Il ’68 in Irpinia e il caso san Ciro (3)

di ANNIBALE COGLIANO.

SAGGIO INTEGRALE

Fiorentino Sullo.

Discorso a sé va fatto per la Democrazia cristiana di Sullo, che ha una maggioranza schiacciante sul territorio, grazie al controllo pluridecennale delle leve della spesa pubblica e dell’occupazione, attraverso la cassa per il Mezzogiorno: infrastrutture viarie e sanitarie; autostrade[i]; servizi ospedalieri; elettrificazione; scuole e asili; il Consorzio idrico dell’Alto Calore (“la fabbrica del consenso” per eccellenza di Sullo[ii]), che dota di acquedotti tutti i comuni (in una provincia che pur alimentando con le sue ricchissime sorgenti la Puglia, parte della Campania e della Basilicata, non ha mai avuto dal dopo-Unità propri servizi); favori e posti nella pubblica amministrazione e nel nucleo industriale appena nato di Pianodardine. E’ una maggioranza fatta anche di una politica di asservimento del Partito socialista, che, se rivendica una propria autonomia, è immediatamente surrogato dai partiti del centro-destra. Il solo limite è interno, che poi sarà fattore chiave delle dimissioni di Sullo da ministro della Pubblica istruzione: la feroce lotta personale ingaggiata almeno da un decennio con l’ex delfino Ciriaco De Mita, che gli contende il potere. Sullo è stato eletto alle Camera nel maggio del 1968 con oltre 141.631 voti di preferenza, De Mita con 64.035[iii]; ma al congresso del 12 novembre 1967 (20.000 iscritti e 285 delegati) il potere interno aveva segnato altri rapporti di forza: la lista De Mita aveva conseguito il 45% rispetto al 55 di Sullo[iv]. Alla lotta interna senza esclusione di colpi, sul piano nazionale, invece, entrambi leader provinciali e nazionali di rilievo, gareggiano per presentarsi come chi occhieggia al Partito comunista e per l’apertura al nuovo che emerge nel Paese. Apertura che, nel caso del ’68, vede alla ribalta Sullo riformatore, del quale è opportuno tracciare un breve profilo biografico, in particolare del periodo della sua formazione[v], i cui tratti si conserveranno sino alla fine della sua tempestosa carriera politica. Del vecchio Partito popolare, alla caduta del fascismo, a differenza delle vecchie forze socialiste e comuniste non resta più nulla: quello che c’era è stato tutto assorbito dal fascismo. Di più: la formazione dello stesso nuovo gruppo dirigente è tutta interna alle vecchie forze del regime fascista. Sono quasi tutti ex studenti universitari, con trascorsi di duplice militanza, dirigenti ed iscritti ai GUF (Gioventù universitaria fascista) e dirigenti di Azione cattolica. E’ Sullo l’astro nascente che segna la rottura più significativa e che, oltre ad essere il perno del potere politico provinciale per un trentennio, assurge a figura di rilievo nazionale, per il peso culturale-politico che ha nel Partito e per i numerosi incarichi governativi, sia nei governi di centro-destra che in quelli di centro-sinistra. Nasce a Paternopoli nel 1921, da una modesta famiglia (suo padre è un insegnante elementare, già emigrato negli Stati Uniti come operaio, sua madre è casalinga) e trascorre la sua infanzia e prima adolescenza a Castelvetere. Studia al liceo Colletta di Avellino, dove la famiglia si è trasferita, distinguendosi fra i più brillanti allievi. Dirà di lui un suo esaminatore (il preside Olindo di Popolo, che negli anni ’50 approderà al Partito socialista) all’esame di maturità che era «un candidato al quale non si facevano domande, ma con il quale si poteva sostenere una conversazione alla pari»[vi]. Suo laboratorio formativo è l’Azione Cattolica, di cui diventa dirigente provinciale e regionale poco più che sedicenne, sino a fondare nel 1940 la Federazione Universitari Cattolici (FUCI). Giovanissimo, iscritto come tanti al GUF (gioventù universitaria fascista), si cimenta con Il valore politico e spirituale del Patto tripartitico sul «Corriere dell’Irpinia». Militare dal 1941, partecipa alla guerra come brillante ufficiale di complemento, distinguendosi nella battaglia di Gela (decorato con medaglia d’argento) e nella ritirata del suo reggimento dalla Sicilia, nel 1943. L’8 settembre lo coglie nel suo rientro in Avellino, durante una licenza premio; corteggiato da Guido Dorso, pensa anche di entrare nel Partito d’Azione, prima di scegliere la Democrazia cristiana, nella quale riesce a trascinare anche i giovani che si erano formati alla sua scuola. E’ l’inizio del suo impegno politico attivo e della sua folgorante carriera politica. Nel 1944 si laurea in Lettere e nel 1950 in Giurisprudenza, entrambe conseguite alla Federico II di Napoli. E’ del maggio 1944 la sua elezione a segretario provinciale della Democrazia cristiana, carica che lascerà (non nella sostanza, ma solo nella forma) nel 1946, quando è eletto deputato alla Costituente (a differenza della maggioranza del partito provinciale, ha dato nette indicazioni di voto per la Repubblica, attirandosi le reprimende di Alcide De Gasperi, che avrebbe voluto un rigido agnosticismo istituzionale). Durante il biennio della Costituente è segretario provvisorio della stessa e membro della prima Commissione per gli affari legislativi, dando il suo apporto al progetto di Costituzione e collaborando con il prestigioso gruppo dei professorini (Dossetti, La Pira, Fanfani, Lazzati). Meritano qui essere sottolineati alcuni principi guida dei suoi interventi, che, presi nel loro insieme, danno la cifra dell’ambivalenza, se non dell’ambiguità, del personaggio, tecnocrate con grandi venature di integralismo: a) condivide di Guido Dorso, di cui è in qualche modo allievo, la critica dello Stato liberale prefascista e la riproposizione della questione meridionale e delle sue classi dirigenti, ma sottolinea le responsabilità della sinistra nell’avvento del fascismo; b) nel Meridione del Paese, il fascismo è stato in realtà conformismo prima che dittatura; c) occorre lavorare ad nuova democrazia repubblicana, diversa da quella liberale classica (di stampo crociano), e costruire la cittadinanza non sui singoli cittadini, ma sui cittadini associati in formazioni politiche, sociali e culturali; d) sinistra e centro possono dividersi politicamente, ma non possono che ancorarsi a comuni principi che costituiranno l’ancoraggio nella diversità; e) i sindacati e i partiti vanno regolamentati in nome di un bene comune che lo Stato rappresenta (è S. Tommaso l’ispiratore); l’intervento dello Stato è fondamentale per le riforme sociali, per sanare lo squilibrio territoriale del Paese, per promuovere lo sviluppo economico, per garantire e tutelare il lavoro salariato[vii].

