di FRANCO FESTA.
IN PREPARAZIONE DEL CONVEGNO ORGANIZZATO DALL’ASSOCIAZIONE “CONTROVENTO” DEL 18 OTTOBRE 2019: IL ’68 IN IRPINIA E IL CASO SAN CIRO.
pubblicato su “IL QUOTIDIANO DEL SUD” del 22 settembre 2019
Don Lorenzo Milani arriva nel deserto di Barbiana, perduto sopra il monte Giovi, sotto un violento temporale. Non vi è né luce elettrica, né acqua. Officia messa con il vecchio parroco, alla luce di poche candele. Sono presenti solo tre donne e due ragazzini. Uno di essi, Agostino, sarà il primo dei sei con cui Don Lorenzo organizzerà la scuola di Barbiana. Don Milani è stanco, afflitto, ma alla fine della Messa è già un uomo diverso. Non ha paura della solitudine, né delle poche persone. Il suo fine, intatto, è sempre lo stesso: l’elevazione umana, religiosa e sociale, tramite l’apprendimento della parola, tramite la cultura, delle persone sparse su quel monte sperduto. La mattina dopo prova a recuperare i pochi mobili che aveva dovuto abbandonare, nella tempesta, ai piedi della mulattiera che porta alla chiesa.
Trova solo roba fradicia, mobili scollati, galleggianti nell’acqua. Ha perso tutto. Va subito in giro con il vecchio parroco a conoscere le famiglie. Trova visi induriti dalla fatica, dall’ingiustizia e dalla solitudine. Un mondo che non conosce. Promette che sarebbe tornato presto, per conoscersi meglio e per proporre ai loro figli di andare a scuola da lui. Intanto prova a mettere a posto la canonica, ripara l’acquaio, il camino, il vecchio tavolo di cucina. Gli sono di aiuto, ed è una meravigliosa sorpresa, i suoi fedeli di Calenzano, che arrivano fin lì per aiutare il loro parroco. E sono con lui la notte di quel Natale, il primo a Barbiana, e tornano anche a Pasqua. Se riesce a sopravvivere, in quel primo periodo, è perché il suo vecchio popolo non gli fa mancare niente. Intanto cominciano ad arrivare i primi ragazzi, per la scuola. All’inizio la comunità di Barbiana è diffidente con quello strano prete. Poi scopre che ha eliminato le recinzioni, intorno alla sua casa, perché l’abitazione del prete deve essere aperta, e che ha chiamato il contadino che lavora il podere della chiesa per nominarlo fattore, e tutto quello che ricava dal podere è suo, purché gli mandi i figli a scuola. Dunque il prete non è un nemico, come gli altri proprietari, il prete è come loro. Così, con l’esempio e con le parole, Don Milani riesce a convincerli a mandare i loro ragazzi a scuola. Ne mette insieme una decina che dopo il tramonto scendono dai campi e dai boschi verso la canonica. Si fanno luce con le lampade a carbone, o con le candele. La luce a gas arriveranno più tardi.
Scrive alla mamma:” Tutto è nuovo, tutto è accetto, tutto appassiona. Basta una trovata nuova per sera e stanno lì occupati, appassionati fino a mezzanotte.. Insomma la scuola è un fuoco di fila di gioia e si vede i ragazzi rifiorire di minuto in minuto…Nessuno dorme, nessuno resta indietro durante le discussioni, ognuno ha un’opinione personale: poi, quando si ritorna alla grammatica, ci sarebbe da farsi prendere dallo sconforto. Per alcuni è come parlare a dei massi di pietra. Ma quando si sono visti vivi in un campo, bisogna bene che lo possano diventare anche in tutti gli altri”. Poi, per i primi sei ragazzi, avvia nel 1956 la scuola di avviamento industriale. E’ a tempo pieno, dalla mattina alla sera tardi, tutti i giorni, compresa la domenica, perché in quella scuola non ci sono vacanze, come nel lavoro nei campi e nelle stalle. Ma tra quello e la scuola, la scuola è meglio. C’è questo dietro la famosa frase di Lettera a una professoressa: ”La scuola sarà sempre meglio della merda”. I ragazzi occupano tutta la casa, ogni stanza è un’aula, anche la stanzetta dove dorme Don Lorenzo, e l’intero piano terra è il laboratorio dove i ragazzi imparano a costruire tutto quello che serve per la scuola: tavoli, sedie, librerie, strumenti didattici. Don Lorenzo è un maestro severo. Qualcuno lo accusa di usare anche la frusta-in realtà un ramoscello alla contadina- ma egli reagisce con una certa asprezza a queste accuse.
