di FRANCO FESTA.
IN PREPARAZIONE DEL CONVEGNO ORGANIZZATO DALL’ASSOCIAZIONE “CONTROVENTO” DEL 18 OTTOBRE 2019: IL ’68 IN IRPINIA E IL CASO SAN CIRO.
pubblicato su “IL QUOTIDIANO DEL SUD” del 22 settembre 2019
Barbiana, il luogo dove fu scritto il libro ”Lettera a una professoressa” che ha cambiato la scuola italiana, oggi è un nome conosciuto in tutta Italia. Io e mia moglie ci siamo stato più volte, l’ultima a piedi, nel 2017, in occasione della sedicesima marcia per Don Milani, insieme a migliaia di persone che arrivarono da tutta Italia. Ci inerpicammo tutti insieme, in un silenzio colmo di parole, a partire da Vicchio, il piccolo comune ai piedi del monte Giovi, fino a quel borgo sperduto, un grumo di case intorno a una chiesa, e fino al piccolo cimitero nel quale c’è la sua tomba a terra, semplice, dove oltre il nome e cognome, la data di nascita e morte, Firenze, 27 maggio 1923- Firenze, 26 giugno 1967, è scritto solo: Priore di Barbiana. Sono poche tombe, di contadini, di artigiani, un piccolo cimitero di montagna. Il luogo non è cambiato per nulla, dagli anni 50, da quando ci arrivò quello strano sacerdote, nel 1954. Allora, però, era senza strada, senza luce elettrica, senza acqua nelle case, senza scuola, senza futuro. Don Lorenzo vi era stato mandato per punizione, per aver spaccato in due, così dicevano, il popolo della parrocchia di San Donato a Calenzano, dove era stato per sette anni, testimoniati da un altro libro straordinario, “Esperienze pastorali”. Libro meraviglioso e maledetto, cui fu tolto l’imprimatur dalle autorità ecclesiastiche, e che solo nel 2014 lo ha finalmente riavuto. Un libro innovativo, a metà tra autobiografia e inchiesta sociale, che nasceva dalla scoperta dell’incoerenza religiosa degli abitanti di San Donato, dovuta, secondo Don Milani, alla loro povertà culturale. Fu proprio per questo che fondò una scuola popolare. “Da bestie si può diventare uomini, e da uomini diventare santi. Ma da bestie santi d’un passo solo non si può diventare”, diceva, di qui la necessità di intervenire innanzitutto sul livello culturale dei suoi parrocchiani. “Esperienze pastorali” è un libro ricco di straordinarie intuizioni su un mondo, quello contadino, che stava cambiando, rotolando verso una piccola borghesia consumista, proprio come avrebbe poi detto Pasolini. Don Milan descrive con ironia e dolore il modo in cui i poveri scimmiottano i ricchi. “..Così ci capita di entrare, in certe casucce cadenti, dove c’è l’acqua in casa solo quando piove e dove si sale alla camera su una scala di legno ripidissima, per poi vedere a un tratto, come un capriccio di fate, una camera splendente di specchi e legni preziosi”. Inutile sottolineare l’attualità bruciante della notazione.
Ma chi è questo giovane prete che mette scompiglio in una comunità sonnolenta? Viene da una famiglia ricca e colta, con i genitori di diversa formazione religiosa. La mamma di educazione ebrea, Alice Weiss, il padre Albano Milano, di famiglia cattolica, ma agnostico. Riceve una educazione laica, di alto livello culturale, ma a 20 anni è un convertito. Parlerà di quegli anni come “i venti anni nelle tenebre dell’errore”. Ha una forte guida spirituale, che terrà accanto per tutta la vita, Don Bensi. Lascia tutto ed entra in seminario, per farsi prete. Rifiuta il mondo ricco e dorato in cui è nato per imboccare un’altra strada, quella dei poveri e degli ultimi. Fa tutto da solo, è poco più di un ragazzo. Lotta accanitamente con se stesso per sgretolare abitudini e l’educazione ricevuta in precedenza, fin dall’aspetto esteriore. Nell’aprile del 1947 è prete, e la curia lo assegna, per pochi mesi, alla parrocchia di Montespertoli. Lui obbedisce con qualche disagio, perché in quel comune la sua famiglia ha proprietà terriere, con i contadini che lo chiamano “il signorino”. E’ qui comincia a intuire che la vera supremazia del forte sul debole sta nel possesso della cultura.
