di UGO SANTINELLI.
Riaffiora un ricordo di famiglia, una di quelle storie che ci si tramanda oralmente di generazione in generazione. Giusto un secolo è passato, riguarda la spagnola del primo incerto dopoguerra. L’epidemia arrivò anche a Montefredane, dove viveva un prozio medico, un po’ signorotto, un po’ sindaco del paese. Don Gaetano fece quel che poté visitando gli ammalati. Fino ad un pomeriggio, quando tornò a casa e sussurrò alla sua compagna di vita “m’hanne ciatato ‘nfaccia”. Si stese sul letto e non si rialzò più. Di quel fiato ne morì. Don Gaetano era un medico, ma doveva affrontare le scarse condizioni igieniche dell’epoca e i corpi debilitati dalla fame. Forse si proteggeva come poteva, con un fazzoletto davanti al volto. Un volto che nessuna fotografia ci ha tramandato fino ad ora. Cercava di non avvicinarsi troppo ai malati, immaginiamo, ma doveva pur auscultarli.
Don Gaetano e quel fiato mortale rivivono oggi, nonostante il secolo passato, nella mancanza di mascherine, nell’uso prolungato delle poche in giro, usurate e stropicciate fino all’inefficacia; nel mercato nero oggi virtuale, pallido e sbiadito rispetto a quello del secondo dopoguerra, alimentato allora -ironia della parola- dalla scarsità di farina, zucchero, olio, uova, patate. Dopo cento anni neppure chi lavora negli ospedali è oggi provvisto a sufficienza ed in continuità di questi elementari strumenti di lavoro.
Soprattutto nei primi giorni dell’epidemia il linguaggio di guerra ha coperto le incertezze, l’ignoranza e l’istinto italico a conservare il posto pubblico, fosse in ospedale o al vertice delle istituzioni: quanto di meno appropriato per lenire il trauma sociale che stiamo vivendo e tentare di razionalizzarlo, almeno tentare, senza esser certi di trovare spiegazioni e metodi sicuri.
Di certo abbiamo vissuto, per chi l’ha vissuta, un’interconnessione planetaria fatta di scambi produttivi, economici e finanziari forsennati; di trasporti aerei che hanno reso il mondo un sequenza di fermate d’autobus; di città che hanno mangiato e dimenticato terre e territori, città dove poter ammassare sempre più persone, “densificare” preferiscono dire gli urbanisti-immobiliaristi.
Tutto questo ricorda quelle ali d’aereo che vengono testate in laboratori avveniristici, fino a giungere e verificare il punto di rottura, per saggiare la resistenza del metallo.
Il mondo occidentale ed occidentalizzato si è rotto come l’ala di un aereo; ha superato una soglia, un limite e non può esser più riparato. Dovrà essere ricostruito, riprogettato, ripensato nelle sue componenti. Intanto l’immaginazione sociologica scarseggia.
Forse sarà utile riandare al new deal, all’esperienza statunitense della crisi del ventinove, come una traccia da ripercorrere e sovvertire. Soprattutto all’immagine rooseveltiana del tavolino a tre gambe. Gli stati uniti uscirono, o sembrarono uscire dalla crisi, grazie all’accordo tra stato, impresa e sindacati. Le tre gambe sostennero e impedirono di far cadere il ripiano del tavolino che, grazie al limite del bordo, ricorda il territorio di uno stato e la comunità che vi vive. Dovremmo cominciare a notare quelle gambe come oggi si presentino e quali fessure verticali le indeboliscano.
Lo stato, ovvero la sovranità nazionale e le entità sovranazionali, rispetto al peso di quelle politiche come l’Onu, la Nato, il G7, come anche nei confronti degli agglomerati economico-finanziari delle multinazionali.
L’imprenditoria “occidentale” che ha spostato il ruolo dalla produzione dei beni materiali alle strategie ed alle prospettive consumistiche; con la creazione di masse valutarie irreali che poggiano su aspettative aleatorie, giocate in borsa. La delocalizzazione dell’economia produttiva ha spostato forze e presenza politica tra i continenti. L’Europa ha un ruolo sempre meno influente nelle decisioni; alcuni dei suoi stati pensano di risolvere il dopo a scapito degli altri, ma la loro è l’utilità marginale tra le debolezze.
Il sindacato, certo profondamento indebolito nel passaggio dall’organizzazione del lavoro “fordista” alla rappresentazione odierna dove precariato, opportunità, successo e caduta rendono la vita quotidiana instabile. Ma la parola sindacato cela la questione globale dei diritti di cittadinanza, non solo quello del lavoro; con la rivendicazione dei diritti, per evitare il passaggio da cittadino a mero soggetto individuale.
Stato, impresa, lavoratori: cosa sono oggi e come si presenteranno domani. Ma gli interrogativi si affastellano e le certezze latitano.
E sul ripiano del tavolino è ora incisa la parola valore. Dopo, quando l’epidemia sarà terminata e riprenderà a scorrere la vita che crediamo “normale”, cosa avrà valore e cosa no? Rivaluteremo finalmente la terra, l’attenzione alla sua rigenerazione, alle acque impoverite e inquinate. La questione ambientale sarà la bussola per orientarci? In fondo è bastato poco, l’arretramento dell’impronta umana sulla terra, il confinamento di un mese, perché le acque di Venezia, le nostre domestiche acque del Fenestrelle e del Sabato tornassero limpide. Il rapporto sui limiti dello sviluppo fu pubblicato nel 1972 e molti hanno finto di non leggerlo.