”Questi ragazzi non sono come i vostri! Sono figli di pastori. Bisogna dimostrargli che la scuola è una cosa seria”. E aggiunge. ”Voi credete che la scuola deve essere democratica. La vostra forse. Qui invece deve essere monarchica assolutista, se vuole creare gli strumenti della democrazia”. Parole usate per provocare, per far cogliere la qualità del problema di dare la forza della parola a chi la parola non l’ha. Perciò a Barbiana non sono concessi svaghi futili. Ogni giorno, per tantissime ore, si studia, si discute, si legge il giornale e si apre un dibattito sugli argomenti più importanti del giorno . Anche lo sci, il nuoto praticato nella piccola piscina costruita artigianalmente hanno un fine pratico o educativo. E i ragazzi amano il loro sacerdote, gli sono molto affezionati. Intanto, in quella scuola che non si ferma mai, i sei che avevano preso la licenza di avviamento diventano anch’essi maestri. I più grandi insegnano ai più piccini.
Tanti, nel frattempo, giornalisti, intellettuali famosi, pedagogisti, cominciano nel corso degli anni, specie nei primi anni 60, ad arrivare a Barbiana, per conoscere quel prete e la sua scuola, di cui tanti parlano. Don Lorenzo apre la porta, ma l’accoglienza è spesso fredda. E’ diffidente, qualche volta antipatico, rifiuta di essere strumentalizzato o etichettato, non vuole essere santificato. Soprattutto non vuole perdere tempo, perché il suo tempo è solo per i suoi ragazzi. Solo due persone vengono accolte e diventano parte integrante di Barbiana. Il professore Agostino Ammannati, che insegnava Lettere al liceo di Prato e che per anni, d’estate, si reca in bicicletta da Prato a Barbiana per insegnare un po’ di Italiano a quei ragazzi, che seguono incantati le sue lezioni sulla Divina Commedia, i Promessi Sposi, i Malavoglia; e la professoressa Adele Corradi. Arrivò nel settembre del 1963, era venuta per apprendere il modo diverso di fare scuola da parte di don Lorenzo. Presto si accorse che non era possibile scindere il maestro dai suoi ragazzi. Viveva con loro e per loro. Chiese il trasferimento in una scuola del Mugello, poi andò ad abitare in un a casa del poggio di Barbiana . Si radicò in quella comunità in modo profondo, stette al loro fianco fino alla morte di Don Lorenzo. E’ lei quella di cui si parla nella Lettera a una professoressa: “Poi finalmente trovammo una professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene”.
Una ferita aperta nel cuore di Don Milani fu lo scontro con la gerarchia ecclesiastica. Era diventato cardinale Ermenegildo Florit, ma nulla era mutato nei suoi confronti. Fu uno scontro fino alla fine. Era considerato, negli ambienti cardinalizi, “un paranoico, un fanatico”. Questo gli provocava un dolore immenso, perché temeva che quel clima avrebbe vanificato la sua scelta di servire la Chiesa attraverso i poveri. Solo molti anni dopo, nei primi anni ‘80, il vecchio cardinale, che ormai aveva lasciato la Diocesi per limiti di età, si recò, in forma privata, a pregare sulla tomba di Don Milani, nel piccolo cimitero di Barbiana, visibilmente amareggiato e pentito. Non era l’atto d’onore che Don Lorenzo aveva chiesto in vita, ma solo un intimo atto di riparazione da parte dell’arcivescovo. Poi arrivarono altri cardinali, a partire dalla fine degli anni 80,e infine, nel 2017, la splendida, commovente visita privata di papa Francesco a un sacerdote obbediente e innamorato della sua Chiesa, anche se da essa incompreso e ferito.