E’ qui che fa amicizia con il ragazzo delle vacche, figlio di un sindacalista che difende i coltivatori diretti, e si confronta con un altro mondo. Il contadino gli parla dei diritti negati ai mezzadri, e sostiene che tra proprietari terreni e preti non vi è differenza, entrambi difendono i privilegi di chi comanda. Don Lorenzo gli obietta che anche il Vangelo condanna i ricchi, ma in ogni caso lo ringrazia, ha imparato, così dice, di più parlando con lui in questi pochi mesi a Montespertoli che durante i quattro anni di seminario.
Poi arriva la svolta e la Cura lo nomina cappellano del vecchio parroco della parrocchia di san Donato a Calenzano, un paese tra Firenze e Prato, ove, come in tutti i comuni della “rossa” Toscana si vive in un clima di feroce spaccatura tra cattolici e comunisti. Vi arriva l’11 ottobre del 1947, accolto sotto la pioggia da un gruppo di giovani. Vorrebbe subito la Chiesa schierata con le ragioni degli ultimi, come sostiene la sua forte e unica guida, il Vangelo, ma si rende conto che per questo occorre abbattere dei muri. Non è un prete comunista, anzi. Sbagliano i comunisti a sostenere che il Vangelo invita alla rassegnazione e sbaglia la Chiesa a strizzare l’occhio ai potenti anziché mettersi dalla parte dei più deboli. Rifiuta l’oratorio parrocchiale e l’organizzazione di ogni associazione cattolica. La Chiesa deve stare vicino agli ultimi, formarli, armarli degli giusti strumenti culturali. Una scuola popolare, quello serve. E serve un nuovo linguaggio, tagliente, che richiami il Vangelo, non accomodante, ma urtante. “Non sono venuto a portare la pace ma la spada”, è il motto che fa suo. Subito saltano i vecchi schemi. Seduti intorno alla stessa tavolo della scuola vi sono credenti e non credenti, militanti di partito e di sindacati diversi, uniti dalla voglia di sapere e dal desiderio del riscatto sociale. Arrivano i primi attacchi, dai benpensanti del paese e da gran parte dei preti della zona. Il suo nuovo modo di fare il prete entusiasma i giovani e gran parte del popolo. La frase più diffusa è: ”Quello sì che è un buon prete, non prende in giro le persone con belle frasi predicate dall’altare, ma è uno che fa e insegna il bene. Lui sì che è con i poveri”.
I suoi nemici invece affermano invece che è un seminatore di discordie, che il suo fare è un atto di accusa contro il loro modo di essere cristiani. Il suo vecchio prete lo difende, anche se non sempre lo capisce. Poi, in occasione delle elezioni del 1948, il Cardinale Elio Dalla Costa gli impone di tacere, perché non fa con fervore, come la Chiesa ha imposto, la propaganda alla DC. Don Lorenzo ha un atteggiamento molto diverso: rifiuta ogni schieramento preconcetto, non dipende posizioni di parte per partito preso, ma solo se coincidono perfettamente con i valori del Vangelo.
