta, allo studio e alla ricerca.
Ogni volta che ripercorro il cammino fatto mi vengono in mente due luoghi frequentati con assiduità, disadorni e sobri, ma proficui e generativi, due librerie di Avellino che, da quando non ci sono più, la città è più povera. Da Book Show trovai – e non ne conoscevo l’esistenza – il libro di Morris Mitchell Waldrop, Complessità, che la coraggiosa casa editrice Instar Libri aveva pubblicato nel 1996. Da Petrozziello mi imbattei in una vecchia copia di Arthur Koestler, L’atto della creazione, Astrolabio Ubaldini, Roma 1975. Molti stimoli e spunti ad avviare la mia ricerca sulla creatività sarebbero venuti da quel libro, fino al mio Eppur si crea, Città Nuova, Roma 2018. Le librerie e i librai migliorano le città: grazie a Tonino Petrozziello avrei conosciuto anche Generoso Picone e il percorso che qui voglio raccontare sarebbe stato intriso felicemente e fino a qui di quei luoghi e di quegli incontri avellinesi.
Comunicazione
Era il 1973 e studiavo al Dipartimento di Psicologia della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Frequentando il corso di Psicologia Sociale con il Professor Augusto Palmonari, ho incontrato un libro di testo che, per uno studente del primo anno di Università con una formazione classica, si configurò come un vero e proprio rompicapo al punto da togliere il sonno. Quella copertina gialla in brossura sarebbe diventata prima un incubo, poi un mito che non mi abbandona ancora oggi e che appena posso cerco di condividere con chi studia con me. Persino i nomi degli autori, di uno in particolare, erano impegnativi. Il portatore di quel nome lo avrei poi conosciuto e sarebbe diventato un riferimento per tanti approfondimenti, ma allora non lo sapevo ed ero preso da attacchi di quasi odio nei suoi confronti in quanto primo firmatario del libro, mentre provavo a capirci qualcosa. Palmonari con la sua dolcezza e signorilità, sia a lezione che durante i colloqui di ricevimento, esprimeva indicazioni confortanti sul fatto che l’impegno a studiare quel libro sarebbe stato premiato da scoperte importanti. Con tutta la fiducia nei suoi confronti, per quel grande maestro che mostrava di essere, lo sconforto durò a lungo, anche quando nello studiare il testo la componente narrativa che conteneva toglieva speranze di accessibilità almeno quanto la parte teorica e metodologica. L’illuminazione arrivò, e non me ne sarei più allontanato, quando a un certo punto capii che dovevo spostare l’attenzione dagli enti in relazione alla relazione tra gli enti. Mi apparve chiaro, cioè, che la questione decisiva per le discipline psicologiche che stavo studiando non era tanto e solo il comportamento di A che può decidere se entrare o meno in relazione con B, ma che è la relazione che fa di A e B quello che sono e diventano. Quel tutto intrecciato più volte che poi avremmo chiamato complessità in una bellissima stagione del pensiero, cominciava a prendere forma in me e apriva finestre inaudite di comprensibilità e di scoperta. Ricominciai allora a leggere il libro daccapo, tornando indietro da dove ero arrivato e andai subito a raccontare la cosa a Palmonari, che mi riconobbe l’amore-odio per un orientamento che riconosceva sconvolgente degli ordini epistemologici e mentali precedenti e che si palesa all’improvviso fornendoti una nuova prospettiva di lettura del mondo e di te stesso. Ripresi la mia copia del libro che ormai cominciava ad essere sottolineato in molte delle sue parti e non lo mollai più. Quella copia è qui, ora, davanti a me, usatissima ma in salute; non è invecchiata né nella struttura fisica, né nel contenuto e regge molto bene il tempo, con cui mostra di coevolvere efficacemente: “Pragmatica della comunicazione umana”, Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Donald deAvila Jackson, Astrolabio Ubaldini, Roma 1967. Oltre cinquanta anni di vita non hanno scalfito il valore di innovazione e di fondazione di una prospettiva epistemologica cruciale per comprendere i modelli interattivi tra esseri umani, con i relativi paradossi e le relative patologie. Il mondo è cambiato più volte e la semina di quel libro ha prodotto molti frutti che nel frattempo hanno cambiato anche il senso e il significato del seme, ma la svolta che rappresentò per me è divenuta parte integrante del mio modo di affrontare le cose, di formulare un’ipotesi o di impostare un percorso di ricerca. Il valore più rilevante mi pare derivi dalle sponde che quel libro mi ha offerto anche quando le ho adoperate per criticarle e superarle.

Da Watzlawick non mi sarei più allontanato, seguendolo criticamente e mettendone in discussione un certo meccanicismo comportamentista, ma soprattutto una dimensione tutta cognitiva, ma assumendone il valore di svolta che, insieme a tutta la scuola di Palo Alto, il suo contributo aveva rappresentato per la comprensione del comportamento umano. Quando ebbi tra le mani Change capii che qualcosa era cambiato in quello che andavo cercando. Più di tutto mi interessava la discontinuità, la vita al margine di se stessa, il conflitto come madre di tutte le cose, i vincoli e le possibilità di emergenza dell’innovazione. “Change”, di Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch, Astrolabio Ubaldini, Roma 1974, fu per me la conferma che fosse necessario volgere l’attenzione alla creatività per comprendere cosa significhi essere umani. L’interdipendenza costitutiva tra le parti e il gioco delle reciproche aspettative erano fattori determinanti nelle dinamiche relazionali e le proprietà emergenti caratterizzavano i sistemi viventi come espressione delle proprietà fondative, seppur non ad esse completamente riducibili. Prendeva forma in me quel modo nuovo di pensare e di trattare le idee che sarebbe divenuto l’abito di ogni percorso di ricerca e conoscenza sviluppato da lì in avanti.
