di UGO MORELLI
“Una mano non si lava sola”, ovvero “spazzolare la storia contropelo”
“Gli sciocchi s’immaginano che le vaste dimensioni dei fenomeni sociali
siano un’ottima occasione per penetrare più addentro nell’animo umano:
dovrebbero invece comprendere
che solo discendendo in profondità nell’interno di un individuo
abbiamo qualche probabilità di capire la natura di quei fenomeni”
[M. Proust, Le côté des Guermantes, in A’ la recherche du temps perdu, vol. 2, Paris 1959, p. 330
(il passo è citato da F. Orlando, “Darwin, Freud, l’individuo e il caso”, La Rivista dei libri, 5 (1995), p. 21]
Un caso, per caso
In un saggio recente Carlo Ginzburg, che non è solo uno storico ma è anche un maestro di metodo, come ho potuto sperimentare da suo allievo, scrive: “Alla fine degli anni ’50, quando cominciai a lavorare sui processi di stregoneria, la parola “casi” era per me associata a due nomi: Sherlock Holmes e Sigmund Freud. Avevo letto, in traduzione, i racconti di Conan Doyle e i casi clinici di Freud. L’idea che un caso, analizzato in profondità, possa rivelare qualcosa che una trattazione di carattere generale non sarebbe in grado di cogliere, mi aveva profondamente colpito. Questa passione per il particolare rivelatore era stata ulteriormente rafforzata dall’incontro con l’opera di due grandi filologi romanzi, Leo Spitzer e Erich Auerbach” [Il caso, i casi, doppiozero, 12 aprile 2019].
“Solo a poco a poco, nel corso di una riflessione durata per anni, e che continua ancora, mi sono reso conto che il caso – questo genere in cui convergono medicina, diritto e teologia – implica da un lato la generalizzazione, dall’altro la tensione tra norme ed anomalie. Oggi rileggerei le mie osservazioni sul caso dei benandanti citando l’ossimoro, diventato famoso, di Edoardo Grendi: “eccezionale normale”.
“Le fiabe, i romanzi, i racconti nutrono la nostra immaginazione morale: partecipiamo alle emozioni di un burattino, di un assassino, di un insetto. Possiamo definire “studi di casi” le narrazioni che ci parlano di Pinocchio, di Raskolnikov, di Gregor Samsa? Dal punto di vista del genere letterario, certamente no. E tuttavia in quelle narrazioni ritroviamo un elemento che è al centro di ciò che chiamiamo letteratura: parlare di un frammento (magari minuscolo) della realtà come se si trattasse di un mondo, anzi del mondo. Allo stesso modo, un caso implica per definizione una serie, una comparazione, una generalizzazione implicita – anche se si tratta di un’anomalia, di un caso che non rientra nella norma”.
“L’esortazione di Walter Benjamin che viene ripetuta spesso come una giaculatoria – ‘Spazzolare la storia contropelo’ – significa anzitutto cercare di leggere le testimonianze storiche anche (non solo, ma anche) contro le intenzioni di chi le ha prodotte”.
Così, in modo controintuitivo, auspico che venga letta la testimonianza o caso che qui racconto.
