di Ugo Morelli.
Una profonda crisi di immaginazione
“Ogni forma di totalitarismo corrisponde di fatto ad una crisi dell’immaginazione”, ha scritto qualche anno fa Ian McEwan. Attanagliati dalla paura, quella che stiamo vivendo è, forse, prima di tutto una profonda crisi di immaginazione e di pensabilità di futuro. La paura di morire può impedire la bellezza e l’impegno di vivere? Il silenzio e la pulizia dell’aria possono impedire la vitalità dell’incontro, dello sguardo, delle voci? Stiamo sperimentando che tutto questo e altro può accadere. Proni sotto la paura, reagiamo in modo ancestrale e rimuoviamo la ricerca, la curiosità, l’immaginazione, appunto. Sappiamo di essere portati a farlo e che lo possiamo fare; sappiamo che paura e ansia possono allearsi con conformismo e indifferenza al futuro. Se poi in gioco c’è il pericolo di morte, quelle disposizioni si eccitano e accentuano. Sapere qualcosa di più di noi, di come siamo fatti, ci può aiutare, però, a cercare vie diverse di elaborazione del presente. È però quello che soprattutto non stiamo facendo. In un concetto solo, non stiamo usando o stiamo usando male la nostra capacità di creare, scomponendo, componendo e ricomponendo il presente alla ricerca di vie originali di uscita dalla situazione in cui siamo. Le risposte finora sono state solo per prove ed errori, come quelle dell’età della pietra. Mentre la ricerca scientifica fa il suo faticoso e impegnativo cammino, la ricerca politica produce risposte caratterizzate dall’improvvisazione e dall’inseguimento, evidenziando la totale assenza per disinvestimento deliberato, di ogni forma di prevenzione e anticipazione possibili. Un esempio per tutti: il portentoso sistema di produzione iperliberista con tutte i suoi apparati tecnologici, unito al dominio della finanza e ai governi a loro asserviti, non è ancora capace di dotare di mascherine le popolazioni. L’impressione che fanno è di chi scopre la pioggia quando comincia a piovere, aumenta di percentuali a tre zeri i pochi ombrelli che ha e si affanna per iniziare a produrne, con eroismi esibiti e interessi occulti al seguito. L’inesistenza di un piano preventivo fa il paio con la totale assenza, salvo le improvvisazioni, di un piano per uscire da questa situazione. Eppure, i rischi sono altissimi. Tra i tanti, una preoccupazione riguarda in particolare i pericoli di regressione sociale. La disoccupazione, la perdita di lavoro e la carenza di risorse possono essere causa di reazioni difficili da controllare, se unite, peraltro, all’ansia generata dalle condizioni di restrizione dei movimenti, dei contatti e delle relazioni che stiamo vivendo.
Quello che amiamo di più e temiamo di più sono i nostri simili.
Quello che amiamo di più e temiamo di più sono i nostri simili. Oggi prevale il timore di una regressione al peggio di noi, alla dimensione primordiale. Viviamo nella paura, in emergenza, in uno stato di eccezione e con l’ansia della disponibilità di risorse. L’indisposizione a prevenire ci pone ormai costantemente in situazioni limite. Le situazioni limite non sono eccezionali, anche se così le definiamo, in quanto sono strettamente dipendenti dall’insostenibilità del nostro modello di vita e sviluppo e dalla rimozione del limite. Pretendere di vivere nell’illimitato, non riconoscendo che il limite è la condizione di ogni possibilità, crea di fatto condizioni insostenibili. Ce ne rendiamo conto chiaramente ora che siamo oltre la soglia di tolleranza o, come si potrebbe dire più precisamente, sull’orlo del baratro. Qualora, ad esempio, venisse meno la disponibilità illimitata dell’acqua, di cui godiamo oggi molto spesso in modo scriteriato, possiamo essere certi fin da ora che si creerebbero sconcerti, stupori, sorprese, come di fronte ad un fatto eccezionale e mai visto prima. Sarebbe però un fenomeno del tutto prevedibile, anzi probabile per non dire certo, e già parte dell’esperienza di tanti esseri umani come noi e di tanti animali non umani che muoiono di sete o patiscono una penuria sistematica di acqua, non da oggi e certamente in questo momento. Così come di Ebola, una SARS precedente a Covid19, sono morti e muoiono esseri umani a migliaia, ma in base alle nostre mentalità autocentrate e egoiste, lontano dai nostri immediati interessi e dalle persone più vicine a noi. L’emergenza in corso non è la prima e noi stiamo vivendo di emergenza in emergenza da non poco tempo. Quello che non vogliamo fare e non facciamo è riconoscere una connessione tra le emergenze. Se lo facessimo scopriremmo che si tratta di un’emergenza sola: l’insostenibilità dei nostri modelli di vita, dei nostri modi di produrre e distribuire le risorse, dell’uso che facciamo delle risorse naturali disponibili, della disuguaglianza nell’accesso alle opportunità, dell’ingiustizia sociale. Vivere quello che accade secondo un principio di stato di eccezione vuol dire almeno tre cose: disporsi solo a ricostituire la normalità precedente facendo prevalere la dissolvenza delle emozioni che i traumi ci provocano; accettare le limitazioni della libertà e il controllo sociale in modo passivo, come se fosse un destino inevitabile; non investire in immaginazione per provare a cambiare lo stato complessivo delle cose. Ragioniamo per eccezione e per comparti stagni e non considerando la complessità e la connessione tra fenomeni.