Ecologia
Fu un altro incontro di quelli che cambiano e scombinano gli ordini precedenti a consolidare il quadro ma anche a disarticolarlo in direzioni allo stesso tempo impreviste e auspicate. Quel tanto di determinismo di troppo che avvertivo nell’analisi sistemica del comportamento fu travolto senza tregua dalla tempesta che si creò leggendo, o meglio sarebbe dire, divorando Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson, Adelphi, Milano 1972. L’argomentazione e la struttura dei contenuti fu destabilizzante da molti punti di vista. Per dichiarazione esplicita dello stesso autore ero di fronte a “una scienza che ancora non esiste come corpus organico di teoria o conoscenza». Percepivo chiaramente di essere di fronte a un inedito paradigma scientifico che cercava di prendere forma e che sentivo essenziale per un presente in profonda trasformazione. Erano le categorie analitiche che promettevano di aiutare a comprendere questioni che prima erano percepite del tutto distanti, come la disposizione strutturata delle foglie di una pianta, o la crisi del rapporto tra uomo e ambiente, oppure la natura del gioco, la complessità dell’evoluzione biologica o la grammatica di una frase. Il modo in cui si combinavano intuizioni ipotetiche inaudite e scoperte scientifiche apriva a prospettive che un percorso formativo basato principalmente sugli orientamenti della scienza classica non aveva non solo previsto ma neppure immaginato. La contingenza delle interdipendenze relazionali, ad esempio, con la formulazione dell’ipotesi del doppio vincolo, collocava la comunicazione umana e la stessa individuazione soggettiva in una luce del tutto inedita. Le stesse idee e la loro formazione assumevano una connotazione che induceva a rivedere il rapporto tra soggetto e sapere. Oltre a ridefinire il senso stesso dell’epistemologia, che smetteva di essere solo l’analisi filosofica delle teorie scientifiche per diventare una indagine sulla genesi e l’evoluzione delle idee e della conoscenza, il paradigma sistemico induceva a deporre la centralità sovrana dell’osservatore e collocare quest’ultimo nella circolarità ricorsiva del processo stesso di conoscenza. Mi si presentavano allora due questioni che divennero oggetto continuo di riflessione sia individuale che all’interno della comunità di pensiero che intorno a queste tematiche andava sviluppando un fervido confronto. Anche questo, infatti, è stato l’avvento del pensiero sistemico: un proficuo periodo di emergenze di gruppi e comunità di pensiero con produzioni in parte rese pubbliche, ma principalmente oggetto di conversazioni infinite, tanto estenuanti quanto coinvolgenti. La prima questione fu e tuttora è l’elaborazione della ferita narcisistica derivante dalla crisi della rassicurazione dell’osservazione a distanza propria del metodo della scienza classica. Mi ritrovai, insieme ad altri, a considerare le ambigue conseguenze dell’immersione nel processo di conoscenza e l’impegno a rivolgere a me stesso, soggetto conoscente, i dubbi e i procedimenti adottati nei confronti dell’oggetto da conoscere. Non era facile rinunciare alla sicurezza maturata negli anni di formazione che, per quanto illusoria, poneva in posizione di centralità e proiettava verso conquiste di parti di conoscenza oggettiva, con la prospettiva di un’accumulazione progressiva in grado di separare nettamente l’osservatore dalla realtà osservata.
La seconda questione era la pervasività dell’orientamento sistemico che metteva in discussione i confini disciplinari, attraversando i diversi ambiti del sapere e connettendoli tra loro, non solo con quello che si proponeva come un paradigma innovativo, ma sollecitando ogni disciplina a riconoscersi in parte delle altre con una vera e propria ibridazione di codici. Se il punto di vista, gli orientamenti di valore dell’osservatore e le sue componenti emozionali venivano a far parte del processo di conoscenza e dei risultati conseguibili, la scena e il ruolo degli attori cambiavano decisamente e al centro di tutto si poneva la relazione. Era l’inizio di un percorso che avrebbe cambiato l’ordine delle cose nella ricerca e non solo, per giungere fino a quella che oggi può essere descritta come una rivoluzione copernicana che ha portato a mettere al centro la relazione e a concepire la soggettività e l’individuazione come emergenti dall’intersoggettività. Seguendo il percorso delle “domande dietro le domande” e le provocazioni di Bateson sarei arrivato alle Macy Conferencies e alla ricerca delle condizioni di una scienza della mente e dell’ordine, come lo stesso Bateson e il successivo incontro con Heinz von Foerster mi avrebbero indicato. A partire dalla lettura degli atti della Inaugural Macy Conference, intitolata: “Feedback Mechanisms and Circular Causal Systems in Biological and Social Systems” dell’8 e 9 marzo 1946, a New York, mi immersi in quella vera e proprio miniera d’oro da dove i componenti del core group estraevano pepite ogni volta più preziose. Oltre a Bateson, allora, mi addentrai nella ricerca di W. McCulloch che W. Pitts aveva svolto uno dei più avanzati tentativi di individuare la connessione tra corpo e mente, giungendo a proprorre una lettura dell’embodiment of mind che allora fu una luce nella persistente morsa del dualismo e nella trappola del confronto tra comportamentismo e cognitivismo, come è ampiamente documentato sia in W. McCulloch, H. Maturana, J. Lettvin, W. Pitts, Anatomy and physiology of vision in the frog, 1960, Journal of General Physiology, 43:129—175; sia in W. McCulloch, Embodiments of mind, MIT Press – Boston, 1965 – 2016, ultima edizione come e-book con prefazioni di J. Lettvin e M. Arbib ed introduzione di S. Papert, ASIN B01M3UPJ87. Il cosiddetto mind-problem non poteva non porsi in modi inediti dal momento che così tante premesse epistemologiche ponevano al centro la relazione come fattore costitutivo dei sistemi viventi. Appunto, i sistemi viventi. Fu allora che spuntò sul mio cammino con uno dei suoi guizzi inconfondibili Heinz von Foerster.
