di UGO MORELLI.
DALLA MODERNIZZAZIONE SENZA SVILUPPO AL “NEOPAGANESIMO ASSISTITO”
Come siamo diventati dionisiaci.
Dioniso
“E si mamm m’adda vatt, tarantella sin a ‘gghiourn” (Se mamma mi deve picchiare, tarantella fino all’alba).
Come una maledizione del cielo, una saetta precipitò squarciando l’aria. Né prima, né dopo di un rombo di tuono, ma tutto accadde simultaneamente. E chi se l’aspettava! Nero si era fatto il cielo dal lato della Baronia, ma verso l’Otica pareva ci fosse il sole. Eppure esplose il lampo, all’improvviso. Tremarono le lastre e una lingua di fuoco finì dritta dentro il pagliaio. Quell’impalcatura di legni, frasche, e travi, rivestita del colmo del grano, mietuto alto per salvare il patrimonio che sarebbe servito a fare quella che era quasi una casa, il pagliaio, appunto, sembrò in un primo momento resistere alla lenza di fuoco che il cielo aveva mandato. Tutti si sarebbero ricordati come se fosse adesso, di quella maledizione divina, che puniva chissà quali peccati. E che doveva punire, poi? Di peccati ce n’erano pochi, tante erano scarse le possibilità di peccare in quel mondo fatto di poco o niente. Il lampo entrò nel fieno e nelle vene, nella testa e nella paglia: un fumo nero sottile all’inizio e poi sempre più minaccioso si trasformò in un baleno in una gigantesca fiammata che avvolse il pagliaio e lo trasformò in un rogo abbagliante. Fu così che un intero raccolto di fieno, pagliaio compreso, divenne cenere. Visto dalla finestra della casa il rogo divenne un moto del destino. Prima senza parole, poi col pianto, madre, padre e figli che avevano lavorato un anno intero, si chiesero da quale maledizione fossero stati colpiti e come avrebbero fatto quell’inverno a dar da mangiare agli animali. Il fieno era andato in fumo e la disperazione di un attimo si trasformò gradualmente in un terribile senso di perdita. Di corsa arrivarono prima i vicini e poi quelli più lontani, fino ai lontanissimi. Il fuoco aveva sempre fatto una grande paura. Gli scongiuri per evitarlo erano tanti e altrettanto inutili. Quando veniva, veniva. E non c’erano sante barbare a proteggere il raccolto. Solo la fame e la disperazione si profilavano all’orizzonte. I vicini consolavano, le figlie piangevano, il padre attonito si passava le dita sulle pezze alle ginocchia di quei calzoni che erano più toppe che tessuto originario. La madre conteneva, come prevedeva il suo ruolo, ingoiava le lacrime prima che arrivassero agli occhi e tratteneva un sordo dolore. Quella punizione richiedeva una spiegazione che lei non era in grado di trovare.
Quando tutto fu finito, con passo pesante di pensieri e di destino i vicini e i meno vicini se ne andarono, con la contrizione per l’accaduto ma anche con il sottile e colpevole sentimento di soddisfazione che non fosse toccato a loro. Nessuno disse nulla ma tutti sapevano cosa fare.
Dalla mattina successiva all’alba iniziò la processione di carri carichi di fieno, anche da lontano e pure da nemici, da persone che avevano fatto o ricevuto dei torti e con le quali si evitava persino il saluto. Arrivarono da ogni dove e per due o tre giorni ci fu da scaricare e sistemare fieno, fino ad averne più di quello che si era bruciato. Fu una teoria di carri e di parole, di saluti e di conforti, di ringraziamenti e promesse di ricambiare attenzioni e gesti; una cascata di gratitudine pur nella difficoltà.
