Il ’68 in Irpinia e il caso san Ciro (2)

di ANNIBALE COGLIANO.

SAGGIO INTEGRALE

Gennaio 1969: il mese più caldo del movimento studentesco – L’anno scolastico 1968-69[i] è l’anno della mobilitazione studentesca cittadina, con frequenti cortei per le strade della città. Il primo atto è l’occupazione del liceo scientifico Mancini. Il 23 gennaio, circa 2500 studenti del liceo Colletta, del liceo Mancini, dell’Istituto magistrale, dell’Istituto tecnico per geometri, si astengono dalle lezioni e manifestano per le vie della città, chiedendo il varo della riforma dell’esame di maturità, appena proposto da Fiorentino Sullo (inneggiato in alcuni cartelli), a cui è inviato un telegramma di sollecitazione. Gli studenti di Avellino non sono soli, con loro vi sono gli studenti del liceo classico “Pascucci” di Dentecane, manifestando nella stessa giornata per gli stessi obiettivi. L’indomani, la manifestazione si ripete arricchita dalla presenza degli studenti degli istituti tecnici, professionali e agrari. Alle richieste della giornata precedente si aggiunge la richiesta di una mensa per gli studenti fuori sede che frequentano gli istituti cittadini, la possibilità di fruire degli ampi locali dell’ex edificio fascista della Gioventù italiana, e la protrazione dell’orario di apertura della Biblioteca provinciale.

In questa effervescenza, la distanza delle istituzioni e della Democrazia cristiana cittadina è fuori misura, con accuse appena velate al mondo cattolico. Il Prefetto, in entrambe le manifestazioni, non trova di meglio che annotare il tentativo di egemonia da parte di «estremisti di sinistra frustrata dagli stessi studenti». Un dirigente pubblicista della Democrazia cristiana, Antonio Di Nunno (molti anni dopo, illuminato sindaco della città, puntualmente defenestrato dal suo stesso partito per gli interessi corporativi che andrà a ledere), con toni pasoliniani irride ferocemente alla contestazione dei liceali avellinesi, pubblicando un articolo in cui ironizza sugli studenti del liceo classico Colletta: I “licealisti costituiscono una categoria di notabili? «Come è potuto accadere che il più vecchio e glorioso Liceo della città si è messo alla testa delle proletarie richieste di tutta la gioventù irpina e si è successivamente astenuto dal seguire il passo chiarificatore del Magistrale e del Geometra del capoluogo? Il fatto è che a tirare le fila della contestazione liceale sono stati quei giovani che per posizione sociale, per condizione economica, e per quanto hanno avuto dall’attuale sistema scolastico, sono meno pressati da immediate esigenze… popolari. […] C’è un aspetto prettamente psicologico, inoltre, da considerare in tutta questa storia: il complesso di superiorità e l’esagerato spirito di corpo che hanno sempre fatto capolino fra gli allievi del Colletta. Sulle orme di ministri, parlamentari, docenti e giornalisti di gran livello, gli allievi sentono di essere già classe dirigente. La materia grigia, sui banchi del Colletta, sembra sprecarsi: corteggiati e lusingati fin dagli ultimi anni di studio, rappresentano un’anteprima dell’intellighentia irpina. In Avellino (la città che offre l’80% e passa degli iscritti) non si neppure il tempo di maturare che subito si passa a dirigere qualcosa. I De Conciliis, gli Ausania, gli Argenziano, i Tino, i Guarino, i Festa e i tanti altri protagonisti della vita politica del mondo giovanile avellinese, hanno già nelle loro mani grosse fette di potere: da poderose organizzazioni religiose e comodi strumenti politici, quali sono oggi i movimenti giovanili dei partiti»[ii].

Ma questa e altre prese di distanza scorrono ininfluenti e parallele a quanto si muove nella città. Alla fine di gennaio, per gli stessi obiettivi di riforma scolastica, una minoranza passa all’occupazione degli edifici del liceo scientifico e dell’istituto tecnico. Le autorità scolastiche e quella prefettizia – ed è una significativa novità che rinvia al clima politico generale del Paese – non ne fanno però una questione di ordine pubblico e accettano il fato compiuto, limitandosi a interrompere la fornitura di acqua, elettricità e dei servizi telefonici. Né dal ministero dell’Interno e della Pubblica istruzione giungono direttive repressive. Il giorno precedente, un’altra minoranza, ricevuta dal Prefetto, pone per la prima volta una questione di democrazia all’interno della scuola: il diritto all’assemblea e all’autoregolamentazione nel corso dell’anno, senza che vi sia il parere vincolante del capo d’istituto e senza un limite prefissato.