Arrivò la differenza tra trivial machine e no-trivial-machine, arrivarono le analisi sui limiti della conoscenza e sugli indecidibili, arrivarono gli esperimenti del Biological Computer Laboratory.
Indecidibili
Quando nel corso di alcuni seminari condotti insieme sulla montagna del Renon, sopra Bolzano, sul tema: Il senso e la misura, Heinz von Foerster si divertiva a raccontare quegli esperimenti e a proporne alcune versioni semplificate agli allievi con i suoi magici foglietti, mi trovai a ripercorrere il lungo cammino fatto fino e a rendermi conto della fortuna che avevo e ho avuto a immergermi in quel mondo nascente di un nuovo paradigma conoscitivo. La cosa più bella di tutte è stata però la relazione con Heinz e la sua presenza giocosa e profonda, generativa e divergente, capace di fecondare i presenti anche con lo stile oltre che col contenuto. Se si pensa che il Biological Computer Laboratory (BCL) era un istituto di ricerca del Dipartimento di ingegneria elettrica dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign fondato il 1 gennaio 1958 dall’allora professore di ingegneria elettrica Heinz von Foerster che ne è stato il capo fino al suo ritiro nel 1975, si può avere una prova della originalità transdisciplinare dell’approccio sistemico. La ricerca al BCL era incentrata sulla teoria dei sistemi e uno degli aspetti che più di altri fecondarono la mia ricerca fu l’area di studio relativa ai sistemi auto-organizzati. I self-organizing-system furono una scoperta e guidarono verso una nuova visione del rapporto tra struttura e organizzazione dei sistemi viventi che avremmo poi potuto approfondire con Humberto Maturana e Francisco Varela. Quando Maturana, in una serata di compagnia e feconda conversazione a S. Martino di Castrozza, dove eravamo insieme per un convegno con Mauro Ceruti, lo stesso Heinz von Foerster, Donata Fabbri, Alberto Munari, Carla Weber, e altri, ci parlò dell’amore come espressione cruciale delle dinamiche relazionali dei sistemi viventi, capimmo che l’ampiezza della ricerca basata sull’orientamento sistemico non aveva limiti e mostrava di promettere molto in termini di approfondimento dei nostri saperi. In assonanza con le interdipendenze tra informatica, biologia e cognizione, che era un intreccio di fenomeni alla base delle ricerche del BCL, accolsi con meraviglia e fascinazione profonda l’arrivo di un piccolo libretto che Mauro Ceruti mi portò una sera da Firenze. Una casa editrice che non conoscevo e che poi ci ha regalato libri come Il cristallo e il fumo di H. Atlan, Hopefulmonster, Firenze 1979, aveva stampato Scienza e tecnologia della cognizione di Francisco Varela, Hopefulmonster, Firenze 1987. Quel libro ci portava dentro una prospettiva così innovativa dell’apprendimento e della conoscenza umana, del rapporto tra biologia e conoscenza, del rapporto tra autonomia dei sistemi viventi e loro forme di adattamento all’ambiente come cogenerazione, che si produsse un altro capitombolo delle certezze e altri mondi inediti si presentarono alla nostra possibilità di scoperta. L’attenzione all’autonomia e alla socchiusura dei sistemi viventi mi aiutò a sviluppare una critica all’ipotesi dei sistemi aperti che sembrava scontata fino ad apparire ideologica. La combinazione tra quel piccolo aureo libretto e l’analisi sistematica contenuta in Autopiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, di H. Maturana e F. Varela, Marsilio, Venezia 1980, grazie alla traduzione e alla cura di Giorgio De Michelis, fu un importante antidoto anche alla fascinazione del costruttivismo radicale a la Ernst von Glasersfeld. La capacità autonoma endogena di un sistema, senza consegnarsi al determinismo, aiutava a non perdere di vista le persistenze e la loro circolarità ricorsiva con le emergenze e le loro molteplicità proprietà. Di particolare interesse divenne allora il fatto che studi precedenti e di particolare rilevanza per me, come la Teoria generale dei sistemi viventi di L. von Bertalanffy, Oscar Saggi Mondadori, Milano 2004, o Introduzione alla cibernetica di R. Ashby, Einaudi, Torino 1971, grazie alla intermediazione dell’irrepetibile contributo alla mia vita e alla mia ricerca di Giorgio Prodi, si resero efficaci e rilevanti per la cruciale funzione del corpo e della biologia evolutiva.