La cosa non finì lì. Su iniziativa di quello che, tra tutti, aveva le mani d’oro, si mise mano alla ricostruzione del pagliaio. Era tempo di mietitura e allora si poteva fare il colmo, mietere cioè il grano subito sotto la spiga, per farne covoni cortissimi che consentissero comunque il raccolto. Gli steli del grano sarebbero così rimasti intatti. Con maestria, poi, si sarebbero falciati a mano, rasoterra, in modo da ottenere dei fascetti, raccolti comunque in manciate di una cinquantina di steli, non di più. Quei mazzetti bene essiccati avrebbero avuto l’onore di diventare la base per fare il tetto e la pareti di un nuovo pagliaio. Che si chiamava così non solo perché era il deposito di paglia e fieno, ma anche perché era fatto di paglia, ovvero del colmo degli steli di grano non trasformati in paglia. Una casa, insomma, che veniva da lontano, dai tempi delle palafitte. Aveva una decisa resistenza al tempo e alle intemperie, quel colmo, inattesa e imprevista. Su quel colmo raccolto e distribuito in uno strato di circa cinque o sei centimetri scorrevano acqua e neve e la durata nel tempo era di decenni. Chi aveva le mani d’oro avrebbe prima costruito un’impalcatura di pali e travi per erigere pareti e tetto. Avrebbe poi distribuito, legandolo con corda sottile di acciaio, i piccoli fasci di colmo. Quel legame di corda di acciaio sottile era di fatto una tessitura. Una persona all’interno e una all’esterno, del tetto o della parete, chiamavano un ago, detto ago da pagliaio, appunto, e passandolo e ripassandolo attraverso il colmo e le frasche che facevano da impalcatura, cucivano lo spessore fino a renderlo compatto. “Passa” era il comando e ripassa era la risposta. E tutto proseguiva per qualche giorno fino a contemplare l’opera che era una piccola casa, con capacità protettiva non da poco, dalle intemperie e anche dal freddo, capace di assicurare raccolti di fieno e di paglia, ma anche di fasci si steli di granoturco. La più preziosa delle custodie era quelle delle mele tra uno strato e l’altro di paglia. D’inverno con la neve, andarne a prendere un canestro, era una scoperta continua di un tesoro di sapori tanto raro quanto prelibato. In pochi giorno quel fervore operoso fatto di competenze secolari e solidarietà tirò su un nuovo pagliaio e la raccolta del fieno portato da più parti fu collocata al suo interno. L’incendio non fu dimenticato ma accanto si ricordò il patrimonio di vicinanza e il senso dell’aiuto, il piacere e l’armonia del lavoro per rifare ciò che il fuoco aveva distrutto.
Questo strato, questa componente solidaristica del mondo irpino ha una sua continuità nel tempo. E vive oggi, anzi convive con il godimento consumistico. Una consapevolezza che non emerge e non dà vita a un riconoscimento più esigente della memoria e delle possibilità del presente.
Eppure il piacere della vita semplice, in grado di contenere vicinato, vicinanza e solidarietà, persistendo, potrebbe dar vita a una critica evolutiva verso l’immaginario e il godimento nell’Irpinia contemporanea.
I racconti delle tarantelle sulle aie, a cui il motto di spirito iniziale allude, potrebbero divenire la base di una nuova narrazione di sé e della propria terra oggi, cercando vie d’uscita allo stesso tempo locali e planetarie dal godimento incondizionato, che può diventare, e di fatto in molti casi già è, un regolatore delle relazioni fino a costituire il core di un’intera forma di vita.
Per cercare di comprendere come una forma di vita possa ruotare intorno a immaginario e godimento dopo una lunga fase di modernizzazione senza sviluppo, il caso Irpinia si presta particolarmente. Sia per l’evoluzione sociale che per come è stata elaborata la rottura catastrofica dei terremoti del 1962 e del 1980.