Come articolare tali convinzioni nella realtà irpina alla luce delle Idee ricostruttive della Democrazia cristiana, documento programmatico nazionale vergato da Alcide De Gasperi, il 26 luglio 1943, all’indomani della caduta del fascismo? La lettura di Sullo (crediamo molto più vicina alla realtà di quella del Partito comunista, che è alla ricerca di un proletariato che non esiste, se non in frammenti territoriali) è che la società civile irpina sia arretrata economicamente e culturalmente, e che, una volta esclusa la lotta di classe all’orizzonte, sia da promuovere e far avanzare con l’assistenza dello Stato centrale attraverso figure di mediatori e animatori politici locali, capaci, da un lato, di mobilitazione politica e sociale, e, dall’altro, di essere protagonisti dispensatori della spesa pubblica e dell’intervento protettivo dello Stato. Ciò, nel concreto della realtà territoriale irpina, significa non sterile appello ad una borghesia umanistica rinnovatrice (Dorso) che non c’è, ma costruzione di un ceto contadino proprietario[viii] e autonomo da inserire nella dialettica con lo Stato centrale. E’ la vecchia idea proprietaria della contadinizzazione fascista nella veste ideale aggiornata della persona che si realizza (Rerum novarum di Leone XIII) e nella veste pratica della Coltivatori diretti (fittavoli e proprietari)[ix], la più grande creatura di promozione sociale di Sullo, cui assocerà una serie di enti e servizi (consorzi agrari, consorzi di bonifica, acquedotti, strade, elettrificazione, banche, ecc.), e che sarà la sua prima base di consenso per la scalata nazionale. Quanto ai rapporti con la sinistra, occorre andare oltre gli steccati ideologici e trovare nel concreto dei programmi politici punti di convergenza. Ma non è la sinistra la sua preoccupazione, essa può essere forza di complemento contro la destra. E’ il vecchio ceto notabilare liberale il suo vero avversario, come lo è della nuova democrazia moderata, la sola possibile. Sottrarre consensi ai liberali di Rubilli e Amatucci è un tutt’uno con la sottrazione delle loro basi di massa: i contadini, che sono la maggioranza del tessuto sociale irpino. Certo, la società civile non è costituita da soli contadini: vi è un padronato agrario e industriale, vi è un lavoro dipendente operaio, vi è una massa di senzatetto e lavoro, un’inflazione galoppante, una penuria di beni elevata che i rifornimenti americani leniscono appena; vi sono i reduci rumorosi e numerosi che fanno pressione corporativa; vi sono servizi sociali essenziali da attivare nella perdurante economia di guerra. I contadini rappresentano però l’architrave del blocco sociale e di potere alla deriva e la basa di massa degli intellettuali paglietta delle forze liberali. In modo spregiudicato, la nuova DC butterà alle ortiche il moralismo e l’impossibile refrain dell’epurazione del CLN, su cui ancora Dorso è attardato, e costruisce un nuovo CLN per sottrarre egemonia alle vecchie forze[x]. E lo fa non solo con l’organizzazione diretta dei contadini e con i nuovi servizi che offre loro, ma cooptando selettivamente proprio i leader delle vecchie forze (per lo più personale fascista), cui offre in gestione: la spesa pubblica dello Stato centrale, l’Opera pontificia per l’assistenza, l’UNRR (Nazioni Unite), l’ENDSI (governo, Chiesa e Croce Rossa). Quanto alla massa dei senza lavoro, già nel 1945, massiccio è l’intervento dello Stato centrale con i lavori pubblici, gestiti a valle dai nuovi quadri democristiani, che dirigono il neo Comitato provinciale per la ricostruzione[xi]. Intanto, organi collaterali quali le ACLI (Associazione cristiana lavoratori italiani), il movimento femminile erede della vecchia organizzazione fascista, la corrente sindacale cristiana interna alla Camera del lavoro, fanno il resto. Alla Prefettura e alla Questura provvede la direzione dello Stato centrale, con quadri direttivi nominati o confermati attraverso il partito.