Il mese di gennaio si chiude con un’altra novità: gli studenti solidarizzano con i dipendenti dei trasporti in sciopero, astenendosi dalle lezioni e manifestando per le vie cittadine. Con un vistosa crepa però: vi sono gli studenti di tutti gli istituti, tranne quelli del liceo scientifico e classico. Rigurgiti corporativi?

Il ministro della Pubblica istruzione, per illustrare la riforma che sta approntando, il 17 febbraio, lascia Roma e risponde alla chiamata degli studenti irpini, scegliendo un istituto storico simbolo dell’estremo lembo orientale della provincia, l’istituto magistrale di Lacedonia, voluto da Francesco De Sanctis. Quando di lì a qualche settimana si dimetterà, avendo comunque fatto varare parti chiave della riforma programmata, gli studenti dello stesso istituto occuperanno l’edificio in segno di solidarietà e di protesta per le sue dimissioni (solidarietà espressa nei giorni successivi da altri istituti della provincia).

Il mese di gennaio si chiude con un’altra novità: gli studenti solidarizzano con gli operai edili in sciopero, astenendosi dalle lezioni e manifestando per le vie cittadine. Con un vistoso duplice limite: 1) vi sono gli studenti di tutti gli istituti, tranne quelli del liceo scientifico e classico; 2) il movimento studentesco non ha una propria organizzazione autonoma.

Discorso a sé merita il movimento di contestazione nel liceo simbolo della città, il Colletta, frequentato quasi esclusivamente dai rampolli della borghesia cittadina. Tanti di loro sono allievi del frate Pio Falcolini, che ivi insegna, portando, come in San Ciro, i temi del rinnovamento religioso e civile, in un tempio laico che dovrebbe essere della conservazione, la cui vestale, il preside Giuseppe De Feo, è solo cieco nella sua arroganza. La sua sospensione dall’insegnamento per un anno e la denuncia che ne segue, ne fanno un simbolo della contestazione e riferimento cittadino e provinciale ampio: ben 131 fra professori e presidi di varia estrazione politica, ritenendo il provvedimento adottato “lesivo della dignità e della libertà d’insegnamento”, con un manifesto pubblico, firmeranno un documento di sostegno alla sua mancata riconferma l’anno successivo. Il processo boomerang si chiuderà con non luogo a procedere, ma lo scomodo insegnante di religione comunque non sarà riconfermato per l’anno 1969-70, malgrado la solidarietà espressa con l’astensione ripetuta dalle lezioni degli studenti (non solo liceali, ma anche di altri istituti), numerose manifestazioni cittadine, sciopero della fame dei più vicini al frate francescano e la perorazione della sua causa presso il vescovo della diocesi di Avellino, cui aderisce anche il neonato movimento giovanile democristiano. Agli studenti che occupano l’istituto per protesta, il preside risponde con la richiesta di sgombero tramite l’intervento della forza pubblica, chiedendo il placet del corpo docenti. Al diniego, annuncerà le proprie dimissioni e la richiesta di collocamento in aspettativa. Il nuovo ministro della Pubblica Istruzione annuncerà a sua volta un’inchiesta, che poi si concluderà con un nulla di fatto: gli uomini cadono, ma le istituzioni sono salve[iii]!

Gli inizi dell’autunno 1969 segnano un’altra tappa di apertura sociale. La parrocchia-laboratorio di San Ciro, coerentemente ai messaggi del presepe del Natale, promuove iniziative verso gli ultimi della città. L’esempio degli studenti che qualche mese prima hanno solidarizzato con i lavoratori dei trasporti in sciopero fa scuola. Il 2 settembre si ha un blocco stradale del corso cittadino principale: tanti i giovani, diversamente politicizzati e schierati, in modo unitario, si battono per la consegna delle nuove case per gli abitanti dei fatiscenti Rione Parco e San Antonio Abate, che abitano in tuguri sovraffollati (la cui sorte sarà drammaticamente segnata nel terremoto del 23 novembre 1980). La lotta per la casa si accompagna alla lotta per i diritti e il salario della nuova classe lavoratrice emersa negli anni ‘60: gli edili sottopagati, privi di protezione sul lavoro e con orari massacranti, a fronte di uno sviluppo edilizio speculativo e selvaggio che le amministrazioni comunali in carica negli anni ’60 hanno favorito e da cui hanno tratto lucro e voti[iv]. I quartieri di recente formazione (San Tommaso – dove spicca come animatore l’assistente sociale Ennio De Franco –, Rione Mazzini, Rione Aversa) sono anche teatro di comitati popolari cittadini che ripropongono le esperienze di partecipazione popolari dei grandi centri del Nord o della capitale. Che ciò porti a esiti non sempre significativi non toglie che per la prima volta il lavoro e l’abitare diventino aspirazione alla qualità della vita e ad una diversa socialità per i servizi sociali primari, il verde, i trasporti.