A lungo, infatti, abbiamo ritenuto che ad essersi affermato fosse un processo di “modernizzazione senza sviluppo”. L’ipotesi è stata chiaramente e ampiamente sostenuta, ad esempio dal punto di vista storico, da Giuseppe Galasso, a più riprese e in particolare nell’Intervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, edita da Laterza nel 1978 e ristampata quaranta anni dopo, nel 2018, con una nota di Luigi Mascilli Migliorini. Interrogandosi sul rapporto tra sviluppo economico e quella che Galasso chiama “attrezzatura civile”, emerge dall’intervista l’ipotesi della modernizzazione senza sviluppo, come tratto caratteristico dei problemi delle regioni meridionali, della Campania, di Napoli e delle aree interne. Galasso sostiene che quella formula si attagli bene alla condizione storica e attuale di quelle aree. “Naturalmente”, sostiene Galasso, “ciò che dico e di cui sono convinto, pone un grosso problema: come è possibile un mutamento di superficie sfasato rispetto alle strutture civili di una società?” (p. 14). Questa è la domanda a cui è difficile rispondere, ma contiene quello che forse è il problema principale delle aree interne così come oggi si è acutizzato. Quello che Galasso chiama “un mutamento di superficie” deve però essere ri-considerato cercando di sottoporre a critica la decisiva analisi dello storico napoletano. Si avverte in quell’analisi una attenzione prioritaria ai fattori strutturali, mentre gli aspetti simbolici, e quelli relativi all’immaginario, sono trattati come se fossero secondari e, comunque, dipendenti da quelli strutturali.
Le forme di vita sociali sono oggi principalmente guidate da processi immateriali: quei processi possono avere una struttura a dominanza in cui prevale il simbolico, cioè un legame strutturale tra le attività economiche e di governo e i sistemi di relazioni, gli orientamenti di valore e i comportamenti; la prevalenza del piacere culturale evoluto segna queste società; oppure prevale una struttura a dominanza in cui l’immaginario è sganciato dalle effettive attività economiche e produttive e la soddisfazione deriva solo dal consumismo che spesso è in versione assistita e caratterizza comportamenti e forma di vita.
È possibile sostenere che nel caso delle aree interne, dell’Irpinia e, probabilmente, delle regioni meridionali d’Italia, il prolungato stato di sviluppo endogeno mancato, combinato con le vaste azioni di assistenzialismo, abbiano provocato una struttura sociale a dominanza in cui l’immaginario e il godimento sono gli etnorami, cioè gli indicatori antropologici e sociali che contraddistinguono la forma di vita irpina attuale.
Sembra necessaria una precisazione che aiuti a comprendere la funzione che possono svolgere il simbolico e il desiderio in una società. Quando queste dimensioni prevalgono si producono forme di vita con un certo equilibrio tra produzione, governo e modelli di consumo. Si riconosce il rapporto tra materiale e immateriale e il senso e il significato delle scelte e dei comportamenti.
È pure necessario sostenere che quando queste due ultime dimensioni sono in crisi, le sottoculture che ne emergono, probabilmente, concorrono a creare condizioni perché una società degradi in ansia permanente di godimento e di consumo e, allo stesso tempo, a tenerla marginale nelle sue manifestazioni ed espressioni.
Spinta dall’esterno e dall’interno verso una sempre più pervasiva forma di consumismo assistenzialistico, la società irpina sembra aver imboccato e consolidato la strada dell’immaginario e del godimento come criteri di rappresentazione e individuazione di se stessa.
Il simbolico e il piacere, che rinviano alla realtà e all’esame di realtà da un lato, e alla responsabilità delle scelte dall’altro, sembrano colonizzati dalla propensione all’immaginario e al godimento, sostenuti dall’assistenzialismo. Si è strutturato così un vertice che caratterizza la forma di vita della società irpina nella sua struttura a dominanza. Persino le iniziative cosiddette culturali basate, in sostanza sul revival etnico, o sulla coltivazione della decadenza, risultano di fatto funzionali al mantenimento dello status quo, non spostando, come di fatto non spostano, di un millimetro il vertice del godimento fine a se stesso.
Senso e anelito a investire su se stessi, sulle proprie responsabilità e sulla socialità attiva e condivisa, lasciano il posto a godimento e divertimento fine a se stessi.