Stato di eccezione e disposizione a essere controllati.
Lo stato di eccezione si presenta, di solito, sconosciuto, necessitato dall’emergenza e, soprattutto, vi è una disposizione di tutti ad accettare e a sostenere le forme di controllo e deprivazione della libertà che stiamo sperimentando. Quando si crea una collusione tra il decisore e la popolazione, nel senso che tutti sono disposti a fare lo stesso gioco, si è di fatto in una forma di totalitarismo, per quanto necessaria e necessitata dal virus. Non solo. C’è un’altra considerazione da fare: siamo di fronte a una situazione inedita, planetaria e globalizzata dalla rete. Ogni morte da virus e ogni dato del mondo ci entrano dentro come se accadessero nel cortile di casa. Il peso dominante dei numeri quotidiani aumenta la prostrazione e, quindi, spossa e dispone ad accogliere ogni imposizione. Siamo alla fine più disposti ad accettare forme di dominio. Del resto, non si dà potere senza la disposizione più o meno elevata ed esplicita alla dipendenza da parte dei dominati. Non c’è assoggettamento senza soggettivazione e viceversa. Mai come oggi è necessario non dimenticare la lucida analisi di Judith Butler e la lezione periclea:
“Nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale” [J. Butler, La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 1997].
Pericle, Discorso agli Ateniesi, 431 a.c., da Tucitide
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Scarsa propensione per il vuoto
Abbiamo una scarsa propensione per il vuoto, a partire quello dell’oltre e dell’infinito, che sono la fonte principale di ogni immaginazione possibile. La nostra disposizione a reificare e naturalizzare ogni punto di vista ci mette in una singolare condizione: non possiamo non avere un punto di vista, ma rischiamo continuamente che sia l’unico punto di vista che abbiamo. Ogni volta che prendiamo una posizione siamo nella condizione di chi non aveva neppure finito di dirlo che già ci credeva, disposto a difendere come verità la propria posizione. Per non parlare di quando asseriamo di essere fermamente convinti di qualcosa. La convinzione assume in quel caso le caratteristiche di ostacolo all’immaginazione.
Si pensi, ad esempio, all’affermazione corrente: “secondo me”.
Riconosciamo oggi che quel “me”, o la sua versione “io”, ha meno chance di affermazione di quanto credessimo. Per ragioni cognitive e neurofenomenologiche il “me” o “io” mostra di essere più simile a una federazione di istanze che un a monolite sempre uguale a se stesso e imperturbabile dalle relazioni. È il divenire sostenuto dalla neuroplasticità a caratterizzare la nostra individuazione. Anche per ragioni culturali risulta difficile continuare a sostenere l’ipotesi di un soggetto autocentrato o di un sistema di relazioni in cui il soggetto svolge una funzione centrale. Nelle diverse culture il soggetto assume connotazioni e considerazione diverse e la stessa soggettività appare storicamente e culturalmente determinata.
Vi è, inoltre, ancora una questione da considerare: “secondo me” è un’affermazione che denota un vincolo in termini di habit che, mentre favorisce il senso di sicurezza e di appartenenza, rappresenta anche un ostacolo non secondario alla possibilità di apertura e di cambiare idea.
