di EMILIA CIRILLO.
C’è una strada di Avellino che esercita un fascino evocativo su di me. La strada è via Pironti. Neanche una bella strada, palazzi costruiti negli anni sessanta, nessun albero ad eccezione di una magnolica japonica all’ingresso di via Gramsci, che si tinge di fiori rosa in primavera. In questa strada, negli anni sessanta, a far più ricchi i proprietari dei bassi, si installò per qualche tempo la scuola media Enrico Cocchia, dove mia madre mi iscrisse per oscure valutazioni familiari.
Allora come ora le scuole in città non avevano edifici idonei: per un anno svolgemmo le lezioni in un seminterrato, in aule adattate secondo un sentimento spartano e autoctono, di cui ancora l’italietta andava fiera.
Così che, ogni mattina, mi facevo un bel tratto a piedi, dal viale dei Platani a via Pironti, senza troppi complimenti. Non c’erano autisti che ti scortavano fino davanti l’ingresso della scuola, né madri premurose che portavano cartelle o zaini per alleviarti la fatica.
Non sto a ricordare l’anno scolastico trascorso, il successivo ci trasferimmo nella nuova sede della scuola Enrico Cocchia ai Cappuccini, ma scrivo per rivivere, come si può fare attraverso un ricordo, la mia scoperta di un’altra città, una parte nuova e diversa: l’Avellino della borghesia che a via Pironti si insediò, per passare, dopo qualche tempo, in altre aree residenziali della città. La prima cosa che mi impressionò di quella zona fu la vista della campagna per chi si affacciava alle finestre delle aule, una fitta fascia di noccioleti che si estendeva a ricoprire le colline di contrada Chiaire e contrada Bagnoli, senza soluzione di continuità. Inframezzati vi scorgevo alcuni casolari, per lo più abitati, e una bella villa in stile umbertino. Quello che mi sembrò assolutamente straordinario fu la presenza, nel fondovalle, di vari orti irrigui, posti sulla costa di un fiume, il torrente Fenestrelle, seppi poi.
Non appartenevo a quel quartiere, eppure quanto vedevo e scoprivo era una parte della mia città, che mi sorprese per contenere, oltre a quanto già sapevo, anche una splendida campagna. La città, era nei miei pensieri, una rete di strade e palazzi e giardinetti, dove non c’era posto per la cura delle melenzane e dei cavoli, dove gli alberi erano platani, abeti, pioppi e non meli, pruni, peri sparsi secondo un disegno casuale.
Da là a qualche anno la valle e le colline furono abbondantemente cementificate con interventi di edilizia popolare e civile che le tolsero quell’univoca bellezza e ruppero di fatto un rapporto equilibrato tra città e campagna, che tanti teorici dell’architettura ponevano come base per un giusto sviluppo dell’urbanistica moderna. Nessuna urbanistica memorabile, se per urbanistica intendiamo la costruzione della città attraverso le sue permanenze e il consolidamento di una sua forma, ci fu ad Avellino: solo un rapido e geometrico sacco della città, che sconvolse per sempre quella misurata armonia.
Ritornando a via Pironti, viveva in quelle case una borghesia di professionisti, professori, imprenditori i cui figli imparavo a conoscere, grazie alla frequentazione della scuola. Erano ragazzi diversi da me, più inclini al divertimento, alle feste, alle curiosità letterarie, allo sport. Erano ridenti, finzicontiniani mi viene da dire oggi, avevano alle spalle già solide famiglie e solide case. Quelle soprattutto mi piacevano, per le stanze ampie, tante stanze, lunghi corridoi, armadi a muro, pavimenti di marmo, lucidi, un po’ freddi, ma certamente eleganti, secondo il gusto del tempo. Erano case agiate, arredate con mobili antichi, ovattate da tende elaborate, illuminate a mezzogiorno.
Noi dei Platani, anzi della zona del vallone dei lupi, eravamo figli di impiegati dello Stato, vivevamo in case di cooperative a riscatto, avevamo si la protezione della montagna di Montevergine e la libertà di giocare nei cortili condominiali, ma trascorrevamo le nostre estati in città, a differenza di quelli di via Pironti, che avevano sempre villeggiature sull’Adriatico da raccontare.
Forse bisognava mescolare le cose, far arrivare la campagna al centro della città e le nostre case ben squadrate, rispettose degli standard abitativi, metterle sul ciglio del vallone che guardava al fiume, forse bisognava scendere tutti insieme più spesso per quelle sciorte e raccogliere l’argilla del greto e lavorarla con le mani, riabitare i mulini, costruire case ad orto anziché sgraziati condomini. Forse bisognava capire che la città è tutta insieme, costruito e campagna, che c’è una regola al fermarsi, al dire “oltre non vado”. I limiti sono quelli che detta la natura: sono i valloni, i greti del fiume, le altezze delle ische, l’ombra dei nocelleti, le coltivazioni che facevano preziosa la campagna.
Eppure quell’anno in via Pironti, trascorso in una scuola di fortuna, con una piccola finestra che scopriva un mondo, costituì di fatto la base della cieca adolescenza, della sfrontata onnipotenza di una generazione che tentò, solo una piccola parte, di cambiare i destini della città.
Per altri fu solo come una travolgente corsa in motorino, i capelli trattenuti dalla fascia di filanca, fu il sorriso malizioso di Catherine Spaak ne “ La voglia matta ”.
Le foto sono di UGO SANTINELLI