Ad andare smarrita è la connessione tra memoria e futuro e, consegnandosi al solo presente, si perde il profumo del tempo e l’arte di indugiare sulle cose.
Da effetto delle scelte di intervento in una società sottosviluppata, l’immaginario e il godimento, dovuti principalmente alla dipendenza che l’assistenzialismo ha consentito e creato, sono divenuti causa della condizione attuale, che può essere descritta come “neopaganesimo assistito”.
Gli elementi immateriali dell’immaginario consumistico hanno prodotto, e ancor più oggi producono, una omologazione dei comportamenti sociali che sono direttamente legati alla penetrazione dei modelli mediatici, prima televisivi e poi della rete, e della grande distribuzione e dei suoi messaggi. L’ipotesi del “neopaganesimo assistito”, con le relative evocazioni dionisiache, poggia sulla permanenza storica inalterata di alcune dimensioni e di alcuni aspetti e problemi che si ripetono nel tempo, seppur in forme esteriori apparentemente diverse. La categoria di “modernizzazione senza sviluppo”, la cui fertilità è stata rilevante per comprendere l’immobilismo regressivo dell’Irpinia e delle aree interne, diviene relativamente obsoleta in ragione dell’azione capillare e pervasiva dei tre fattori congiunti: l’assistenzialismo clientelare; il consumismo; la modellazione sistematica dei comportamenti e della dimensione simbolica della vita individuale e sociale. Il costrutto di “sviluppo” poneva e pone al centro i fattori strutturali ed economici da cui dipenderebbero gli orientamenti di valore e i comportamenti. Questa lettura dei fenomeni trascura l’incidenza dei fattori simbolici e immateriali che, eccitati dai social media, hanno recuperato forme arcaiche e latenti ma potentemente incistate nelle culture locali, che oggi danno vita e materiali ad una sottocultura fatta di immaginario e godimento, pur non dismettendo processi sistematici di assistenzialismo clientelare, che pare di poter definire come “neopaganesimo assistito”.
Bastino due esempi connessi, non senza ragione, all’origine e alla fine della vita: la mediatizzazione ipercarica di immaginario mediatico dei matrimoni e dei battesimi, o dell’ingresso nella vita adulta al diciottesimo anno di età; e l’iconografia del rituale della morte con l’insinuante e sistematica presenza dell’immagine di Padre Pio al posto del Crocifisso.
È come se si fosse prodotto un effettivo rovesciamento fra il livello fenomenologico e quello strutturale della vita sociale, con conseguenze evidenti e altamente problematiche sulle possibilità di acquisizione di una coscienza sociale evoluta. Il tutto si traduce in passività e indifferenza, con l’affermazione di idoli diffusi inesorabilmente, che sono divenuti simboli di status e di aspettative socialmente sostenute, alla cui soddisfazione concorre l’assistenzialismo.
Il meglio che sembra poter accadere in questo immobilismo compiaciuto è che emergono figure ch esprimono opinioni, magari interessanti, ma che rimangono ineluttabilmente tali senza tradursi e senza dar vita a processi effettivi di cambiamento.
Una società marginale, l’ “osso” di Manlio Rossi Doria, che si consegna al godimento, nel senso di Jaques Lacan, lo fa all’interno di una cornice in cui i rituali, nonostante il cattolicesimo, sono sempre rimasti essenzialmente pagani.
Le sfumature molteplici del motto di spirito citato all’inizio di questo contributo, richiamano una quantità di riferimenti irriducibili, ma tra questi se ne possono considerare alcuni come la trasgressione indotta dal controllo; la disposizione a pagare un costo ritenuto necessario pur di vivere un’esperienza desiderata; l’orientamento a godersela sino in fondo dal momento che ci sarà una sanzione, e altre varianti possibili.
Qui ci interessa principalmente una sfumatura che riguarda l’orientamento al godimento assistito, nonostante tutto, laddove la tarantella fino all’alba mette in secondo piano le regole e i vincoli della situazione.