1980
– “Ma come, non lo sapevi che Tenaglia fa l’impresario, adesso?, col terremoto ha messo una ditta di costruzioni. Caro mio, qua solo i fessi non si sono dati da fare. Sai come si dice: chi è fesso non esce dalla casa. Geometri e manovali sono diventati ingegneri e muratori, un miracolo! Altro che studi e università! E che palazzi e case che ti fanno. Si scialano in forme e colori; i tetti poi: macchè a due acque o a quattro acque! Ci sono di quelle composizioni che non sai dove guardare prima. Eh! Caro mio, te l’ho detto, il mondo è cambiato, siamo diventati moderni anche noi. Se nel 1962 ci eravamo sistemati un poco e avevamo fatto case tutte uguali, adesso non è più così. Si ricostruisce alla grande e arrivano i soggiorni signorili, l’aria condizionata, i doppi e tripli servizi. Come li fermi, è il progresso, la modernità. Gli ultimi scampoli del passato se ne sono andati in questi diciotto anni dal ’62 e la gente ha visto la possibilità di uscire dal medio evo. In fondo, se ci pensi, cos’era cambiato dal medio evo, qui, fino al 1962? È difficile criticare la gente che ha visto la luce, cambiando. La maggior parte viveva in tuguri e sottani, con gli animali in casa. E non solo i cafoni di fuori. Anche nei paesi, a parte i signori, le cose non erano molto diverse. Certo, quando le cose cambiano, possono cambiare in molti modi. Il terremoto però non è che ti dà tempo. Tutto accade in pochi minuti e in poche ore e poi niente è più come prima. Semmai ci sarebbe da distinguere tra chi coglie l’opportunità di un cambiamento e chi sfrutta la situazione per arricchirsi sulle spalle di chi ha bisogno. Ma questo dipende da come stavano le cose prima. Non trema in un mondo senza storia. La storia di prima conta. E poi c’era stato il ’62, una specie di prova generale per i furbi e gli approfittatori. Certo le migliaia di morti del 1980 avrebbero potuto fermare gli appetiti, ma questo è un ragionamento per anime belle. E quelle si sa sono poche, o meglio sono i fessi, alla fine, che la pensano così. Come si dice: chi è morto è morto. E allora è partito l’assalto e tutto è cambiato. Un fiume di soldi senza programma e senza un piano che definisse le scelte. E quelli come Tenaglia sono diventati ingegneri! Pensavo che lo sapessi”.
– “No, sai che non abito più qui da tempo. Quando torno mi sento spaesato. Siamo emigrati da anni. Solo ora però ci hanno dato il “decreto”, e finalmente possiamo farci la casa che era stata danneggiata irreparabilmente dal terremoto. Prima da quello del 1962, e poi, con il colpo di grazia, dal terremoto del 1980”.
– “Lo conosci, però, Tenaglia?”
– “Se lo conosco? Altrochè. Per i cinque anni delle elementari siamo andati a scuola insieme.”
– “Allora chiedi a lui, sta costruendo mezzo paese, e facendo le case di campagna, sicuramente ti dà una mano.”
– “Pensa un po’, era bravo in aritmetica, e teneva la penna in un modo strano, usando solo il pollice e l’indice. Aveva pure un curioso modo di chinare la testa da un lato quando parlava. In quello somigliava al padre e al fratello. Un modo convincente di trasmettere fiducia e pacatezza, con una parlata che già risentiva della pronuncia di un altro paese. Tutto questo ne faceva per me un bambino di confine, in un posto piccolo, dove le distanze si misuravano a piedi e, non dico il paese, ma un villaggio rurale vicino, era un altro mondo.”
– “Lo sai dove abita?”
– “No, abitava verso sud, sai quel posto dove cavavano pietre. C’era uno che portava pietre, Vincenzo, con un carro trainato da un cavallo. Quando gli chiedevamo di salire, tornando a piedi da scuola, ci diceva di leggere la scritta sulla sponda posteriore del carretto. C’era scritto: “domani posso servirti, oggi no”. Mi ricordo quello strano senso di delusione, misto però a speranza nel domani. Mai speranza fu peggio riposta: l’indomani avremmo ritrovato la stessa scritta. E così via. Non sapevo allora che quel giochetto sarebbe stato indicativo di un mondo intero, dove, per sperare in un futuro per me, avrei dovuto solo andarmene altrove”.
– “E no, ma quali cave, ora vive in paese, in una casa nuova, una villa, come si chiamano ora, nella zona del macchio, uno dei posti dove è stato ricostruito il paese dopo il terremoto del 1962. Te lo ricordi il macchio, la pineta che chiamavamo dei Buonopane?”
– “Beh! Sì, quello me lo ricordo, ma non c’è più. Ci andavamo a giocare perdendoci nella pineta. Ora neppure un pino. Solo case. Sopra i ricordi. Proprio lì sono andati a costruire. Ville e villette una sull’altra. Questo l’ho visto venendo qui ogni tanto. Un mondo stravolto, ad ogni viaggio. E chi è andato ad abitare dove c’era il macchio?”.
– “Al Parco Sciarappa si dice, non ‘dove c’era il macchio’. Chi se lo ricorda più il macchio. Noi forse. Bel nome, vero? Del resto a chi intestare un luogo così, se non a chi ha fatto e rifatto quello che ha voluto qui, grazie al mattone e a quello che ci sta intorno? E chi col mattone ha fatto fortuna, come Tenaglia, ora vive da quelle parti.”
