di UGO MORELLI.
“Maestà, ‘o sapite ca nanz a ‘o palazz vuost ‘o cenier romp ‘o tuost”. Nella versione napoletana tradizionale, un episodio di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno ci presenta un ritratto di particolare efficacia della capacità di resistenza e di cambiamento dei più umili, dei poveri, dei sottomessi. Nella vecchia casa della campagna irpina, dove sono in parte cresciuto, il primo scalino di pietra della scala esterna aveva un piccolo buco prodotto dalle gocce di pioggia cadute per circa un secolo e mezzo dalle tegole del tetto.
Casa Filette prima del terremoto del 1980 [Fotografia G. Varchetta]
Un buco che mi sembrava impossibile da spiegare, considerando la fluidità dell’acqua e la durezza e resistenza della pietra. Un buco non profondo, simile all’incavo lasciato da un uovo appoggiato sulla farina. Era pietra, però, e non farina quella che le gocce di acqua avevano scavato nella superficie dello scalino. Il buco era liscio e passarci le dita dava una sensazione come di velluto. Ogni volta che chiedevo al nonno come si fosse prodotto mi ripeteva l’indovinello che il furbo Bertoldo aveva sottoposto al re per farsi dare danaro in cambio della soluzione non trovata.
Ciò che è fragile quale forza ha? Chi è al margine e apparentemente senza potere, cosa può fare per cercare di cambiare l’ordine delle cose? Può il tenero rompere l’impenetrabilità del duro? Insomma, il cambiamento è possibile?
L’ipotesi, con riferimento all’Irpinia, è che la modernizzazione senza sviluppo e, principalmente la pervasiva invadenza del consumismo, abbiano creato una falsa libertà, una libertà malata, che costituisce uno dei principali ostacoli alla creazione di una migliore libertà. Proviamo a capirci su quest’ipotesi.
La modernizzazione senza sviluppo è un processo che riguarda la penetrazione delle forme consumistiche più esasperate in contesti sociali e culturali dove si sono combinati percorsi di sviluppo mancato e assistenzialismo pubblico spesso deviato.
La libertà tende a identificarsi con l’accesso a forme di vita basate su modelli principalmente mediati dalla televisione e, oggi, dalla capillare presenza dei social media.
I rituali di feste inventate come la celebrazione del diciottesimo anno o la fitta rete di sagre e simili, puntualmente assecondate e spesso sostenute dai Comuni, con l’immancabile presenza degli amministratori locali, danno un’aura di libertà alla volgarità, amplificandola.
Il modello dominante si afferma fino all’incredulità ed è difficile immaginare quale antropologia possa emergere da questa situazione in evoluzione. È come se su una civiltà contadina si fosse all’improvviso innestata una realtà in grado di parassitare la prima, creando un ibrido non meglio definibile. C’è una certa ritrosia ad accettare l’evidenza, in particolare perché è difficile trovare una definizione possibile. La capacità di assimilazione del processo in corso ha piegato a se stessa anche il terremoto e la ricostruzione con conseguenze che è ancora difficile valutare.
In una situazione come questa come si può pensare di dire di no; da dove potrebbe partire una discontinuità in grado di creare una nuova civiltà in Irpinia?
Quale critica – di sé, degli altri, del mondo intorno – potrebbe creare una trasformazione oltremodo necessaria?
Quale rivolta, per dirla con Albert Camus, potrebbe portare il tenero a rompere il duro del presente?
«Che cos’è un uomo in rivolta?” – si era chiesto Camus – “Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando.»
L’uomo in rivolta. Saggi (L’Homme révolté. Essais) è un saggio di Albert Camus pubblicato nel 1951 presso Gallimard (Parigi). L’attualità del testo, tra l’altro, consiste nel confronto tra l’idea di rivoluzione, intesa come promozione di valori umani e rivolta contro l’assurdo, con la storia e il presente dei movimenti rivoluzionari.
Camus stabilisce una differenza tra la rivolta di tipo “storico” e quella di tipo “metafisico”.
La rivolta “metafisica” induce ad assumere una posizione religiosa e fideistica fino a giustificare persino l’arbitrio e il crimine. L’uomo invece che segue la rivolta “storica”, annulla il valore del singolo uomo sacrificandolo a quello della storia. Portatrice di un ideale utopico di giustizia, la rivolta “storica” finisce per essere totalitaria.
Alla rivolta “metafisica” e a quella “storica”, Camus oppone la rivolta dell'”arte”. La creatività alla base di questa rivolta deve tuttavia fare i conti con i limiti del realismo e del formalismo, conseguendo insieme realtà e forma. I valori della cultura storica irpina potrebbero trovare nell’arte e nel paesaggio, intesi come patrimoni peculiari e distintivi, la misura di un’evoluzione possibile, che dovrebbe e potrebbe essere rivoluzionaria, in epoca di crisi degli ecosistemi e di necessaria sostenibilità di ogni forma di sviluppo.
La rivoluzione in Camus è intesa quindi come ricerca di equilibrio e azione creatrice, unica possibilità data all’uomo per trovare una risposta sempre negatagli dall’indifferenza di un mondo assurdo dominato dal non-senso, similmente a come esposto ne Il mito di Sisifo.
“Siate realisti: chiedete l’ impossibile”. Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente – e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia del presente che, se considerato come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’ unica misura e regola del possibile, può trasformarsi in una trappola, o una prigione.
Quel che sta accadendo da anni in Irpinia, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente, è il dominio dell’indifferenza e della consuetudine. L’ attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che si presenta accattivante e gratificante. In sostanza, con questa tacita e scivolosa adesione al presente si trasferisce il potere di scelta dalle procedure democratiche alle dinamiche del consumismo. Il problema è, quindi, quello di creare le condizioni di base per un’emancipazione collettiva e individuale. Un’individuazione che non può che essere psichica collettiva allo stesso tempo. Solo una rete di iniziative che parta dalla prossimità spesso fragile e fluida del legame sociale ricostituito a un livello più profondo, grazie all’arte, alla cultura e al paesaggio può generare effetti istituzionali per una democrazia sostanziale e per una migliore libertà in Irpinia.