di CARLA PERUGINI.
Era una signorina di mezz’età.
L’aveva raggiunta dopo un’esistenza placida e priva di scosse, quasi fosse trascorsa su uno di quei tappeti mobili che ti sollevano anche dalla fatica di camminare e di trasportare pesi. Più che un passo avanti verso la vecchiaia a lei sembrò un traguardo agognato da sempre, da quando bambina si sentiva dire che sembrava già una donnina, da adolescente che possedeva la serietà di un’adulta, da adulta che avrebbe potuto vestirsi meno da vecchia, magari truccandosi un po’, per dare al suo volto bianchiccio i colori della giovinezza. Non che fosse brutta, neanche bella: l’immagine che se ne riportava vedendola era perfettamente uguale a quella di migliaia di altre di cui dovesse farsi l’identikit, anonima al punto che nessuno avrebbe saputo descriverla.
Lungi dal sembrarle un handicap, questa sua caratteristica le aveva mostrato la via: pavida e abulica, camminava preferibilmente sotto i muri, si copriva più che vestirsi, disfacendosi dei suoi abiti proprio quando erano ridotti troppo male finanche per lei, evitava amicizie e parentele, essendo più che appagata dalla presenza protettiva e discreta dei suoi genitori che, essendosi sposati già avanti con gli anni, non le fecero il torto di dover condividere casa e affetti con un fratello. Dopo le scuole magistrali, frequentate senza entusiasmi salvo un po’ per il latino, preferì rifugiarsi nel negozietto di famiglia, dove poteva dare una mano a vendere spolette di filo, calze di nylon, fettucce, gomitoli di lana e quant’altro potesse servire a un’affezionata clientela di quartiere. Essendo quest’ultima essenzialmente femminile si ridussero ulteriormente le possibilità per Lenuccia di incontri con l’altro sesso, d’altronde da parte sua se non sprezzati, di fatto trascurati fino a cadere nel dimenticatoio.
Musetto, l’enorme gatto di casa, suppliva perfettamente, con le sue coccole e i suoi capricci, a un rapporto affettivo con un umano, con la sua fame di richieste e bisogni che lei sapeva di non voler esaudire. Magari avrebbe preteso pure viaggi, visite a parenti, pranzi in famiglia, figli e nipoti…, no, no, per carità, a lei bastavano e soverchiavano le due settimane insieme ai suoi a Ischia, dove andavano a passare le acque, sempre nelle stesse camere prenotate con largo anticipo all’hotel Splendid.
Si era organizzata anche la vecchiaia: prima di morire, la madre, rimasta vedova, aveva realizzato un piccolo capitale dalla vendita del negozio, investendolo in modo tale che la figlia potesse ricavarne di che vivere dignitosamente.
Ormai sola da tanti mesi, Lenuccia cominciò a provare per la prima volta delle sensazioni a cui per tutta la vita non aveva dato importanza. Le care, vecchie abitudini che l’avevano legata ai suoi in un circolo di ricorrenze sempre uguali s’erano dissolte per sempre, e tedio, solitudine, sottili angosce, divennero le sue nuove compagne in un inverno che appariva tale solo sul calendario, giacché l’aria tiepida, l’assenza di piogge, la fioritura anticipata delle mimose, le suggerivano piuttosto una voglia di uscire, di mettere in movimento lo sguardo appannato e le gambe intorpidite, che non ricordava di aver mai sentito.
Ai primi di marzo del 2020 compì sessant’anni. In un empito di entusiasmo e di nostalgia che le sembrarono appartenere a un’altra, telefonò all’hotel di Ischia. Increduli ma compiaciuti gli albergatori le prenotarono una stanza, proponendogliene una con una veduta sul mare di cui lungo tutte quelle estati non aveva mai goduto.
Facendo la valigia, si accorse di quanta poca roba possedesse per una vacanza sull’isola. Per la prima volta scese a guardare le vetrine, scelse qualche abito leggero, dei sandali, un cappello, una borsa di paglia. Scoprì addirittura che qualche colore le donava più di altri. La traversata in traghetto la trascorse sul ponte anzicché chiusa in cabina, ben coperta, ad assaporare anche i colpi del vento e soprattutto quei paesaggi che le apparivano per la prima volta nella loro sfolgorante bellezza.
Rimise i piedi sul suolo dell’isola domenica otto marzo. Qualcuno le offrì un rametto di mimosa e così scoprì di essere festeggiata come donna. Raggiunse la sua stanza e si fermò a contemplare il mare per la prima volta.
Il giorno dopo furono bloccati tutti i trasporti: una spaventosa epidemia congelò per editto ciascuno nel luogo in cui si trovava. La quarantena non la impressionò più di tanto: “Hic manebimus optime”, la incantò da un antichissimo ricordo dei banchi di scuola il suo professore di latino. Le era sempre piaciuto, ora che ci pensava.
Le foto sono di Ugo Santinelli.