Complessità
Furono il fitto dialogo con Mauro Ceruti e Gianluca Bocchi, con Fulvio Carmagnola, Giuseppe Varchetta e Carla Weber e la nascita e l’impegno per realizzare la rivista Pluriverso, dopo gli anni successivi a La sfida della complessità, a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Feltrinelli, Milano 1985, ma anche lo studio approfondito di Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos, di M. M. Waldrop, Instarlibri, Torino 1996, a produrre un’evoluzione nel mio rapporto con l’approccio sistemico.
Si è stemperato nel corso del tempo mentre ha svolto la sua funzione, l’approccio sistemico, nel mio percorso di ricerca e applicazione. Come crisalide con farfalla mi ha aiutato fino a una inenarrabile contribuzione, ma ha mostrato anche i suoi limiti. Come scrive in un suo verso unico e irripetibile Marina Cvetaeva: “…dismisura in un mondo di misure…”, si sono presentate al mio orizzonte due svolte che mi hanno portato ad evolvere certo con la teoria dei sistemi ma oltre i suoi limiti. In primo luogo la dimensione autoreferenziale della logica sistemica e la sua dimensione computable che, da un lato non consentiva di spiegare i cambiamenti e le discontinuità e dall’altro costituiva la base delle euristiche e dei bias che vincolano i sistemi su se stessi generando path dpendence e resistenze al cambiamento. In secondo luogo la sempre più evidente necessità di comprendere le vie per le quali si genera la creatività e emergono le proprietà trasformative nell’intersoggettività umana e nelle dinamiche in cui agisce la molteplicità condivisa. Partendo dall’ipotesi che solo la creatività ci potrà salvare, ho esteso il concetto di sistema al sistema vivente planetario e mi sono interrogato e mi sto interrogando sulla creatività. Siamo terrestri, abitanti del pianeta Terra, come tutti gli altri esseri del sistema vivente che si è evoluto prima di noi e insieme a noi. Siamo di fronte alla nostra prima possibilità di generare l’ambiente di cui viviamo utilizzando la nostra capacità creativa, soprattutto in modo non distruttivo.
Disponiamo della creatività e, per quanto scivolose e spesso confuse possano essere le accezioni con cui se ne parla, oggi siamo in grado, con un orientamento transdisciplinare, di accedere a una lettura più precisa e puntuale delle capacità creative umane. In questo percorso di ricerca, la creatività viene intesa come un comportamento distintivo specie-specifico di noi umani, che ci mette in grado di comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori disponibili, materiali e non. Mentre acquisiamo il linguaggio verbale creiamo allo stesso tempo, in una circolarità ricorsiva, il nostro pensiero simbolico e gettiamo le basi per la capacità di creare quello che prima non c’era o quello che non c’è e mai ci sarà, come la sirena o il minotauro. Il pensiero simbolico non è innato, ma emerge e tende a svilupparsi internalizzando il processo di simbolizzazione sotteso al linguaggio. Ciò che sembra determinare la nostra distinzione rispetto agli animali non umani non è il fatto che siamo organismi con qualche specialità – anche altri animali hanno specialità organiche che noi non abbiamo –, bensì la capacità di ritenzione terziaria, cioè la tecnica e la cultura, che agisce simultaneamente con la primaria, che è data da azione e percezione insieme, e con la secondaria, che è la memoria. La combinazione simultanea di queste capacità interviene nella nostra esperienza e genera particolari discontinuità dalle quali può nascere la creatività che si esprime nei diversi ambiti della nostra vita, sia in esiti emancipativi che distruttivi. Dalla creatività umana, infatti, nasce sia il bene sia il male. Dobbiamo probabilmente rivedere la nostra comune e diffusa concezione secondo cui l’uomo avrebbe un mondo mentre l’animale non umano avrebbe un mondo povero. Quest’ultimo, l’animale non umano, tende ad avere un mondo compiuto, non povero, cioè un oikos a cui appartiene abitandolo tacitamente. Siamo noi umani in quanto esseri neotenici, non ancora stabilizzati e mai coincidenti del tutto con noi stessi e con quello che è dato intorno a noi, a essere poveri di mondo, e per questo motivo abbiamo bisogno di tecnica, di techne, e prima di tutto del linguaggio, della creazione della scrittura e della cultura. Espressione di un sistema, quello vivente, che evolvendo si crea, noi creiamo prima di tutto apparati tecnici che vanno a comporre un corpo-mente esteso. È nella capacità tecnologica che gli esseri umani creano la propria umanità, così come si individuano nell’intersoggettività e creano la socialità. La tecnica, quindi, come prima creazione umana, precedente alle norme e ai valori, sembra fungere da cerniera tra ontologia, tra quello che c’è nel mondo, ed epistemologia, il nostro sapere intorno al mondo. Noi esseri umani siamo un corpo che si muove e tende non solo a soddisfare i propri bisogni, ma a rinviare continuamente oltre la soddisfazione già raggiunta. Per queste e altre ragioni creiamo il mondo in cui viviamo, dove per mondo intendiamo il sistema artificiale, cioè fatto ad arte, inclusi gli antecedenti preesistenti in cui si esprime la nostra vita. Possiamo chiederci se sia plausibile che un conglomerato di cellule nervose e di loro prolungamenti assonici e dendritici, in cui circolano segnali elettrici e chimici, possa essere all’origine di operazioni apparentemente tanto immateriali come la creazione. Le risposte di cui disponiamo ci consentono oggi di sostenere che sul piano fisico e biologico non vi sono ostacoli. Appare evidente che più si sale nell’organizzazione gerarchica del sistema nervoso, più l’auto-organizzazione, e di conseguenza la capacità di creare, emerge, a condizione che vi sia apertura e interdipendenza tra corpo, cervello, mente e ambiente.
