1. Di cameriere e altri fantasmi.

DI CARLA PERUGINI.

Tra le figure scomparse in questa nostra epoca contemporanea ce n’è una che era invece comunissima fino a qualche decennio fa: la cameriera. Ridimensionata a colf, domestica, donna di servizio o donna tout court, come tante altre denominazioni del nostro linguaggio politically correct è uscita dal vocabolario corrente, anche se il suo utilizzo involontario da parte mia o di mie coetanee denuncia la nostra età quasi come le trasformazioni dei corpi.

DSCN8193

La cameriera, dunque, come rivela il suo nobile etimo, lavorava “in camera”, che, a differenza di una qualsiasi stanza, era quella della “padrona”, avendo accesso così ai luoghi più intimi della casa e a una confidenza con i suoi abitanti che andava ben al di là di un semplice rapporto di lavoro. Non a caso, infatti, la cameriera di casa veniva anelata dalle giovani spose che, a volte, la ricevevano in eredità dalla mamma o dalla suocera, che se ne privavano con dolore, giacché la sapienza e le conoscenze di una vecchia cameriera erano preziose quanto il corredo (anch’esso preparato da anni) o i ricettari di famiglia.

Straordinaria era la sua importanza nel crescere i bambini: i nuovi nati riconoscevano, fra le sue robuste braccia, lo stesso affetto che ne avevano ricevuto il padre o la madre, o anche zie e cugini vissuti nella stessa casa. D’altronde in quelle famiglie non mancavano le donne: spesso si viveva sotto lo stesso tetto fino a quando le nuove coppie non potevano permettersi un appartamento proprio, e, anche allora, un aiuto saltuario la cameriera non lo negava a nessuno. Erano relazioni subordinate oggi inconcepibili a livello sindacale o assicurativo, ma incomparabili a livello umano.

Ricordo Emilia, che rimase a lavorare da noi quando dalla grande casa di via De Sanctis la nonna e zia Sisina si trasferirono poco lontano: proveniva da Valle Ponticelli, luogo per me bambina del tutto esotico, dove mi lasciavano a volte per un po’ insieme al mio fratellino i nostri genitori medici. Lei e suo marito, detto “Minucciomio” da tutti noi, giacché Emilia non si limitava al nome ma l’accompagnava sempre col possessivo, abitavano in una casetta di pietra a cui si accedeva da una scala esterna che portava a quello che per noi bambini era un antro delle meraviglie: due stanzette l’una nell’altra, la prima cucina e stanza da pranzo, la seconda dominata dal lettone (c’era un gabinetto? nessun ricordo a proposito) dove dormivamo tutti insieme, evidentemente alieni a qualsiasi sospetto di azione men che rispettosa. Nella prima stanza faceva bella mostra di sé “’a radia”, un apparecchio radio grande come un mobile, vero oggetto d’arredamento, di legno scuro, con due ante apribili, tutte luci e specchietti, in cui erano conservate mille bomboniere mai disfatte, con il loro tulle rosa, azzurro o bianco, e pure una meravigliosa scatolina di carillon, con la ballerina che danzava su una sola punta.

DSCN7176

Emilia e suo marito erano bassi, tarchiato lui, grassa lei (ma era considerato un complimento: si diceva bella grassa), con un tiratissimo “tuppo” con la scriminatura centrale, due scocche rosse sulle guance sorridenti, un “mantesino” sempre attaccato con le spille da balia e due lunghe fettucce sull’enorme sedere, che mio fratello si divertiva a sciogliere, provocandone finte arrabbiature.

Avevano una figlia, Lidia (come mia madre, che però lo scriveva con la y), che, non so per quali circostanze si accasò al nord, dove molti anni dopo richiamò la madre rimasta vedova. Un giorno ci arrivò la sua partecipazione di morte: nella foto c’era la mia Emilia di sempre, sorridente, rossa e bruna, con l’immancabile tuppo, i coralli alle orecchie, bella grassa. Uguale nel tempo e nei luoghi che aveva attraversato, una lunga scia di affetti a ricordarla.

Nelle case “perbene” come la mia, oltre alla cameriera, donna di fiducia a cui affidare compiti di vice-padrona, bazzicavano spesso altre donne, che la nonna, col suo atteggiamento regale e classista, chiamava indistintamente “serve”, a cui  destinare “servizi” faticosi e umili, specialmente se pensiamo che erano quasi assenti gli elettrodomestici e onnipresenti i numerosi parenti. Ricordo una Rina sporca e trasandata e altre ormai prive di nome.

DSCN9824

Tra le cameriere delle zie, Anna ha accompagnato fino alla fine una delle più vecchie sorelle di mio padre, domendo nella sua camera come da tradizione; Nella, Rosa, Anna, Maria ‘a Toppolara, hanno abitato la mia infanzia e la mia giovinezza e quella dei miei cugini. Le ritrovo a volte nelle foto di famiglia: in bianco e nero, dai bordi seghettati, fra torme di nipoti in braccio a giovani discendenti dei patriarchi, queste foto le vedono sempre un po’ di lato, ritrose e rabbuiate, come riconoscendo che di quella casa di “signori”, pur essendo indispensabili, esse non facevano parte fino in fondo.

Ora che quelle figure sfocate sono tutte sparite per sempre, le ricordo giovani come dovevano essere, anche se a me parevano di età indefinita. Scomparse come la loro categoria, come quasi tutto quello che è stato di generazioni ed è ormai cambiato per sempre.

 

LE FOTO SONO DI UGO SANTINELLI

 

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...