L’infanzia abbandonata dell’ex Orfanatrofio non è più oggetto di elemosine caritatevoli, ma umanità di prim’ordine per la quale vanno rimosse le condizioni incivili in cui è fatta vivere. Della sacralità e necessità della violenza in talune circostanze è testimone uno schiaffo dato dalla giovane Tina Capone, detta la pasionaria (il nome di battaglia di Dolores Ibarruri, figura mitica di lotta nella Spagna franchista) al sacerdote don Gerardo Marzullo, durante un’infuocata assemblea alla Biblioteca provinciale, che ne difende la gestione e giunge a usare un epiteto volgare contro la giovane contestatrice.

Lo svecchiamento culturale passa anche attraverso il cinema: in un suggestivo altopiano d’estate si tiene un festival, il Laceno d’oro (Camillo Marino e Giacomo D’Onofrio gli animatori), che diventa luogo d’incontro di cineasti di grido e riferimento culturale nazionale.

Tale fermento vede i partiti tradizionali assenti e l’amministrazione comunale in carica ostile. Sola eccezione fra i vecchi partiti, che fa i conti con il ’68, è il Psiup, che accoglie già prima del 1968 i fermenti e le contraddizioni della modernizzazione in atto in provincia e nel Paese. Seguiamone qualche passo. A fine 1966, a qualche giorno dal Natale, il Psiup promuove una manifestazione studentesca cittadina contro la visita del ministro della Pubblica istruzione, on. Luigi Gui, cui seguono denunce e ammende al segretario provinciale della Federazione giovanile, Andrea Preziosi, e ad altri tre studenti universitari[v]. La manifestazione – che oggi leggeremmo come ingenua e primitiva – e la contestazione del ministro, invitato ad Avellino per inaugurare il Museo irpino, hanno ad oggetto un’idea della cultura diversa da quella della celebrazione dell’antichità classica, stigmatizzata come borghese: “la vera cultura è quella del proletariato”[vi]. E’ evidente il richiamo alla rivoluzione cinese in corso della furia iconoclastica delle guardie rosse, come cinesi sono chiamati i militanti del Psiup.

Agli inizi del 1968, a cura della Federazione giovanile, si ripubblica il periodico “L’impegno”, con una tiratura di 1000 copie –, irregolare nell’uscita e senza un vero e proprio corpo redazionale[vii].

Sul finire del ’68 (tardi rispetto ad altre aree italiane, annota il Prefetto), unitamente alla Federazione giovanile del Partito comunista, costituisce un comitato permanente di agitazione degli studenti, di scarso seguito, i cui obiettivi, di estrema fumosità e genericità, sono testualmente i seguenti:

  • Democratizzazione della vita studentesca attraverso un’opera contestativa che si ricollega ai tempi generali elaborati dal Movimento studentesco internazionale.
  • Ricercare collegamenti fattivi con il movimento operaio.
  • Porre in crisi l’attuale società, facendone scoppiare le contraddizioni che ipocritamente si tenta di nascondere attraverso la stampa asservita e i mezzi di comunicazione mendaci[viii].

Dopo alterne vicende e una presenza tangenziale al movimento degli studenti e alle iniziative politiche sul territorio del gruppo di San Ciro, si arena e si frantuma quando, contro il nuovo corso espresso da Dubcek, una parte di esso sostiene l’invasione sovietica di Praga. “Carristi? No, bicarristi!”, è l’espressione provocatrice di uno dei suoi esponenti più accreditati, Camillo Marino, con cui dà valore positivo alla invasione con i carri armati del 1968 e a quella precedente del 1956 in Ungheria. Molti, di lì a poco, malgrado un commissario straordinario inviato dal centro, passeranno in blocco al Partito socialista.