Negli anni successivi, Sullo è deputato ininterrotto per più legislature, sottosegretario nei vari governi di centro-destra degli anni ’50, poi ministro dei Trasporti nel governo Tambroni nel 1960 (da cui si dimette perché questi ha avuto la fiducia con l’apporto fascista del Movimento sociale), dei Lavori pubblici nei governi Fanfani e Leone fra il 1962 e il 1963. La quarantena termina con le elezioni del 1968, quando è nominato capogruppo democristiano alla Camera, con il suo nome che circola (soprattutto fra i socialisti) come possibile Presidente del Consiglio, per giungere poi alla nomina a ministro della Pubblica istruzione, della cui azione ci occupiamo specificamente in questo saggio.

Se come ministro del Lavori pubblici è stato sconfessato dal suo partito, rovinosamente caduto e rimosso da ogni incarico sia di partito che di governo, con la riforma della Pubblica istruzione cade sì ugualmente, ma l’impianto che potremmo definire illuministico e la maggior parte dei contenuti innovativi restano in piedi. E ciò perché vi è una profonda differenza di clima politico e di blocco sociale di riferimento. La riforma urbanistica proposta agli inizi del 1963, quando si va ad un centrosinistra organico, abortisce sia perché farebbe perdere voti alle imminenti consultazioni politiche dell’aprile, sia e soprattutto perché mette in discussione interessi corposi diffusi tanto della piccola e media proprietà, quanto della rendita immobiliare e della speculazione edilizia dei grandi costruttori. Sullo, solitamente nel lontano passato così attento ai rapporti di forza, al nesso fine-mezzi dell’azione politica, in questo caso fa prevalere la sua vocazione di tecnocrate, peccando di grande ingenuità. Con il decreto-legge che vara la riforma della scuola, invece, il suo blocco oggettivo di riferimento è l’ampio movimento di massa del ’68 da un lato (da sottolineare che i primi germi della contestazione nascono alla Cattolica di Milano e alla facoltà di Scienze sociali di Trento – facoltà voluta dalla Democrazia cristiana e dalla Cisl, sindacato di ispirazione cattolica, per leggere e fare i conti con il conflitto sociale della società che si modernizza –, fra la fine del 1967 e gli inizi del 1968). Movimento di massa cui fa da sfondo l’incertezza politica o quasi paralisi del suo partito al governo, che, in una sorta di rivoluzione passiva, per dirla con Gramsci, può tutt’al più far cadere il suo ideatore[xii], ma non può liquidarne i contenuti proposti, se non vuole andare ad uno scontro frontale con la parte di società più progressiva nel Paese.