La capacità creativa che ci distingue la utilizziamo per un ampio spettro di scopi, generativi e distruttivi. Oggi, per la prima volta, siamo di fronte alla constatazione della nostra potenzialità distruttiva sul nostro ambiente, sugli altri e su noi stessi.
Ecosistemi
Constatiamo, infatti, per la prima volta e con profondo disorientamento, che la Terra si sottrae a noi umani e reagisce alle nostre azioni con sconvolgimenti climatici globali e locali. Ci rendiamo conto allo stesso tempo che la nostra presenza umana, così pervasiva, non è solo, spesso, distruttiva per il sistema vivente di cui siamo parte, ma è caratterizzata da antagonismi interni alla specie, che fanno sì che gli umani, anziché valorizzare le differenze, tendano a rinchiudersi in posizioni di negazione, di esclusione e di subordinazione. Non riusciamo ancora a trovare una risposta generativa alla domanda su come possiamo essere così diversi pur essendo così uguali. Né riusciamo ancora a fare un utilizzo creativo e non distruttivo della nostra competenza simbolica, in modo da rispettare la riproducibilità del mondo di cui siamo parte. Conviviamo con la più o meno tacita assunzione di una mente statica che preserviamo da smentite e verifiche sperimentali, in quanto viviamo come pericoli le smentite controintuitive e i risultati destabilizzanti delle nostre certezze. Del resto Ludwig Wittgenstein ha riconosciuto che per noi umani il problema principale è liberarci della certezza dei nostri concetti e delle nostre credenze. Un modo di rassicurarci è̀ tendere a neutralizzare tempo, corpo e cultura, quando consideriamo noi stessi e le nostre modalità esistenziali ed espressive. Si producono e affermano continui circoli viziosi la cui analisi critica può consentire una maggiore comprensione e un’apertura a inedite possibilità di espressione della nostra creatività e generatività. Assumere che gli oggetti del mondo appartengano a categorie prefissate e che, quindi, esistano descrizioni essenziali delle cose, conduce a un circolo vizioso. Tenere fisso il mondo intorno a noi è indubbiamente rassicurante, ma fallace: quel mondo coevolve con noi ed è contemporaneamente e contingentemente il nostro intorno e il nostro interno. Un altro circolo vizioso si instaura quando si ritiene che concetti e linguaggio poggino su regole che acquistano significato grazie a un’assegnazione formale alle categorie prefissate del mondo e che, quindi, la mente sia uno specchio della natura. In un ulteriore circolo vizioso si entra ponendo al centro l’io e l’individuo singolo e non l’intersoggettività. È ̀ arduo, infatti, per noi, accettare che la dimensione di un evento o di un processo trascenda le nostre preferenze e convinzioni. Emerge immediatamente quale resistenza esista davanti all’opportunità di concepire un problema come intersoggettivo. Eppure anche la creatività, come tutto quello che riguarda le nostre espressioni e i nostri comportamenti, vede come fondativa l’intersoggettività: è nell’intersoggettività che ci individuiamo. È in una stabilizzazione di modi collettivi di pensare e di agire, di desiderare e di preferire che si sviluppa l’inesauribile capacità umana di dare senso al mondo, di conservarne e di produrne di nuovo, di sviluppare una memoria e creare l’inedito. La creatività è un atto soggettivo possibile in un clima intersoggettivo e sociale favorevole. La disposizione ad anticipare l’inedito dipende strettamente dal riconoscimento sociale che l’inedito ha e, quindi, da quanta incertezza e tolleranza delle differenze una comunità umana ammette e riconosce.
«L’unica cosa certa è che nulla è certo», ha scritto Plinio il Vecchio [Naturalis historia, Guardini, Pisa 1984]. L’incertezza è una possibilità individuabile e riconoscibile per l’Homo sapiens e probabilmente solo per gli appartenenti alla nostra specie. Per riconoscere l’incertezza c’è bisogno della presa di distanza dall’appartenenza tacita, immediata e pratica, al mondo. Sono il pensiero simbolico e il ragionamento ipotetico a consentire questo alla nostra specie. L’incertezza è certamente fonte di ansia, ma allo stesso tempo è e può essere il grembo della creatività, della generazione dell’inedito. Senza la discontinuità che l’incertezza suscita non avremmo con ogni probabilità lo spazio generativo per l’emergere dell’inedito, di quello che prima non c’era. Conosciamo il mondo per ipotesi e, come aveva sostenuto Giorgio Prodi, apparteniamo alla specie Homo ipoteticus.
Creatività
Quando si affronta la creatività non si tratta di prevedere il futuro. Si può, invece, far parlare i fatti attuali, imparare a essere attenti alle loro possibili conseguenze, individuare le priorità che contano e anticipare l’evoluzione in corso con investimenti personali e professionali adeguati. Così come possiamo imparare il rischio, o imparare a decidere meglio, allo stesso modo è possibile sviluppare capacità per anticipare i processi che contano e coglierne in tempo le opportunità generative. Il tema dell’anticipazione si sta affermando a diversi livelli della ricerca, sia nelle scelte pubbliche che nelle organizzazioni aziendali.