Il Partito comunista, assente quasi del tutto in Avellino città, fa vita grama dagli inizi degli anni ’50, quando le lotte per l’occupazione della terra in Alta Irpinia[ix] – dove resiste ancora con sezioni e governo di amministrazioni comunali assediate – hanno esaurito il loro ciclo e la Democrazia cristiana ha egemonizzato con la spesa pubblica e il controllo delle assunzioni (Cassa per il Mezzogiorno, Consorzio Idrico dell’Alto Calore, Consorzio di bonifica di Valle Ufita, nucleo industriale di Pianodardine, pubblico impiego, servizi sanitari ospedalieri, pensioni) l’intero territorio provinciale. Le sue iniziative politiche sono dirette a denunciare il sottosviluppo della provincia (fra l’altro, i terremotati del 1962 vivono ancora in baracche) e a denunciare l’occupazione democristiana dello Stato, attraverso l’uso spregiudicato della spesa pubblica. La marcia degli esclusi (2.000 partecipanti dall’intera provincia, annota la Prefettura), da Atripalda ad Avellino, organizzata il 16 aprile del 1967, è realtà e metafora della sua linea politica per la fine degli anni ‘60 e per tutti gli inizi degli anni ’70, sino a quando vi sarà un rinnovamento del gruppo dirigente[x]. Il movimento del ’68 o gli sarà estraneo o sarà letto come fatto sovrastrutturale che non morde la realtà. Non che non vi siano altre azioni politiche con spessore ideale. Costante, ad esempio, è la propaganda per l’uscita dal Patto atlantico e la denuncia dell’intervento americano in Vietnam e, per la cui causa la federazione comunista “della provincia più povera d’Italia” raccoglie anche fondi consistenti (un milione di lire che una delegazione porta a Parigi ai rappresentanti del Vietnam del nord); ma non è un’azione che apre falle di consenso conservatore nella società: gli Stati Uniti sono garanti della democrazia e del benessere cui l’Italia partecipa in Occidente. Pesa, oltre la ghettizzazione sociale, l’anticomunismo religioso che ha da tempo confinato gli iscritti e l’adesione al Partito comunista dei contadini e degli artigiani del lontano passato di lotte.

Ghettizzazione che cresce fra fine ’68 e inizi ’69 con la sospensione dal Partito[xi] per due mesi del direttore responsabile del periodico “Il Progresso irpino”, prof. Luigi Anzalone, e del prof. Federico Biondi, entrambi membri della segreteria provinciale, «per aver redatto e pubblicato, senza che alcun organismo dirigente della federazione ne fosse a conoscenza», un articolo in cui si criticava l’espulsione di autorevoli dirigenti e intellettuali che avevano fondato la rivista critica de “Il Manifesto” (Aldo Natoli, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri)[xii]. Inoltre, l’articolo accostava l’espulsione del gruppo del “Manifesto” all’arresto del direttore di Potere operaio e all’invito al romanziere Solgenitsin da parte dell’Associazione degli scrittori sovietici a lasciare Unione sovietica.

