La parola fine

Un racconto di CARLA PERUGINI.

Era una terapia dell’oblio il lavoro. Persino quel lavoro, nel sudiciume del porcile, stando ben attento a non farsi mordere dai maiali, controllandone il progressivo ingrassamento, giudicandone a occhio il peso, distribuendo equamente il cibo fra quelle bestie indiavolate. Tutte tranne una: una femmina bianca e nera, docile, dallo sguardo supplichevole senza essere vile, disciplinata nell’aspettare il suo turno, fiduciosa com’era nella giustizia distributiva di Ahmed, nelle sue mani affettuose. Lui la curava come se fosse stato quel cane che non aveva mai potuto avere, lì in Etiopia, perché nel suo villaggio a stento c’era di che mangiare per i cristiani, figuriamoci per le bestie. Sì, cristiani: anche se tutti, in quel paese sull’Appennino dov’era finito dopo infinite peripezie, lo ritenevano un musulmano, lui aveva raccontato che la maggioranza del suo Paese era copta, di fede cristiana. Troppo difficile quell’aggettivo per i suoi padroni: se loro non capivano, lui un concetto ce l’aveva ben chiaro, ossia che per loro non c’erano differenze e sfumature nel mondo degli altri, di quelli che arrivavano dall’altra parte del mare, ma che tutti affondavano nell’indistinta oscurità di un colore, il nero, che cancellava l’individuo in nome del pregiudizio e dell’ignoranza.

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Gli sarebbe piaciuto occuparsi degli animali. Da piccolo, nei pochi anni di scuola che aveva potuto seguire, aveva scoperto che esisteva un mestiere ad essi dedicato: in Italia lo chiamavano “veterinario”. Adesso in qualche modo se ne occupava, ma con un profondo peso sul cuore: sapeva bene di stare dalla parte dei carnefici, di coloro che li ingrassavano in vista della loro fine. Con raccapriccio li sentiva parlare del rituale antico: appesi per una zampa al gancio, sgozzati, fra le urla di quelli che seguivano e sapevano, sì sapevano, a quale sorte sarebbero andati incontro. Ed era tutto irregolare, sapeva anche questo: quegli uomini li allevavano di nascosto, nel folto di una campagna in cui c’era anche la sua baracca, dove un veterinario non sarebbe mai arrivato. L’aveva chiamata Lucy, come quell’antichissimo austrolopiteco che era stato scoperto proprio in Etiopia. Noi, i primi uomini, adesso siamo gli ultimi.

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L’inverno avanzava, la data dell’esecuzione anche. Ahmed tremava, di freddo e di paura. Non avrebbe più voluto sentire le urla di chi si sente la morte addosso, di chi non trova una mano che lo tiri su dal gorgo che sta per inghiottirlo. La decisione che prese, una notte in cui batteva i denti di fronte a quel fuoco che non bastava a riscaldarlo, fu ancora una volta senza alternative, com’erano state fino ad allora tutte quelle della sua breve esistenza.

All’alba entrò nel porcile. Lucy lo cercò con gli occhi: s’intesero come fra eguali. Le legò una fune intorno al collo, che era morbido e peloso. Lei lo seguì senza timore. D’altronde s’è sempre saputo che i maiali sono quanto di più simile all’umano ci sia nel regno animale.

 

 

 

Le foto sono di Ugo Santinelli

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