Delle diverse forme di conoscenza del mondo, l’anticipazione creatrice è una delle più antiche, e una delle principali indicazioni del rapporto profondo tra saggezza e sapere. Di fronte al terribile e all’ansiogeno e, in generale, di fronte all’incertezza del futuro, abbiamo reagito, nel corso della nostra evoluzione culturale, ricorrendo agli aruspici e alle molteplici forme assunte dai tentativi di fare previsioni. Abbiamo creato molteplici divinità a cui consegnarci e consegnare il nostro destino: a ognuna di esse abbiamo attribuito e attribuiamo un compito in qualche campo della nostra esperienza. Mano a mano che i fenomeni rilevanti della vita della specie umana hanno assunto una certa ricorrenza empirica, abbiamo iniziato a individuare non solo un principio di probabilità, ma a far parlare gli eventi in corso, riconoscendone la gravidanza, la pregnanza di futuro. Il riconoscimento – l’anagnorisis aristotelica – di segnali frequenti, la stima della probabilità di manifestazioni a essi associate o associabili (l’associazione è una delle modalità più frequenti di lettura e analisi dei segni del mondo), la verifica delle probabilità di manifestazione, la costruzione di serie storiche delle espressioni più ricorrenti, hanno composto una forma di conoscenza di cui la saggezza è un fattore decisivo, che è riconducibile alle possibilità di anticipazione creatrice delle manifestazioni di eventi e fenomeni del mondo. Insieme all’associazione, che è anche un costrutto di particolare rilevanza della psicologia del profondo, agisce, nell’anticipazione, la proiezione. I meccanismi proiettivi, secondo un’accezione riconducibile alla tradizione psicoanalitica kleiniana, sono messi in atto per difendersi dall’invasione e dall’incertezza del mondo e possono sia essere alla base della modellazione di aspetti del mondo secondo i propri progetti, sia illudere di poter controllare l’altro e alcune manifestazioni del mondo, inducendo ad avere comportamenti e atteggiamenti corrispondenti alle proprie aspettative.
È evidente il rischio che la proiezione comporta: spingersi in là rispetto all’esistente può esporre a delusioni e disincanti, le cui conseguenze sono non solo temute ma spesso evitate preventivamente. C’è, nella disposizione a proiettarsi e a guardare avanti, a cercare di anticipare gli eventi e a cambiare idea in base alle possibilità creative e innovative emergenti, qualcosa di drammatico, che interviene nell’esperienza umana: la paura del nuovo o paura del futuro, che si esprime in angoscia epistemofilica. E alla paura, si sa, non si comanda. Quell’angoscia interviene ogni volta che ci troviamo a seguire ( filia), un inedito fondamento o un’inedita struttura di conoscenza (episteme), cioè a creare. L’elaborazione del conflitto tra la propensione a proiettarci nel nuovo e l’angoscia che quella proiezione di procura, dà vita al livello di tensione rinviante verso l’inedito di cui ognuno di noi, individualmente e collettivamente, riesce a sostenere e a sperimentare. La tensione rinviante è un costrutto messo a punto nel corso di un processo di ricerca sul rapporto tra il sistema corpo-cervello-mente e la bellezza, intesa, quest’ultima, come una possibilità di risonanza col mondo in grado di generare un’estensione particolarmente significativa del modello neurofenomenologico di sé e di un gruppo o collettivo. Pare che sia quella estensione ad aprire al senso del possibile e alle possibilità di investire per la creatività e la ricerca di innovazione. La concezione della bellezza, l’approssimarsi a essa, si sa, genera ansia. Se si dice: «Bella da morire», come sosteneva Luigi Pagliarani, che ha teorizzato l’angoscia della bellezza, ci deve essere un motivo. Creare e anticipare sono perciò passi di particolare impegno e complessità, dagli esisti incerti, e allo stesso tempo attraenti e potenzialmente generativi.

Creare potrebbe significare: preveggenza, lungimiranza, previdenza. Non sembrano questi i significati che la parola assume quando si voglia rendere conto di una capacità distintiva umana come la creatività: quelle parole in italiano oscillano tra qualcosa di magico e paranormale, come la preveggenza, e qualcosa che avrebbe a che fare con la cautela e l’accortezza, come la previdenza; o qualcosa che riguardi solo il cosiddetto colpo di genio. Vedere il possibile nell’esistente, provvedere ad azioni ostetriche per farlo venire fuori, situarsi dentro il possibile e il futuro e appropriarsene almeno in parte accoppiandosi con essi: forse questi orientamenti aiutano a cogliere il senso della creatività possibile.
Esistono verifiche sperimentali che iniziano a evidenziare i correlati neurocognitivi della nostra capacità di riconoscere il possibile nel presente, come antecedente della creatività possibile. Nell’esplorare il rapporto tra arte, immaginazione e innovazione emerge una famiglia di concetti e costrutti di ricerca che compongono un approccio di frontiera alla creatività, che può essere stimolante e fecondo, e per me lo è stato. Si va dalla creatività, intesa come tratto caratteristico e distintivo della specie umana; all’immaginazione, che ci consente di concepire quello che ancora non c’è all’anticipazione dell’esistente, appunto, come ricerca delle condizioni per far parlare il presente in vista dei futuri possibili; all’innovazione, tecnologica, di prodotto, di processo, di forme organizzative, di conoscenza. Se il cambiamento è accelerato, interconnesso e discontinuo, ci accorgiamo, anche con un certo sconcerto, che non disponiamo immediatamente di capacità mentali corrispondenti e appropriate a farvi fronte. I “tempi esponenziali” che viviamo portano fuori da ogni dominio di certezza. Il probabile e il plausibile si profilano come campi di ricerca e prassi necessarie nel momento in cui l’esistente e il presente non ci possono bastare. D’altra parte per noi umani interrompere il cosiddetto “dominant design” è cosa difficile. Bisogna in qualche modo disobbedirgli. Alberto Felice De Toni sostiene che «l’innovazione è una disobbedienza andata a buon fine» [A.F. De Toni – R. Siagri – C. Battistella, Anticipare il futuro. Corporate Foresight, Egea, Milano 2015].