La riforma interviene sia sulla scuola secondaria che sull’università, ma è sulla prima che è dirompente. Cardine della storica scuola gentiliana è l’esame di stato all’ultimo anno delle superiori, volto ad attestare la maturità e premessa indispensabile dell’accesso all’università. L’esame, molto duro, perché verte sui programmi dell’ultimo triennio, è molto selettivo, di fatto uno strumento di selezione di classe. Di più: l’accesso all’università per tutte le facoltà è consentito solo a coloro che hanno fatto gli studi classici; la formazione classica è l’unica via per la riproduzione del potere in una società governata da una élite. Il decreto-legge varato da Sullo il 15 febbraio 1969 ridimensiona come non mai l’esame, portandolo ai programmi dell’ultimo anno e riducendo le prove scritte a due discipline (una fissa di italiano) scelte dal Ministero, e le prove orali ugualmente a due discipline su quattro, pure scelte dal Ministero da scegliersi in una rosa di quattro pure fissate dal Ministero, una delle quali orale, scelta dal candidato. Fatto è che gli anni del boom economico 1962-1967 vedono aumentare gli studenti delle scuole superiori, che passano da 273.000 a 457.288[xiii]. L’esame facilitato consente l’accesso di massa all’università a loro e a quelli che, nel 1968-69, sono all’ultimo anno delle superiori (gli iscritti all’università aumentano nel 1969 del 60%): è la grande svolta che s’incrocia con la contestazione del ‘68. Inoltre, l’accesso all’università non è più riservato ai maturati del solo liceo classico, ma è liberalizzato a tutti coloro che hanno frequentato una scuola secondaria superiore di durata quinquennale – di qui l’istituzione di corsi integrativi di un anno per le scuole secondarie quadriennali – e hanno conseguito un diploma di maturità. Il nuovo principio che si afferma è l’equivalenza degli indirizzi di istruzione della scuola secondaria. Esame facile? Università di massa? Dequalificazione dell’istruzione e del sistema formativo? Sono le critiche e le accuse mosse negli anni a venire. Obiezione di fondo, figlia della cultura del movimento del ’68, che Sullo recepisce in parte, imponendo la svolta al suo partito recalcitrante: l’istruzione secondaria va considerata come un mezzo di promozione culturale di tutti e un mezzo per formare il cittadino, non un tramite per riprodurre gerarchie sociali e di potere; la formazione generale della persona ha un primato sulla formazione data da ogni singola disciplina: spetterà all’università il compito della specializzazione professionale. Di più: la riforma si accompagna con un’altra grande novità politica: il riconoscimento formale (con una circolare ministeriale ad hoc) del diritto all’assemblea all’interno della scuola.

Il ’68 in provincia – Per concludere questo saggio: se in città vi è un tentativo di saldatura, se pure embrionale ed effimero, fra studenti e altre figure sociali, con cui s’intrecciano alcune azioni di lotta sul territorio, e se vi è un movimento culturale che non si esaurisce in breve tempo – mai nella sua storia la città ha espresso tensione democratica e passione civile simile –, in provincia le cose vanno diversamente. Manifestazioni studentesche sporadiche, riflesso di quelle cittadine e nazionali, punteggeranno la prima metà del 1969, ma è solo nel 1970 che si avranno movimenti di protesta e occupazioni numerose di scuole (talvolta su iniziativa anche di gruppi extraparlamentari, come Lotta continua), oltre che nel capoluogo, in Grottaminarda, Calitri, Ariano, Bagnoli Irpino, Montella, Frigento, Bisaccia, Cervinara, S. Angelo dei Lombardi (con occupazione della scuola per una decina di giorni agli inizi dell’anno scolastico 1969-1970[xiv]) per obiettivi meno ideologici e politici: trasporto e libri gratuiti, aule, sicurezza degli edifici, più aule, riscaldamento, certezza d’iscrizione all’albo professionale e di rinvio servizio militare per le ultime classi aggiunte agli istituti d’arte o per geometri, riconoscimento effettivo di diploma professionale per assunzione nel mondo del lavoro, ecc.[xv] Il ’68 culturale è alle spalle, ma ciò che resta – e non è poco – è, per dirla con una celebre espressione veicolata dal titolo di un saggio di don Lorenzo Milani: “l’obbedienza non è più una virtù”.

