Una notte senza alba.

Di FRANCO FESTA.

INTERVENTO NEL DIBATTITO SULLA BORGHESIA SUL QUOTIDIANO DEL SUD.

febbraio 2020

 

Il tema di cui discutiamo è stato al centro di tutti i romanzi che ho scritto in questi anni. Ed è per questo che ho avuto difficoltà ad accettare di intervenire in questo dibattito, avendo provato con altri mezzi letterari, sa il lettore con che risultati,  ad approfondire le questioni così sapientemente delineate nelle riflessioni di chi mi ha proceduto.

Nel corso della sua storia recente, dal dopoguerra ad oggi, la borghesia cittadina ha costruito una immagine falsa  di sé, come portatrice di una missione di sviluppo e di rinascita del capoluogo. Una manovra che è andata avanti  fino a che le condizioni politiche ed economiche glielo hanno consentito, fino a che la crisi devastante, la fine di una politica di spesa pubblica folle e senza limiti, non ha lasciato spazio alla verità, ovvero al fallimento di quel disegno e all’ agonia totale, all’ emarginazione cupa in cui oggi Avellino vive. E’ una operazione di mistificazione che va avanti almeno da 70 anni, che si è nutrita ora di operazioni di nostalgia ( i mitici anni ‘50 e ‘60 mai esistiti, in cui la città si è espansa disordinatamente, a macchia d’olio, sostenuta da un piano di fabbricazione eternamente prorogato che tutto consentiva) ora di un uso del potere che ha condizionato ogni angolo della vita degli avellinesi, dalla culla alla tomba, come sostiene Anzalone. L’acme di questo processo è stato il terremoto, che ha colpito con decine di morti non tutta la città, ma solo la sua parte più povera ed emarginata, il suo centro storico fatiscente, e che invece è stato poi utilizzato dal resto della città per una ricostruzione al di là dello scandalo, per una appropriazione vorace e smodata dei miliardi arrivati a palate, spesso con la complicità della criminalità camorristica.

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Il risultato è sotto gli occhi di tutti: opere pubbliche colossali e inutili, un tessuto urbano devastato, un centro ricostruito annullando ogni traccia del passato, sventrando ogni angolo, lasciando, alla fine, ancora buchi vergognosi, che sarebbero la dannazione in ogni angolo della terra e che qui non sono invece degni dell’attenzione di nessuno. E non parlo solo di un livello amministrativo indecoroso nel corso degli anni-le brevi parentesi di Nacchettino Aurigemma all’inizio degli anni ‘70 e di Tonino Di Nunno più recentemente non bastano, anzi sono diventati una pietra di paragone che alla fine è stata chiusa in una teca, circondata dalla nostalgia, quindi di fatto annullata-.  Parlo di qualcosa di più profondo. Di una vera e propria malattia, di un male collettivo, sociale e civile,  che ha corroso la città e non ha risparmiato nessuno. Certo, le responsabilità principali sono della borghesia degli affari, di quella che intorno all’edilizia ha fatto la propria fortuna, dell’apparato tecnico, professionale, burocratico, commerciale, che ha partecipato alla grande abbuffata e che, finita la pacchia, si è chiusa nei propri fortilizi, nelle proprie ville sulle colline, nelle proprie residenze al mare, a ritrovarsi in allegria, a  seguire i figlioli e i loro master costosi, a pensare insomma a se stessa, immemore della città laggiù nella valle, spremuta fino all’ultima goccia e ora considerata estranea, fastidiosa, un paesone senza senso.

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Ma gli altri? Gli altri, non hanno simili responsabilità? E la piccola borghesia parassitaria, tutta dedita, sia negli anni del dominio manciniano e demitiano che dopo, a mettersi in fila con il cappello in mano per un posto di bidello, per un corso per infermiere, per un concorso pubblico, ma anche per una sezione migliore  a scuola, per un biglietto al teatro o allo stadio, la piccola rancorosa borghesia non ha nulla da rimproverarsi? E il sottoproletariato dei quartieri popolari, allora come oggi base di massa elettorale delle peggiori mezze figure della  politica, sempre pronto a dire sì ad ogni ordine dall’alto, può vantare presunzioni di innocenza? E potremmo continuare a lungo, non dimenticando nessuno, neppure la piccola borghesia intellettuale, che si è chiusa nel proprio sdegno accigliato, nei propri altezzosi cenacoli o nei propri locali alternativi, a rimarcare distanze, a sottolineare errori-naturalmente solo degli altri-, di fatto disertando un necessario impegno civile rispetto alla propria città. Il risultato è che ogni disegno culturale di qualità, tranne rari, lodevoli casi di privati, è inesistente, e la moltitudine di scatole vuote che dovrebbero servire allo scopo sono inutilizzate, monumenti di una spesa pubblica regionale ed europea scriteriata e ridicola.

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In sintesi nessuno si  salva, questa è l’amara, sconsolante verità, e nessuno ha titolo per proporre via di uscita. Mi rendo conto della sommarietà dell’analisi e del giudizio, so bene le ammirevoli e diffuse eccezioni. Ma esse non mutano il quadro complessivo di una città che non ha più un ruolo e non lo cerca, di una borghesia vile ed egoista e di una complicità e di una indifferenza generale al destino comune, così diffusa in tutte le classi e i ceti da sembrare invincibile. E non vi è neppure la via di uscita dell’appello alle giovani generazioni a prendere in mano il destino del loro luogo, a lottare per cambiarlo, per riconquistare un diritto alla cittadinanza intessuto di solidarietà e di condivisione, per coniugare un nuovo meridionalismo. Quali giovani? I giovani o non ci sono più o conducono vita grama e difficile per sopravvivere, dunque sono fuori gioco.

In conclusione è notte fonda sulla città e non c’è alba all’orizzonte. La morte di Tonino Petrozziello, il nostro amatissimo libraio, è quasi il suggello a questo stato di cose.

Per fortuna una favola si spande dappertutto : in ogni angolo reale o virtuale, nei social, nei siti, sui giornali, riecheggia il racconto di un futuro meraviglioso che i politici che governano la città, la provincia e la regione, ogni giorno ci propinano, con i loro sorrisi smaglianti, con la loro ebbrezza del potere, con la loro ignoranza abissale. E non bastano, a  rompere il velo, a svelare l’imbroglio, il pigolio di una opposizione svanita e inesistente, di una sinistra fuori gioco, chiusa nei suoi riti polverosi, di una smaniosa arroganza pentastellata subito naufragata, di una nuova destra addirittura alleata, in alcuni suoi segmenti, a frange criminali sempre più presenti, sempre più forti. Il popolo applaude o borbotta, oppure attende nuovi padroni e intanto pensa ai fatti suoi, com’è sempre stato. Così la favola continua, e non c’è fine alla vergogna.

 

 

LE FOTO SONO DI UGO SANTINELLI

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