“Però, ha fatto strada!”
“Eh! Il terremoto! Pure chi è chiochiero si è arricchito!”
“Andrò a trovarlo e vediamo se può occuparsi della costruzione della nostra casa.”
Un’atmosfera di sufficienza nel saluto, in uno spazio domestico scomposto, ci accoglie, me e mio padre. Un clima strano in un ambiente immenso, un garage adibito a ufficio; un ufficio fatto di una scrivania di finto mogano, piena di carte disordinate e impolverate, depositate lì senza usarle, una matita senza punta, rosicchiata da un lato. Due bambini col moccolo al naso; uno, il più piccolo, che indossa solo il pannolino, si arrampica dappertutto e urla se cercano di fermarlo. Una donna, la madre, appare furtiva e, afferrato il bambino, si ritira senza salutare. Un odore di fumo da camino che non aspira proviene da un altro lato della strada, dove si intravede una parte non completata con pilastri di cemento armato e ferro sporgente. Sterile il tentativo di richiamare il passato. Sembro solo io ad avere memoria di fatti e situazioni. È come se la memoria fosse rimossa o creasse fastidio. Un’attenzione distratta, come quando si propone cibo a chi è già satollo, una reazione indolente e un poco annoiata, è la risposta alla richiesta di occuparsi della costruzione della casa. Ma sì, si può vedere, possiamo provarci. A quanto ammonta il “decreto”, cosa volete fare, vedremo. La vigilanza sale, comunque non più di tanto, quando viene fuori che la concessione del finanziamento è relativa alla domanda fatta in seguito al terremoto del ’62. Si profila un complicato calcolo di convenienza che si sblocca quando mio padre dichiara che la nostra intenzione e di finanziare comunque direttamente la costruzione. Emerge allora, palese e finalmente espresso con ammiccamenti e sorrisetti, l’appetito e noi non sappiamo quanto ci costerà quell’affermazione. Ci vuole un ingegnere che firmi il progetto, ci dice. Che lo faccia, il progetto, diciamo. Macchè, ci dice, a che serve il progetto, qui le case le stiamo facendo tutte uguali, si risparmia. È vero che da un po’ di tempo la gente si è modernizzata e si sbizzarrisce. Ma chi ve lo fa fare; qualsiasi progetto costa di più e non serve a niente. Uno che firma, quello sì che ci vuole. Avremmo disegnato su un foglio una casa semplice, lineare, pulita, e avremmo trovato pure l’ingegnere. Anche in quel caso, non per una via di presunta amicizia ma, ancor peggio, per vie parentali. Chi se ne va, chi emigra, ha il male oscuro e rischioso della malinconia. Il mondo che si lascia, col cuore in gola, diventa il regno della nostalgia. Tutto si è enfatizzato nel ricordo e ci si aggrappa a relazioni distanti con persone che, col passare del tempo, di fatto non si conoscono più. I parenti e gli amici poi, divengono oggetto di mitografie, narrate e rinarrate, e ogni volta celebrate ed espanse di senso e di valore. Fu così che entrò in scena Michele Magro.
Una particolare pacatezza nel parlare, un altro accento ma la distanza linguistica era annullata dalla parentela. Una fama familiare alle spalle, di chi studia una disciplina ritenuta difficile e rivoluzionaria per i tempi e per il luogo, del tutto aliena all’edilizia, ma sempre di ingegneria si trattava e se poi era elettronica la cosa suonava davvero altissima di per sé. Quello che rimane nella memoria è la totale assenza di un documento contrattuale o di una carta del progetto. Tante parole, però e un continuo senso di impossibilità. Una scala interna? E non si può fare. Un tetto con una forma diversa dallo standard? Impossibile. Ma in cosa consisteva la direzione dei lavori o la firma del progetto non lo avremmo mai capito. O meglio, lo avremmo capito alla fine quando, nello scaricabarile sui difetti della casa e nella richiesta di compensi non contrattati scoprimmo che, per i documenti firmati da mio padre, tra i quali alcuni fogli di carta bollata in bianco perché dei parenti bisogna avere fiducia, ci trovammo a pagare cifre mai definite né corrispondenti ad alcuna prestazione riconoscibile.
Le foto, tranne la prima, sono di Ugo Santinelli
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