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[i] Per la prima volta, negli anni ’60, l’Irpinia ha collegamenti adeguati con il resto della regione e della rete nazionale (Avellino-Salerno Bari-Napoli-Roma).

[ii] Da sottolineare che le varie fabbriche del consenso di Sullo (tante, oltre le infrastrutture, nel corso degli anni: l’urbanistica, le norme sulla difesa antisismica, solo per ricordarne le più significative, per arrivare alla scuola secondaria e all’università) non sono mai di carattere localistico e corporativo: ogni richiesta d’intervento si fa carico della generalità dei bisogni e degli interessi collettivi per farne contenuti di diritto generale.

[iii] Cfr. ACS, Ministero. Interno, Quadriennio 1967-1970, b. 525, fasc.lo 17222.

[iv] Cfr. ivi, b. 414, fasc.lo 16995, e fasc.lo 12010/1 dell’ex pacco 94.

[v] Cfr. A. Cogliano, La transizione dal fascismo alla Costituente…, cit., in particolare capp. II e V.

Per un profilo biografico più ampio e relativo al periodo successivo alla nascita della Repubblica, cfr. P. Totaro, Da Sullo a De Mita: la costruzione del potere democristiano in Irpinia, Liguori, Napoli 2002; Idem, Modernizzazione e potere locale: l’azione politica di Fiorentino Sullo in Irpinia 1943-1958, Cliopress, Napoli 2012; G. Rotondi, Viva Sullo: ascesa e declino, trionfi e tonfi di un leader che la DC non capì, International printing, 2000; N. Lanzetta, Fiorentino Sullo: una biografia politica, Elio Sellino editore, Avellino 2010; per le innovative idee in ambito urbanistico, espressione della cultura più avanzata delle democrazie occidentali in tale ambito, I. Blecic, Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo. Sguardi e orizzonti sulla proposta di riforma di Fiorentino Sullo, Franco Angeli, Milano 2017; G. Grasso, F. Sullo: un protagonista irpino dell’Italia repubblicana, in “Nuovo Meridionalismo”, Avellino, marzo-aprile 2002; Idem, F. Sullo dal Liceo al ministero della Pubblica istruzione, Edizione La ginestra, Avellino 2006.

[vi] Lanzetta, Fiorentino Sullo…, cit., p. 26.

[vii] Cfr. «Corriere dell’Irpinia», 5 maggio 1945, articolo di Sullo in risposta polemica al periodico regionale comunista «La Voce»; A. Aurigemma, Discorso…, cit.; F. Sullo, Noi e i comunisti, ivi, 3/7/1945; e, in particolare, Idem, Ricordo di Guido Dorso, in “Vicum”, Avellino, marzo-giugno 1987. Alla piena teorizzazione del ruolo dello Stato, contro il liberismo centrista, il gruppo Dossetti giungerà con il terzo congresso democristiano di Venezia nel giugno 1949. Quando Dossetti si ritira nel 1951 per diventare frate, ritenendo che non vi siano possibilità di realizzazione di tale linea a causa dell’ostilità della Chiesa, molti, fra cui Sullo, passeranno alla corrente di Fanfani, Iniziativa democratica. Ulteriore passaggio politico di Sullo nel 1956: adesione alla Sinistra di base (di cui il giovane De Mita è leader in provincia), nata prima in alcune città del Nord in nome del rinnovamento della classe dirigente e della fine dello Stato post-unitario, sordo alle esigenze popolari, e poi pienamente affermatisi a livello nazionale dopo la sconfitta della legge maggioritaria, la cosiddetta legge truffa (stigma del dirigente comunista Giancarlo Pajetta). E’ un passaggio che presenta una consonanza ancora più accentuato con la linea riformatrice già condivisa nel gruppo Dossetti e articolata in “Cronache sociali”: realizzazione di uno stato sociale secondo i principi di giustizia del Vangelo, ma autonomia dalla Chiesa; riconoscimento pieno dei diritti dei lavoratori delle campagne e delle fabbriche; estensione della riforma agraria; giustizia tributaria; lotta ai monopoli e intervento dello Stato nel settore energetico; autonomia dell’Istituto di Ricostruzione Industriale e delle Partecipazioni statali dalla Confindustria, nel principio di autonomia della politica dal condizionamento economico; alleanza e/o mediazione con il Partito socialista, che bisogna staccare da ogni neo-frontismo, per realizzare riforme condivise.

