di UGO MORELLI.
A lungo il principale patrimonio disponibile di chi non nasceva con la camicia sono state le competenze acquisite, anche con sacrifici e investimenti in formazione. Non è più così. Quel patrimonio riceve poca o nulla considerazione, oggi, nella maggior parte dei casi. Quello che soprattutto una giovane o un giovane sanno e sanno fare, a parte certi limitati settori, non conta quasi nulla. Sia per la sovrabbondanza dell’offerta sulla domanda di lavoro, ma particolarmente per una cultura che si è affermata, che riguarda l’indifferenza verso il valore del lavoro e le aspettative e la dignità di chi lo offre. Se c’è un indicatore della crisi di civiltà che stiamo vivendo, probabilmente è questo: la caduta verticale della considerazione e del riconoscimento del valore del lavoro. Non stiamo contestando, qui, l’evoluzione e l’innovazione tecnologica, né l’esigenza di coevolvere con il cambiamento sociale ed economico in corso. Una volta chiarito che le trasformazioni profonde indotte dall’evoluzione tecnologica sono la nuova realtà in cui viviamo e di cui dobbiamo appropriarci, anche criticandone e selezionandone le componenti migliori, rimane da analizzare la ragione per cui si è prodotta una così profonda asimmetria tra chi offre lavoro e, una volta avremmo detto, chi lo domanda. Sì, perché più che di fronte a una domanda di lavoro sembra di avere a che fare con un atteggiamento generale simile alle scene del Satyricon di Petronio Arbitro: patrizi romani talmente sazi di cibo e annoiati che piluccano prelibatezze e acini di uva, controvoglia e possibilmente evitando di mangiare. Il lavoro è considerato soprattutto un costo da evitare; da scaricare sui contributi e gli interventi pubblici; da usare e gettare appena possibile. Una prova è la scomparsa di fatto di azioni formative degne di tale nome, sostituite da spot di fast and enjoy training; un’altra prova è la fine degli investimenti in azioni di sviluppo organizzativo per il miglioramento delle prestazioni e della qualità della vita di lavoro, direttamente collegati alla produttività e all’innovazione. Per avere una verifica di questa tendenza che prevediamo particolarmente costosa per la società e per l’economia, basta considerare cosa è successo all’alta formazione e alla formazione aziendale, sia nelle scelte pubbliche che in quelle delle organizzazioni imprenditoriali, sia nelle singole aziende che nelle associazioni. Scelte di particolare valore fatte negli anni precedenti sono state del tutto destabilizzate, ridotte a corsifici o addirittura eliminate. La scena complessiva somiglia molto da vicino a quanto accade nell’ultimo film sulla disgregazione del lavoro e del suo significato, di Ken Loach, Sorry we missed you, Peccato che non c’era nessuno. Il titolo è la scritta sul foglietto lasciato sulla porta di casa di una famiglia da un corriere che avrebbe dovuto consegnare un pacco, e che sarà pagato solo per il numero di consegne effettuate. Un mondo di fungibili esecutori o sportellisti
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Con i tempi che corrono, e una struttura attentiva ridotta a un secondo e mezzo per messaggio, propongo una riflessione impegnativa per chi scrive e per chi la riceve, tanto da richiedere un adeguato tempo di riflessione e autocritica.
