di CARLA PERUGINI.
Questa scritta su un muro che potrebbe essere ovunque nel mondo sostituisce il grido che l’umanità intera dovrebbe sollevare in uno di quei flash mobs tanto diffusi, specialmente da quando ci ha travolti la pandemia, e che sono la forma attualizzata delle manifestazioni di una volta, quando obbedivamo agli inviti di un partito, di un sindacato o di un’associazione, e le cui reincarnazioni più vicine, nelle modalità e nel tempo, sono state quelle delle sardine. Lontanissimo ci appare ora quello stringerci come pesci, piccoli ma combattivi, che pure ci ha restituito un’illusione di progetto comune e solidale solo qualche mese fa. Il tempo ha cambiato ritmo: s’è insieme rallentato e accelerato. Veniamo ritenuti fuorilegge, o perlomeno egoisti, se ci comportiamo come ci è stato naturale fino a ieri. Ormai solo in un film o in uno spettacolo registrato vediamo la folla che normalmente cammina per strada, che si saluta abbracciandosi, si tocca senza problemi, parte e torna continuamente… Tutto ciò oggi ci sembra appartenere a una civiltà sepolta, di cui noi siamo come i testimoni e insieme i posteri. Posteri di noi stessi, posteri viventi, cosa racconteremo ai bambini che oggi patiscono con noi quest’atmosfera straniante? Perché il mondo che lasciamo loro in eredità è contagiato per sempre, è il contagio.
Nel suo evocatissimo romanzo del secolo scorso, La peste, Albert Camus scriveva: “Se oggi la peste vi guarda, vuol dire che il momento di riflettere è venuto”. In molti, in verità, avevano riflettuto da tempo sulla presenza mai scomparsa sul nostro pianeta di bacilli, batteri e virus, le cui improvvise ma inevitabili conseguenze epidemiche sono state da sempre ricordate nelle relazioni storiche o nella letteratura di generazioni di scienziati e artisti di tutto il mondo. E, senza volermi sostituire a chi possiede gli strumenti scientifici per farlo, né enumerare citazioni, voglio soltanto riassumere l’idea che mi sono fatta della pandemia in cui tutto il genere umano (è incredibile a dirsi: il primo momento di condivisione totale nella storia…) si trova a sopravvivere. Credo dunque che se anche questo evento è stato definito zoovirosi è perché sempre gli animali sono stati i vettori delle epidemie fra gli umani. Senza voler risalire alla peste nera portata dai topi, o alle varie pesti dovute alle zanzare, basti ricordare che negli ultimi decenni tutte le principali epidemie sono state propagate da animali domestici e selvaggi: maiali, polli, uccelli, mucche, pipistrelli, scimmie, serpenti e via dicendo. Col che voglio immediatamente scagionare le povere bestie da qualsiasi colpa: siamo noi la causa dei contagi, per aver tolto loro gli spazi vitali, aver sacrificato gli habitat naturali alla frenesia di coltivazioni e allevamenti intensivi, averli alimentati a base di ormoni e antibiotici, togliendo loro le difese immunitarie e favorendo la propagazione dei virus nelle intollerabili ristrettezze in cui sono condannati a vivere. Chi degli animali si cura, parlo soprattutto dei paesi a forte capitalismo di stato (come la Cina) o privato (America Latina, Stati Uniti, Europa), sono spesso lavoratori privi di protezioni e di sostegni economici adeguati, per cui anche attraverso di essi un contagio virale scoppiato in un allevamento viene diffuso all’esterno. E dunque, tornando all’exergo iniziale: è la nostra normalità, quella cresciuta e supersviluppata con il capitalismo e la diseguaglianza sociale, che crea i mostri che minacciano di divorarci, che ci stanno già divorando.
Solo una rivoluzione culturale puo’ salvarci. Solo se crederemo che la soluzione non puo’ trovarla il singolo Stato, ma l’umanità intera, se i magnati della ricchezza mondiale non si limiteranno a fare beneficenza in questi tragici momenti ma accetteranno di sovvertire completamente il modo di accumulare ricchezza, solo se restituiremo alla Terra l’aria, l’acqua, le stagioni che abbiamo devastato, solo allora forse potremo sperare di uscire dall’ecatombe. È inutile illudersi con le date di riapertura sul calendario: la peste siamo noi e noi ne saremo la cura.
Le foto sono di Ugo Santinelli