[viii] Cfr. F. Sullo, Democrazia nostra, in «Domani irpino», 19/6/1945, Risposta a emme, ivi, 30/8/1945.

[ix] Già al congresso democristiano del settembre 1945, a pochi mesi dalle sua costituzione, la Coldiretti compare come grande organizzazione di massa.

[x] Al 20 novembre del 1944, a pochi giorni dal congresso del Partito democratico del lavoro di Amatucci, il prefetto annota la costituzione di 53 sezioni in altrettanti comuni, che al 20 novembre salgono a 62: tutte con capi clientela locali fedeli al vecchio notabile. Quanto al Partito liberale (Rubilli), “che ha il maggior numero di aderenti”, il prefetto annota nella relazione mensile del settembre 1944 che esso, “organizzato nel capoluogo e nella periferia, non svolge programmi politici, ma usa gli antichi sistemi di proselitismo, poggiati unicamente su piccoli favori e assistenza professionale. Cfr. rispettivamente ACS, Ministero Interno, Gabinetto 1944-46, b. 48, fasc.lo 3803 e Prefettura, relazione del 20/9/1944.

[xi] La DC lascia alla Destra classica e ai liberali solo la rappresentanza del padronato industriale e dei commercianti (troppo corporative e spesso arroganti sono le loro richieste, tanto da non riuscire a mediare), ma senza mai però giungere alla rottura.

[xii] Defenestrazione che ha anche cause locali: il segretario nazionale della Democrazia cristiana, Flaminio Piccoli, rigetta la richiesta di Sullo che vorrebbe il rinvio del congresso provinciale irpino, paventando la sua messa in minoranza da De Mita (cosa che avverrà), dopo un quarto di secolo di un suo assoluto predominio. Sullo si dimette ancora una volta (si era dimesso in altri governi, anche prima della sua rigettata riforma urbanistica, per non aderire a politiche centriste che guardavano o si servivano del supporto delle destre); stavolta però probabilmente subendo il calcolo dei vertici nazionali, che giocano sul suo carattere irascibile.

Le dimissioni sono del 1° aprile 1969, e paradossalmente, il 10 dello stesso mese, il Consiglio dei ministri approva il suo Schema di riforma delle strutture universitarie, complementare al decreto-legge del 15 febbraio per la riforma dell’esame di Stato delle superiori. Lo schema – approvato ma non immediatamente operativo – è riassumibile nei termini seguenti: libertà massima d’insegnamento, piani di studi individualizzati e scelti dall’iscritto per ogni corso di laurea, fine della mono-cattedra, istituzione di dipartimenti e consigli di Ateneo (ai Consigli di facoltà è istituzionalizzata anche la partecipazione di rappresentanti degli studenti), ruolo unico dei docenti e loro incompatibilità con altre cariche pubbliche, e facilitazioni per il diritto allo studio attraverso finanziamenti per il dottorato e la ricerca.

[xiii] Cfr. Annuario statistico dell’istruzione italiana, 1963-1964, e 1969, Roma 1965 e 1969, p. 3.

[xiv] Cfr. le testimonianze di Rodolfo Salzarulo e Giuseppe Iuliano, in Il ’68 degli irpini…, cit., pp. 74-88.

[xv] Ivi, note prefettizie dell’ottobre e novembre 1969.

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