Prendendo la questione da più lati, di approfondimenti necessari me ne vengono in mente tre:
1: Da molti anni abbiamo avvertito l’esigenza che la “psicologia del profondo”, ambito dove sto più a mio agio in termini esistenziali ed epistemologici, debba necessariamente fare due passi indietro per farne, forse, uno avanti. Come per la filosofia, anche per la psicologia, non si può continuare a basare letture dei fenomeni, interpretazioni, analisi e applicazioni, su un paradigma che non tenga conto di quanto la ricerca sperimentale ha appurato e sta appurando su cosa significa essere umani. Un esempio per tutto: lo studio, le analisi e le applicazioni sul tema delle emozioni. In psicologia e soprattutto tra psicologia e sociologia, fioccano materiali e scritti evanescenti e parolai, approssimativi e basati su fonti datate e spesso di terz’ordine, sul tema. Abbiamo invece un sistema teorico-sperimentale, certo provvisorio, ma rilevante, che viene dalla neurobiologia e dalle neuroscienze, che ridefinisce profondamente il paradigma di base riguardo al tema. Assumere le neuroscienze cognitive come base vuol dire questo: porre finalmente al centro il corpo come condizione necessaria, seppur non sufficiente, per comprendere chi siamo e come ci relazioniamo. Questo è stato ed è, forse, il limite principale degli approcci classici allo studio del comportamento umano: non aver considerato che corpo e intersoggettività ci precedono, non solo, ma siamo preceduti da una filogenesi che ha caratterizzato e caratterizza la nostra storia. Con essa si combinano un’ontogenesi e un’epigenesi che destituiscono di centralità categorie come razionalità olimpica, intenzionalità, riconducendo il nostro comportamento a processi caratterizzati dall’incertezza come proprietà costitutiva dell’esperienza. Ciò vuol dire che il soggetto intenzionale delle forme organizzative consolidate e stabili, oltre alla domanda se sia mai esistito, pone l’esigenza di una più profonda azione clinica per vedere e agire nel presente. Con saggezza, recentemente Jean-Luc Godard, commentando tre suoi film recenti e, in particolare Adieu au Langage, dice che “non siamo ancora usciti dal novecento perché continuiamo ad essere quelli che non riescono a vedere”.
- Due passi indietro vuol dire, allora, portare avanti un progetto come quello straordinario e purtroppo sospeso dalla morte, che ha compiuto Mauro Mancia a proposito dell’inconscio non rimosso, evidenziando come una conoscenza neurofisiologica inedita possa cambiare epistemologia e prassi dell’agire nella relazione terapeutica. L’incontro tra neuroscienze e psicoanalisi e, soprattutto psicosocioanalisi, dovrebbe assumere le caratteristiche non di una sommatoria disciplinare ma di un orientamento neodisciplinare. Grazie a quell’orientamento sarà forse possibile riconoscere che i margini di cambiamento relazionale e comportamentale – uno degli obiettivi dello sviluppo organizzativo, per creare una nuova civiltà del lavoro, che dovrà giungere a considerare opportunamente l’azione organizzativa come espressione delle relazioni e dell’intersoggettività più che della sola soggettività – non sono illimitati, come illimitate non sono le grammatiche e le possibilità dell’umana approssimazione. Ciò potrà essere utile a innovare l’organizzazione del lavoro e l’approccio clinico liberandolo da un certo finalismo teleologico basato sul “di più è meglio” con cui spesso è stato tentato di esprimersi.
- Ritengo necessario esercitare un approfondimento che ponga al centro la mente incarnata, l’intersoggettività, e le forme vitali, combinando i contributi delle neuroscienze e delle scienze cognitive con la psicologia del profondo, con tutta la cautela della costruzione di un inedito paradigma. Penso al lavoro e alle innovazioni emergenti nell’ibridazione di codici tra neuroscienze affettive e psicoanalisi.
Mentre si occupa delle connessioni tra mondo interno e mondo esterno, l’approccio clinico oggi, forse non dovrebbe esimersi dal considerare e domandarsi come intervenire in quella che Lev Vigotskij ha chiamato la “zona di sviluppo prossimale”. Accadono da quelle parti cose che stanno alla base delle nostre tristezze e delle nostre malinconie e riguardano la vivibilità di noi umani sul pianeta Terra. Nei luoghi di lavoro si consumano le principali cause di quella deriva che ci fa vivere tutti sull’orlo del baratro. Chi cambierà la produzione dei beni necessari in forma sostenibile, giungendo a usare le risorse in modi e forme che ne garantiscano la riproducibilità? Le ansie e le resistenze connesse a questo problema che si pone come più grande di noi, esigono un’estensione dei nostri mondi interni, delle aree della nostra coscienza e di un salto emancipativo comune, a cui l’approccio clinico dovrebbe disporsi per fornire il contributo che è nelle sue potenzialità.
Penso che il tutto meriterebbe un approfondimento, almeno tra noi che siamo meno di quattro gatti a occuparci di queste fondamentali cose.
Ritengo che si debba, come T. S. Eliot nei Four Quartets, andare avanti, almeno in parte, per tornare al punto da dove eravamo partiti:
“Non smetteremo di esplorare
E alla fine di tutto il nostro andare
Ritorneremo al punto di partenza
Per conoscerlo per la prima volta”.