Se il “dominant design” coincide con la dipendenza dalla tradizione, difficile e necessario è riconoscere che, come abbiamo sostenuto nel tempo, la tradizione non è nient’altro che l’innovazione riuscita. La creatività e l’innovazione possono nascere da processi di ibridazione con altri codici e altri linguaggi rispetto a quelli consueti, così come da un uso non previsto di soluzioni esistenti. Il passaggio decisivo sembra essere quello che consente il transito dalla previsione all’anticipazione.
Vincoli e possibilità
L’accesso alla creatività è comunque impegnativo, come d’altronde le ansie che intervengono ogni volta che cerchiamo di abbandonare la via consueta per sporgerci sulla soglia della creatività, quando avvertiamo immediatamente di dover elaborare ostacoli interiori di diversa intensità.
Eppure «le nostre menti non sono prigioniere dei nostri geni», come scrive lo scienziato W. Arthur [in N. Glansdorff – Ying Xu – B. Labedan: The Last Universal Com- mon Ancestor: emergence, constitution and genetic legacy of an elusive fore- runner, in «Scientific American» 282 (2008) 6, pp. 90-95]; proveniamo tutti da LUCA, acronimo in lingua inglese del nostro ultimo antenato comune universale (Last Universal Common Ancestor), ma allo stesso tempo siamo tutti unici e irripetibili. Abbiamo tutti l’ombelico, come sosteneva assiduamente Luigi Pagliarani, e perciò siamo tutti figli nati nello stesso modo; mentre sono le nostre esperienze prenatali, perinatali e infantili, fino a quelle adulte, che ci fanno diventare quello che siamo, mediante neuro plasticità ed epigenesi. Non solo diventiamo continuamente quello che siamo per creazione, apprendimento e adattamento, ma l’intersoggettività e i contesti cooperativi formano la nostra esperienza e la nostra vita. Non dovrebbe essere difficile, allora, accorgersi che siamo unici e molteplici, appartenenti tutti alla stessa specie, eppure diversi per culture ed esperienze vissute. Se sapessimo muoverci tra questa comunanza e queste differenze, svilupperemmo una coscienza di specie unitaria e finalmente potremmo sentirci “terrestri” prima ancora che umani . Sentirsi terrestri sarebbe particolarmente urgente, peraltro, poiché i rischi di vivibilità che corre la nostra specie forse si possono affrontare solo se riusciamo a percepirci e a viverci come parte di tutto il sistema vivente sul pianeta che ci ospita. Eppure non è così che vanno le cose. Siamo persi in ragionamenti e pratiche antagonistiche e giungiamo a cercare di escludere, respingere, violentare, uccidere, chi riteniamo sia talmente diverso da noi da essere ritenuto non umano, o almeno non appartenente a quell’umanità che diciamo e vogliamo. Le posizioni xenofobe e razziste e le violenze contro i diversi da noi, non depongono a favore del dialogo tra differenze, e rischiano di oscurare le tradizioni all’accoglienza che pure sono presenti con continuità nella storia. Oscurano soprattutto le nostre capacità creative, la nostra curiosità, la nostra giocosità con le differenze, che emergono dalle emozioni di base da cui potremmo trarre una generatività dell’inedito di cui abbiamo urgente bisogno. La difficoltà principale la incontriamo nel cercare di riconoscere le ragioni che portano a certe azioni e a certi comportamenti, cioè le buone ragioni degli altri, anche e soprattutto quando sono diverse dalle nostre. È questa una condizione indispensabile per gestire in modo generativo i conflitti, cioè l’incontro con le differenze, che attraversano le nostre vite e che possono essere la fonte dell’innovazione e del cambiamento necessario. In generale si chiamano in causa il razzismo e i pregiudizi che lo accompagnano, insieme all’indifferenza e alla negazione che sperimentiamo tutti rispetto ai problemi globali e contro- versi inerenti la questione del clima e della vivibilità . E’ proprio qui che sta il punto, molto probabilmente. A dichiararsi apertamente razzista non c’è praticamente nessuno. Anche a proposito del pregiudizio è difficile trovare qualcuno che dichiari esplicitamente di averne. Così come è difficile oggi trovare posizioni apertamente e dichiaratamente negazioniste per quanto riguarda i problemi ambientali, climatici e relativi alla perdita di biodiversità. Basta però riflettere su se stessi e parlare con qualcuno per accorgersi che le cose non stanno così. I “se” e i “ma” che vengono messi in campo quando si parla di persone di culture diverse e con diversi colori di pelle sono sottili e diffusi più di quanto si pensi. Così come tutti si dichiarano attenti all’ambiente, ma quando si tratta di cambiare qualcosa nel proprio modo di agire e comportarsi emergono immediatamente resistenze e difese. Allora è a quell’humus apparentemente innocuo e presente nella vita quotidiana in modo silenzioso che bisogna badare. Tra silenzio e indifferenza si rischia di scivolare in posizioni che possono finire per offrire un effettivo sostegno, sebbene non intenzionale, ad azioni di facinorosi xenofobi, e a comportamenti individuali e collettivi distruttivi degli ecosistemi di cui siamo parte.