Il giovane prete obbedisce, ma non si ferma. La sua chiave è sempre la stessa, l’apertura e il dialogo verso chi è fuori della Chiesa. Esattamente come che sta facendo, nello stesso periodo, un altro piccolo prete a Cremona, don Primo Mazzolari. Don Lorenzo lo fa innanzitutto con l’esperienza della scuola popolare, in cui comunisti e democristiani siedono negli stessi banchi. Una scuola laica, così afferma l’informativa della stazione dei carabinieri di Calenzano “di cultura generale, di meccanica e di lingue straniere, francese e inglese, scuola che a mano a mano è andato sempre più affollandosi, fino ad essere frequentata da più di 100 giovani, dai 14 anni in poi. Tra essi in ambiente così eterogeneo vi si notano elementi aderenti a partiti estremi che, vedendo nella scuola la possibilità d farsi una cultura e di imparare un mestiere senza sostenere spese, non disdegnano di frequentarla”. E lo fa con un costante impegno sociale. In occasione della vertenza della Richard Ginori, una fabbrica della zona dove ci sono molti licenziamenti collettivi, partecipa a un’assemblea popolare, e non fa un intervento di circostanza. Bisogna agire su tre livelli, dice: tener vivo l’impegno immediato per aiutare chi si trova in uno stato di bisogno; colpire le cause che hanno determinato la crisi; fornire ai lavoratori gli strumenti culturali per combattere da pari a pari contro le ingiustizie e le disuguaglianze.
Parole profetiche e attualissime.
Lo scontro con i suoi avversari cresce di livello, fino alla morte dell’anziano prete, il 12 settembre del 1954. Di norma dovrebbe essere Don Milani a sostituirlo, ma non va così. Tutti i notabili del paese e i preti delle parrocchie confinanti lo ostacolano con ogni mezzo e si saldano per premere sulla Curia affinché individui subito un altro parroco. Racconta Don Palombo, un carissimo amico di don Milani. ”Non erano passate nemmeno 12 ore dal trasporto del Proposto che cominciarono ad arrivare altri preti ad ispezionare la canonica e la chiesa per veder se era di loro gradimento. Sembrava che venissero a vedere la chiesa come se fosse una vacca da comprare”. E sulla divisione interna alla comunità Don Milani così scrive: “Niente di nuovo se non infinite chiacchiere. L’affetto solidale delle vedove, degli orfani, dei giovani contadini e di tutti i minorati in un modo o nell’altro è commovente. L’attaccamento dei comunisti puzza di manovra e lo rifiuto con risposte taglienti…Poi arrivano notizie sulle manovre nemiche. Le accuse che devono essere arrivate in Curia si distinguono per la loro banalità e inverosimiglianza… Se vogliono punirmi non voglio andare a Firenze. Molto meglio nel più scomodo paese di montagna”. E così fu. I malvagi e le malelingue ebbero la meglio. Il clima si fa teso, si temono disordini tra le due fazioni del popolo. Ma Don Milani, alle molte persone sul piazzale che lo interrogano con faccia addolorata sulle sue intenzioni- parte dei 950 abitanti, quasi tutti gli adulti del paese, che firmano una lettera di solidarietà per lui e la inviano al Cardinale-, comunica in modo fermo che accetta le decisioni della Curia senza nessun segno di ribellione e che loro devono sostenere e rispettare questa sua scelta.
Se si leggono le parole che Papa Francesco ha pronunciato due anni fa, in occasione della sua visita discreta e riservata a Barbiana, se ne coglie, alla luce di ciò che abbiamo qui narrato, il suo profondo significato: “Mi piacerebbe che ricordassimo Don Milani soprattutto come credente, innamorato della Chiesa anche se ferito, ed educatore appassionato”.
Il 7 dicembre del 1954 Don Lorenzo Milani, a 31 anni, parte per Barbiana, un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Non c’è neppure sulle carte geografiche. Lo accompagnano la vecchia Giulia, che era rimasta vedova molto giovane e per vivere fu assunta alla grande fabbrica di cemento di Calenzano, e sua figlia Eda. Entrambe sono vicine a Don Lorenzo dai primi giorni in cui era arrivato a Calenzano, e non intendono lasciarlo solo. Sono già state qualche giorno prima a Barbiana, e ne sono tornate disperate. La chiesa sola, isolata nel bosco. Nessuna casa intorno.
(1-continua)