Piuttosto, il ’68 agirà sul Partito comunista irpino indirettamente, attraverso esperienze metropolitane d’importazione di giovani studenti che frequentano le università fuori provincia. E’ il caso esemplare del futuro segretario della Federazione comunista, Michele D’Ambrosio. L’infanzia e l’adolescenza del vescovo rosso – come poi sarà stigmatizzato per il suo integralismo – erano trascorsi a Bonito, comune di origine e feudo elettorale di Alfredo Covelli, fondatore del Partito nazionale monarchico, di cui è segretario nazionale dopo la proclamazione della Repubblica. Insegnante di latino e greco, imparentato con Bocchini, potente ministro di polizia fascista defenestrato da Mussolini qualche mese prima della sua caduta, Covelli, da ex ufficiale dell’aeronautica e segretario di un generale negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, fra la Corte scappata a Brindisi dopo l’armistizio dell’8 settembre, adocchiato dal re, si era ritrovato a essere un alto funzionario del governo Badoglio. Gli anni di transizione alla Repubblica gli erano serviti a creare, a Bonito e dintorni, un forte tessuto clientelare, attraverso assunzioni nella Pubblica amministrazione provinciale e statale, cospicuo bacino elettorale futuro per la sua elezione a deputato nel Blocco della libertà. Il padre del vescovo rosso, sarto, ne aveva frequentato, insieme al figlio, assiduamente la casa per tutti i decenni successivi. Di quella frequentazione che accompagnava i fasti dell’alfiere di casa Savoia, il vescovo rosso porterà il marchio per il resto dei suoi giorni. Sino all’iscrizione alla facoltà di filosofia dell’ateneo napoletano, il brillante studente del liceo non aveva lasciato presagire nulla che andasse fuori dei binari: il padre sognava per il figlio una comoda vita all’ombra del suo protettore. L’uscita a Napoli dal sonnolento ambiente provinciale aveva sconvolto però le attese paterne. L’università occupata e i gruppi studenteschi avevano travolto l’educazione e i valori del quieto studente di provincia, per farne dello studente pendolare un ribelle. Un episodio traumatico aveva dato una svolta alla sua vita. Era con un suo amico in via Toledo, la strada principale della vecchia capitale, nei pressi della Questura, dove una quindicina di donne protestava pacificamente per l’assegnazione di una casa. Un poliziotto aggredì una di loro, incinta. Il suo amico scappò, ma egli rimase a opporsi al sopruso. Fu arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e fu detenuto per molti mesi nel carcere di Poggioreale, da cui uscì, a testa alta, con pena sospesa. Ad aiutarlo quotidianamente in quei frangenti era stato lo stesso segretario di federazione, Gaetano Grasso, che subì poi, defenestrato, il suo rinnovamento, e contro cui, qualche anno dopo, l’ex carcerato si scagliò con ripetuta violenza, sino a indurlo a passare in campo avverso. La cella fu il viatico della forza e della sua determinazione futura. L’introverso ragazzo di paese rivisitò la storia e il suo passato divenne la riserva inesauribile di una macchina da guerra. Anche il padre dell’amico scappato, un muratore, vi mise del suo incoraggiando la ribellione del figlio e degli amici di suo figlio. Il muratore era stato in passato il primo segretario di sezione del Partito comunista bonitese, ridotto al silenzio con violenza dai mazzieri di Covelli, che per anni, con il nome di arditi d’Italia, avevano scorrazzato impuniti, partendo da Bonito per le loro bravate, sin anche a Napoli o a Roma. L’erede di casa Savoia, dal canto suo, aveva vissuto come alto tradimento l’affrancamento del figlio del suo devoto sarto, che per anni e anni aveva giocato e vissuto con i suoi figli. «I comunisti sono un grumo di sangue e di odio!», tuonava nella piazza affollata, che da trent’anni era solo sua. «Avanzo di galera!», gli facevano eco i suoi scherani, rivolgendosi all’ingrato che aveva osato alzare la testa. Erano gli ultimi insulti del suo tramonto politico, nello stesso tempo in cui cominciava l’alba del giovane nemico. Covelli provò più tardi, da sindaco, quando il Partito che aveva fondato si era già dissolto, persino a negargli la sua piazza per una festa del giornale nazionale del Partito comunista, ma ne uscì umiliato e bastonato per la sua arroganza. Dopo il carcere napoletano, il giovane figlio del sarto si batterà come un leone per i mezzadri, i contadini e gli edili avventizi che lavoravano per l’autostrada del Sole in costruzione. Fra le sue prime esperienze aveva imparato anche a combattere il sindacato e il Partito comunista dei notabili della sua provincia, la cui uscita di scena gli appariva non meno necessaria del tramonto dell’uomo di casa Savoia[xiii].

[i] Per quanto segue. cfr. ACS, Ministero dell’Interno, fascicoli correnti, quadriennio 1967-1970, fasc.lo 15583/9, note prefettizie del 23, 24 gennaio, 3, 4 e 17 febbraio 1969.

[ii] Cfr. “Tribuna dell’Irpinia”, n. 4 del 29 gennaio 1969.

[iii] Ivi, note prefettizie del 9, 11, 15 ottobre, e 9 e 10 novembre del 1969.

[iv] In un solo giorno, il 31 agosto 1969, sono firmate dal sindaco Scalpati centinaia di licenze edilizie che stravolgono il piano regolatore appena approvato. Resta memorabile, nella storia della città, la scena del sindaco, seduto davanti al bar Lanzara, con gli impiegati che salgono e scendono le scale, correndo dal palazzo del Comune di fronte con le licenze edilizie in mano.