La pubblicità non invita più a consumare, cancellate sono le immagini che ci illustravano gli imprescindibili ultimi modelli di auto, sempre più simili a veicoli da allunaggio, in grado di scavalcare crateri e superare il noioso traffico degli altri rinchiusi nelle bagnarole. L’inno al consumo individuale è sostituito dai ringraziamenti distribuiti ai bistrattati di ieri diventati eroi oggi, purché il logo del pastificio o del supermercato sia leggibile. L’individuo consumatore non è più di moda, oggi. Forse lo tornerà domani, quando i limiti a circolare saranno allentati, e muoversi in auto sarà giudicato più sicuro che salire su un treno o un autobus, con il pericolo di captare pericolose goccioline. Forse la villetta italica continuerà ad essere appetibile, piuttosto che la convivenza forzata in un condominio di sconosciuti da tenere a distanza. Pazienza per il risparmio energetico, i trasporti ecologici ed il consumo dei suoli.
Se il ripiano simboleggia il confine di uno stato, in questa prossima epoca di debolezze statuali di fronte alle forze sovranazionali e “globali”, cosa potrà cambiare? Tanto tempo è passato da quando Rockefeller creava nella povera Cina il mercato petrolifero regalando lampade che inducevano i cinesi a comprare il petrolio raffinato dalla Standard Oil Company. Oggi il mondo che fu di Rockefeller non riesce a riavviare la produzione di mascherine, un bene che non ha bisogno di sofisticate tecnologie.
Il liberalismo continuerà a guidare l’azione degli stati che conosciamo? Eppure oggi inneggiamo alla sanità pubblica, martoriata dal liberalismo, mentre la sanità mercantile privata non contribuisce a limitare e risolvere l’epidemia, se non in un ruolo succedaneo e di retrovia. Il diritto alla salute sarà vigilato da una medicina territoriale o continueremo ad infilarci nei pronto soccorso ospedalieri? Le strutture diverse tra Lombardia, Veneto ed Emilia e Romagna stanno già fornendo esperienze di varia efficacia e consegnano dati per riflettere.
Dovremo riconsiderare l’esperienza delle regioni che hanno finito per essere d’ostacolo in tanti campi; non sempre gli schemi teorici giuridico-istituzionali si trasformano in realtà virtuose e “concorrenti” per adoperare il gioco tra le “competenze”. Una pletorica e presunta classe dirigente dovrà essere scalzata e rinnovata.
Da alcuni anni i vertici di alcune grandi istituzioni culturali italiane sono stranieri, persone scelte non tra le burocrazie italiche o tra politici da accompagnare al pensionamento. Perché a dirigere ospedali, cantieri pubblici, progetti di risanamento territoriali, non dobbiamo chiamare quelle generazioni di giovani europei ed italiani, emigrati per necessità, e che hanno accumulato esperienze e “buone pratiche”?
Quanto sarà valutato l’io nei confronti del noi? In fondo lo slogan inappropriato della decrescita felice voleva indicare lo spostamento di valore da dare ad una questione piuttosto che ad un’altra, il passaggio da uno stile di vita ad un altro; era la richiesta di un’inversione qualitativa del modo di vivere, un’aspirazione desiderata, ma non delineata con tratti robusti.
Dovremo comprendere anche che non esistono scienziati e competenti che già sanno tutto: come non esiste il manuale del perfetto epidemiologo, dovremo comprendere che gli scienziati sono quelli che sanno leggere via via i dati, come Galileo Galilei, e confrontarsi tra loro.
L’Europa potrà anche dare soldi ed evitare le costrizioni imposte alla Grecia, ma i soldi da soli non bastano, possono anche cadere e restare per terra; i soldi vanno raccolti e spesi secondo indirizzi, decisioni, programmazioni. Chi si limita ad invocare la ripresa del lavoro nelle fabbriche, sottintende che l’apparto industriale italiano non deve mutare, né i patti sindacali tra gli imprenditori. Ma la ripresa, senza ripensamenti, aggraverà le disuguaglianza preesistenti, territoriali e di mercato. Non riallacceremo una comunità senza un profondo ripensamento del ruolo dello stato, senza un cambio anche generazionale e culturale di uomini e donne al governo.
Ammirazione e gratitudine dobbiamo provare per un nostro artista, Vinicio Capossela.
Appena nell’agosto del 2019, l’annuale Sponzfest di Calitri ruotava attorno al tema della peste, del sottosuolo, del nascosto, come poi avremmo compreso meglio nel mercato di Wuhan.
Con le antenne vigili dell’artista, Vinicio Capossela scriveva nella presentazione dello Sponzfest: La peste è pestilenza morale, devastazione del senso di comunità, rottura dei legami sociali, caccia all’untore, capro espiatorio, speculazione sulla paura del contagio, ma anche come in Artaud, liberazione e azzeramento delle regola.
E poi la grande ‘mascarata: perché la peste si presenta in maschera, mette a nudo l’uomo dalla maschera delle convenzioni sociali, in quella specie di carnevale al rovescio che è la Morte. La peste viaggia sul web che è anche il luogo degli infingimenti, della proiezione e moltiplicazione delle personalità. Viaggia nel suono dell’epoca: l’auto tune che maschera e intona artificialmente la voce. Voci mascherate anche in volto, e poi voci che si fingono altre voci .
Sembrano profezie queste parole, a rileggerle con il senno di poi.
Nel gran concerto finale il popolo plaudente veniva invitato ad indossare la mascherina contro la peste, in un rito d’inclusione tra udenti e concertanti.
Le foto sono di Ugo Santinelli