Lo scontro era diventato più acuto nel 1965, in occasione della sua lettera di risposta ai cappellani militari, al loro ordine del giorno con il quale definivano vili gli obiettori di coscienza. Allora chi obiettava finiva dritto in galera. Don Milani usa contro i cappellani parole nette e durissime:” Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, fare orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruenti: lo sciopero e il voto”. Della lettera ne fece stampare tremila copie da distribuire ad amici, conoscenti, uomini politici, sindacalisti. Solo “Rinascita” il settimanale del PCI la pubblicò intera, tra mille distinguo. Quella lettera, poi stampata con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù” gli costò contumelie, minacce, manifesti contro, violenti attacchi personali, e una denuncia da parte di “un gruppo di combattenti” per apologia di reato. Assolto in primo grado, sarebbe stato certamente condannato in appello, come lo fu il direttore di Rinascita, se la morte non fosse sopraggiunta prima.
L’idea della “Lettera a una professoressa” nacque dopo la bocciatura di tre dei suoi ragazzi che studiavano per diventare maestri. E’ il più grande monumento di parole semplici e chiare contro la bocciatura e l’ingiustizia di classe che essa cela, la più straordinaria denuncia contro una scuola che “cura i sani e respinge gli ammalati”. Un documento che aprì dentro la scuola un dibattito infuocato e che ancora oggi è di bruciante attualità, per i vecchi e nuovi poveri del mondo. Fu davvero elaborato in forma collettiva, sotto la guida, giorno per giorno, di un don Lorenzo ormai sempre più malato e sofferente, che spesso faceva lezione dalla branda, fino alla fine, quando prima di essere pubblicato fu fatto leggere dai contadini della zona, che segnavano le parole e le frasi che non avevano capito e sulle quali si riapriva la discussione. Apparve nelle librerie circa un mese prima che Don Milani morisse, con un autore anonimo e collettivo: Scuola di Barbiana.
A proposito di quella straordinaria esperienza così scrive Michele Gesualdi, che è stato uno dei primi sei ragazzi, poi Presidente della Provincia di Firenze dal 1995 al 2004: “Don Lorenzo si radica in modo sempre più profondo in quel mondo povero di parola, di futuro, di speranza, divenendo insieme prete, padre, maestro e figlio dei suoi montanari. Con la scuola dona e riceve. Dona ai figli dei contadini di Barbiana gli strumenti culturali che possiede, soprattutto il dominio della parola, per non essere più ingannati e camminare nella vita da persone libere. In cambio riceve la cultura nuova dei poveri che lo trasforma dandogli occhi, orecchie, bocca e cuore nuovo che ne fanno un uomo diverso. Da ultimo è povero tra i poveri, parla scarno come loro, vede i problemi con i loro stessi occhi, vibra come loro del desiderio di un mondo più giusto”.
Don Lorenzo Milani morì nella sua casa di Firenze, divorato dal cancro, il 23 giugno del 1967, a 44 anni, circondato dai suoi ragazzi e dai familiari.
“ In questa stanza c’è un cammello che passa dalla cruna dell’ago” così disse, qualche ora prima di spirare. Fu seppellito nella nuda terra del cimitero di Barbiana, in un pezzo di terra che aveva acquistato 13 anni prima, appena arrivato, come segno del fatto che lì sarebbe stata la sua vita e lì voleva restare dopo la morte Quando la bara fu calata, diversi ragazzi sparsero sulla sua bara piccoli pugni di terra. Era un gesto di speranza affinché quella terra dura e amara potesse continuare a rifiorire.
(2-fine)
Dedicato a Rosalba Delli Gatti, che è stata per tutta la sua vita di insegnante, ed è ancora oggi, tenacemente fedele alle parole di “Lettera a una professoressa”.