[v] Cfr. ACS, Ministero Interno, Gabinetto, Quadriennio 1967-70, fascicoli correnti, n. 15583, nota prefettizia del 31 maggio 1968, che comunica la condanna del pretore di Avellino.

[vi] Cfr. la testimonianza di Antonio Spina, in Il ’68 degli irpini…, cit., p. 71.

[vii] Cfr. ACS, Ministero Interno, Gabinetto, Quadriennio 1967-1970, fascicoli correnti, n. 17031, nota prefettizia del 27 gennaio 1968. Direttore responsabile del periodico è Benito Maffei, consigliere comunale e segretario aggiunto della CGIL; direttore culturale è Andrea Preziosi, la figura più di rilievo del Psiup irpino, poco più che ventunenne, che di lì a qualche anno sarà per lunghissimo tempo segretario provinciale della UIL.

[viii] Cfr. ACS, Ministero Interno, Gabinetto, Quadriennio 1967-70, fascicoli correnti, n. 15583, nota prefettizia del 20 novembre 1968. Presenza del gruppo annotata nel solo liceo scientifico Mancini. In competizione, i giovani del Movimento sociale che hanno un loro gruppo al liceo Colletta. Verso la metà del mese successivo, il Psiup tenta di egemonizzare il movimento studentesco indicendo una manifestazione presso la parrocchia di San Ciro, annunciando velleitariamente la presenza del ministro della Pubblica istruzione: l’iniziativa non riesce, e i giovani del Psiup si trovano da soli a fronteggiare gli esponenti della Giovane Italia, gli unici accorsi all’iniziativa. Ivi, cfr. nota prefettizia del 14 gennaio 1969.

[ix] Cfr. A. Cogliano, Terra e libertà. L’occupazione delle terre e l’occupazione dello Stato in Irpinia nel secondo dopoguerra, Quaderni Irpini, Gesualdo 2008.

[x] Cfr. ACS, Ministero Interno, Gabinetto, Quadriennio 1967-70, fascicoli correnti, n. 12010, note del Prefetto del 29 marzo e del 13 aprile 1967. Testo del manifesto di convocazione:

«No all’abbandono e alla disgregazione sociale –

Il Partito comunista invita tutti i lavoratori, gli intellettuali, i giovani, le donne a partecipare alla Marcia degli esclusi per rivendicare una nuova politica per l’Irpinia e per il Mezzogiorno che si articola nei seguenti punti:

  • Superamento dei contrati agrari e miglioramento della previdenza e assistenza ai contadini.
  • Attuazione delle opere per l’irrigazione e trasformazione agraria e forestale nei bacini del Calore, dell’Ofanto e dell’Ufita.
  • Ente regionale campano di sviluppo agricolo e democrazia nelle campagne, nelle mutue e nei consorzi.
  • Piano di costruzione di case economiche e popolari, e immediata costruzione degli ospedali e delle attrezzature civili già finanziati.
  • Sviluppo delle industrie per la trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli, nel quadro di un piano regionale di industrializzazione e di una nuova politica delle Partecipazioni statali.
  • Inserimento nella programmazione del problema della ricostruzione e della rinascita delle zone terremotate e immediato stanziamento di almeno 27 miliardi per il 1967 nel bilancio del Ministero dei LL. PP.
  • Sviluppo e ammodernamento delle ferrovie e delle reti stradali.
  • Autonomia e libertà degli Enti locali e riforma regionale.»

[xi] La misura disciplinare era stata dottata in Comitato federale con 23 voti favorevoli, 9 contrari e 2 astenuti. Cfr. ACS, Ministero Interno, Quadriennio 1967-1970, fascicoli correnti, fasc.lo 12010/1, nota del Prefetto del 7 gennaio 1970.

[xii] Cfr. ACS, Ministero Interno, Quadriennio 1967-1970, fascicoli correnti, fasc.lo 12010/1, nota del Prefetto del 7 gennaio 1970.

[xiii] Per gli anni del dopoguerra, cfr. A. Cogliano, La transizione dal fascismo alla Costituente in Irpinia (1937-1946), Quaderni Irpini, Gesualdo 1988. Per gli anni relativi a ridosso del ’68, fonte di conoscenza è la mia esperienza personale di militante e segretario provinciale del Manifesto-Pdup fra fine anni ’70 e inizi anni ‘80.

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