Per costruire un provvisorio dizionario della contemporaneità rispetto ai temi che emergono come i più urgenti per la nostra vivibilità sul pianeta Terra, negli ecosistemi di cui siamo parte e per la convivenza tra le differenze culturali, religiose e politiche, pare che sia necessario in primo luogo un esame di realtà e un’adeguata considerazione dei principali vincoli esistenti. L’approccio sistemico è un riferimento costante in questa ricerca. Allo stesso tempo e in controluce è possibile individuare alcune vie possibili per una trasformazione richiesta e necessaria. Il cardine intorno a cui ruotano i vincoli e le possibilità è in buona misura la creatività: quella capacità distintiva specie-specifica di noi umani con cui combiniamo e ricomponiamo in modi almeno in parte originali i repertori disponibili dei nostri mondi vitali.
Per affrontare il tema della creatività con riferimento specifico alla nostra contemporaneità, sono stati scelti alcuni concetti chiave, alcune porte di accesso a una questione di particolare difficoltà, soprattutto se connessa al tempo in cui viviamo e alla sua complessità. Non sarebbe stato possibile affrontare la questione della creatività senza prima considerare con una certa attenzione gli ostacoli che emergono ogni volta che si cerca di riconoscere le condizioni dei processi creativi, sgombrando il campo dalla vulgata generica con cui così spesso il tema è affrontato.
Mi sono dedicato ai processi psicologici che oggi sembrano frapporsi alla possibilità di generare e creare le trasformazioni necessarie e l’inedito nella nostra contemporaneità. Ma anche ad analizzare le condizioni che si possono ritenere più favorevoli e maggiormente associabili ai processi creativi e alla generazione delle innovazioni e delle trasformazioni, soprattutto comportamentali, che il nostro presente richiede. In questo l’approccio sistemico mi ha fatto e mi fa da base e da paradigma. L’analisi del conformismo, dell’indifferenza e della saturazione consentono di comprendere alcune delle dinamiche individuali e collettive che caratterizzano gli aspetti della crisi del legame sociale oggi. La tendenza al prevalere della gregarietà, della sospensione eccessiva della risonanza con gli altri, della saturazione degli spazi di pensabilità, sono fenomeni che si presentano connessi alla prevalenza della paura nelle società in cui viviamo, e ostacolano le possibilità riflessive ed emancipative verso la creazione di una più estesa e profonda socialità. Allo stesso tempo l’individualismo, come tratto caratteristico del nostro tempo, con la sua tendenza a sfociare nel narcisismo, produce effetti di negazione dell’altro con diverse forme di pregiudizio, ma anche di negazione di se stessi e delle proprie potenzialità, con una particolare forma di invidia che agisce accanto all’invidia sociale e che si può definire “autoinvidia”. Nel tempo in cui comanda la paura tendiamo a chiuderci in noi stessi e dentro le nostre mura, reali o immaginarie. La chiusura induce di per sé all’invenzione continua di nemici che sono necessari a mantenere un equilibrio che, per quanto precario e difensivo, renda tollerabile il senso di insicurezza. Un equilibrio basato sull’antagonismo naturalmente causa elaborazioni distruttive dell’aggressività. La distruttività è amplificata dalla interconnessione mediatica con cui la rete cattura maggioranze sempre più ampie, generando così forme di vittimizzazione che non riguardano solo le vittime dirette ma ampie fasce di popolazione. L’intera umanità vive simultaneamente le medesime paure, dalla guerra nucleare alla crisi climatica, dalla sovrappopolazione alle migrazioni, dalla disoccupazione alle epidemie, dal terrorismo alle violenze, dallo stress alla depressione, dalla carenza di energia alla scarsità delle risorse, dalle disuguaglianze alla solitudine. Forme malate nell’esercizio del potere a livello interpersonale e collettivo prevalgono in molte circostanze e situazioni, soprattutto perché mostriamo di avere difficoltà a elaborare in maniera generativa le differenze che incontriamo sempre più numerose nelle nostre vite. Il conflitto delle differenze, di individuazione, di culture, di genere, di interessi, di conoscenze e, in particolare, il conflitto intrapsichico, può essere il punto di svolta dall’analisi delle criticità e dei vincoli verso le possibilità di espressione della nostra creatività necessarie per generare un mondo vivibile. E allora la vivibilità e le nuove forme di lavoro sono un campo privilegiato di applicazione possibile della creatività, ma lo sono anche l’infosfera e l’esigenza di creare le condizioni per governare le opportunità della società dell’informazione e non subirne passivamente le criticità, o il pluralismo culturale e la tutela degli ambienti e dei paesaggi della nostra vita. Trovo che una prospettiva sistemica possa sostenere oggi la necessità di un paradigma olistico per comprendere la complessità del presente. Per questo è importante approfondire come la creatività emerga nell’intersoggettività e nell’empatia, e si sprigioni anche grazie all’ironia e all’umorismo. Siamo una specie capace di ragione poetica, accanto alla ragione calcolante e alla ragione emozionale: nell’inquietudine e nella potenzialità della nostra forma vitale sappiamo esprimere la bellezza come risonanza particolarmente riuscita fra noi, gli altri e il mondo. Per queste vie abbiamo oggi la responsabilità inedita di riconoscere che il mondo che abbiamo creato, così com’è, non può bastarci: l’esito sarebbe noto. La nostra responsabilità principale consiste nel creare, inventandolo, un mondo vivibile.
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