In pochi altri casi siamo meno disposti a riconoscere i limiti della fonte, come quando la fonte siamo noi stessi. Eppure quelli sono proprio i casi in cui, molto spesso, non solo non vediamo, ma non vediamo di non vedere.
Allora siamo meglio rappresentati da più di un tempo della coniugazione del presente indicativo del verbo essere: non si dà, di fatto, solo “io sono”, senza “tu sei” e senza “noi siamo”. Siamo una confederazione culturale e psichica, poeticamente narrata da Derek Walcott:
“Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione coloniale,
ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione”.
[D. Walcott, da La goletta Flight, in Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992]
Sicuri da morire?
Costringere le nostre menti nell’eterno presente, come sta accadendo nei giorni della deprivazione relazionale da Covid19, significa tendere a determinare situazioni di autoreferenzialità, una sorta di individualismo imposto, che rischia di mettere in crisi l’oggetto che enfatizza, cioè l’io stesso. Il totalitarismo interiore finisce per autodistruggersi come ogni totalitarismo: la domanda è quanti danni causa prima di scomparire.
Il danno più grave può riguardare la perdita di prospettiva derivante dalla crisi di immaginazione.
Se ogni forma di totalitarismo corrisponde di fatto a una crisi dell’immaginazione, possiamo dedicare ogni sforzo a immaginare, immaginare l’inedito, in quanto l’esistente non ci può bastare perché è fallito.
L’esperienza drammatica che stiamo vivendo con la chiusura e la sospensione delle relazioni a causa del Covid19 non può non richiamare un vissuto totalizzante e totalitario. Le necessità di controllo sociale dovute allo stato di eccezione, accolte da tutti, seppur con qualche eccezione e trasgressione, stanno producendo in tutti noi sentimenti difficili e stati di ansia da deprivazione che meritano ascolto e ricerca di elaborazione, come già auspicato precedentemente. La prima cosa che ognuno di noi può fare, o farsi aiutare a fare con il confronto con gli altri è elaborare il totalitarismo interiore: quelle dinamiche interne che sentiamo o possiamo imparare a sentire, in cui avvertiamo che una parte di noi, che magari ha dubbi sul presente e anela alla libertà, è parassitata da un’altra parte che pretende di mantenere l’abitudine, lo status quo, perché così si sente rassicurata. In quell’attesa di rassicurazione vi è una parte di noi, importante. Chi non vuole sicurezza e sentirsi sicura o sicuro? Ma abbiamo bisogno di aiutarci, da soli o con altri, a riconoscere che per quella via possiamo diventare “sicuri da morire!”.
Abbiamo un altro terreno di esplorazione necessario e urgente: la ri-semantizzazione di alcuni concetti che indicano altrettanti atteggiamenti consolidati e rassicuranti, ma falsamente rassicuranti. Il nostro corpo-cervello mente è in grado di investire in eccedenza, di creare cioè posizioni e comportamenti inediti, magari con una certa fatica, ma la buona notizia è che ne siamo capaci. Allora abbiamo la necessità di riconoscere che non c’è una possibilità senza un limite e che l’illimitato indica una disposizione mentale e affettiva patologica. Dobbiamo accorgerci, mai come oggi, che la vulnerabilità è una delle principali risorse della nostra struttura sensibile, in quanto ci rende capaci di sentire la realtà, di accorgerci di quello che accade e, soprattutto, di essere raggiunti in tempo dai segnali che contano e, principalmente, dagli altri che sono la condizione della nostra effettiva possibilità. È necessario mettere mano al prima to delle azioni e alla concretezza delle realizzazioni, riconoscendo che sono gli atti a generare responsabilità, a esprimere responsabilità e a generare fiducia. Ecco, la fiducia: ridefinirne il significato vuol dire affermare che si genera come esito e non come premessa delle relazioni e delle azioni; che è una risorsa tanto fondamentale quanto fragile; che non può essere richiesta ma donata. Gli atti responsabili diretti hanno bisogno di concertazione e di reciprocità: e allora l’intersoggettività diventa il luogo della politica, oltre la singolarità e l’individualismo, all’interno di una ridefinizione dell’istituzione e delle istituzioni che, più che esteriori a noi hanno necessità di essere riconosciuti come contesti di molteplicità condivisa, da vivere sempre alla temperatura della loro messa in discussione continua, per salvaguardare la dimensione istituente su quella istituita.