A suo insindacabile giudizio

di UGO SANTINELLI.

Dopo un anno di sperimentata amministrazione cittadina, sarà utile ragionare su esiti ed aspettative sin qui manifeste. In genere la legge di elezione dei sindaci è elogiata dalla stampa per la velocità con cui decreta vincitori e perdenti. Ma il caso avellinese dimostra a quale prezzo, secondo il vecchio adagio della moneta cattiva che scaccia quella buona. Il carattere della vittoria è stato solo quantitativo. Più liste vengono organizzate, più candidati si mettono in moto a consolidare reti parentali ed amicali, a scovare incerti; in un rapporto uno ad uno, per via della preferenza unica. Un meccanismo che procede come la palla di neve lungo il declivio, né di più né di meno. Il programma che dovrebbe contraddistinguere i candidati a sindaco ed entusiasmare i votanti, nel migliore dei casi è una lista di desideri senza collegamenti, senza la logica di una visione strategica sintetica e stringente del chi siamo, cosa vogliamo e dove vogliamo arrivare. L’attuale sindaco di Avellino ha ridotto il programma ad un burocratico adempimento di parole vergate su un foglio.

Ma con uno scatto di riflessione ulteriore non c’è da meravigliarsi. Questo è l’esito della lunga transizione democristiana. Il partito di massa è venuto meno, le idee guida proclamate dai palchi sono evaporate, ma gli uomini e le donne che controllavano il consenso sono ben vivi e la scomparsa di quella copertura – per loro – sovrastrutturale del partito-ideologia si è mutata in un’insperata autonomia d’azione. Chi era in terza o quarta fila nei partiti di massa, ora è protagonista sul mercato della politica. I grandi nomi del passato, locali e nazionali, pian piano sono meno evocati e ricordati quali costruttori di un dialogo sì, ma sostanziato dal consenso;  e gli organizzatori del consenso si sono mossi e continuano a muoversi come i baroni normanni, alla continua ricerca di alleanze effimere che salvaguardino lo spazio personale.

Ad Avellino i due maggiori contendenti, e non solo loro, possono essere considerati legittimi figli di quegli apparati di consenso. Li hanno ereditati senza il bisogno delle lacerazioni che accompagnano il passaggio delle generazioni, in forme ammodernate che vestono il vecchio, ed appaiono i contendenti come due gemelli, distinguibili per il colore degli occhi. Gli avellinesi sono stati chiamati a dividersi sul colore degli occhi.

Chi ha vinto alla fine ha portato alle estreme conseguenze l’elemento dell’autonomia d’azione. Non è necessario indicare una visione complessiva e strategica alla città. Il sindaco non deve conoscere i bisogni di una città; sono i bisogni dei singoli a dover farsi riconoscere dal sindaco, come nel caso dei servizi sociali avellinesi. Ad un livello simile e più alto vengono collocati anche  gli altri interessi, pur legittimi, in una logica stringente di rapporto biunivoco. E’ scomparsa dal panorama la figura del portatore di interessi diffusi, dell’associazionismo di vario genere. Se tutto si sminuzza in una serie di rapporti a tu per tu, da cittadinanza tramutata in clientela, a delimitare attese e decisioni, la città si ritrova avviluppata in un mortifero ed impoverito tran tran. E l’anima della città vola via. Se ciò che conta è il rapporto con il sindaco, i cittadini non ne devono conoscere prima l’agenda politica, le decisioni vanno comunicate graziosamente dopo, magari con qualche tocco esotico come le parole inglesi o i colori delle strisce pedonali. Devono apparire come singoli provvedimenti, imposti da urgenze ed emergenze, ma con il trascorrere del tempo somigliano ai puntini da collegare in un disegno intuibili ma non del tutto manifesto. Come lo spostamento nella mappa mentale avellinese del centro, ora slittato verso un‘area eccentrica, per ora ostacolata dall’autostrada.

Slitta anche la percezione di ciò che è l’amministrazione comunale, come se il sindaco dalla condizione “pro tempore” di un’istituzione fosse ora un corpo monarchico. Un monarca non può essere interpellato, costretto ad una risposta; un monarca concede e si concede agli applausi. Può sempre invocare la condizione delle casse comunali, ovvero delle tasse non pagate dai sudditi; ed intanto spostare mercati e funzioni e servizi da un luogo ad un altro, con tutte le implicazioni conseguenti. Ma, innanzitutto stupire, come insegnano i manuali di marketing (ah, l’inglese!) pubblicitario, tra un enjoy, un emoticon ed uno smile; del resto il mercato della politica è il luogo della reciproca ricerca di soddisfazione.

Cosa è diventato il Consiglio Comunale? Un fastidioso adempimento dove ascoltare le voci altrui e rintuzzarle con gli atteggiamenti del tifoso. La maggioranza è la squadra da difendere a prescindere, la consiliatura un campionato da vincere. La maggioranza non è una componente della più vasta comunità cittadina. E’ lei solo la comunità cittadina; gli altri non contano. La maggioranza sta come una malattia, come una sfortuna, come un’anestesia, come un’abitudine. Non che al tempo dei partiti di massa il Consiglio Comunale fosse luogo di fecondo dialogo. L’esperienza e le cronache non indicano casi sconvolgenti in cui le opposizioni abbiano fatto cambiare su questioni importanti gli intendimenti del partito guida, la DC. Come le sorti dell’urbanistica avellinese.

Se questa è una commedia malinconica e pericolosa, accanto al protagonista indiscusso giocano due vecchie signore. Porge birignao da vecchia scuola e mostra fazzoletti umidi di lagrime, la signora Opposizione che scopre ora le fessure nei muri, un tempo nascoste dai quadri svenduti per necessità. Arranca dietro al monarca in scena, lo segue senza la forza di precederlo. Spesso comprende e ne condivide pulsioni e piglio, nella stizza per non essere al posto del vincitore.

Completa il terzetto la signora Stampa locale, equidistante. Registra come notizie l’incedere quotidiano del monarca, ne scrive senza aggettivi qualificativi e senza nessi tra i fatti. In monarchia costituzionale è lecito ospitare sulle pagine di carta od effimere anche i detti e le mosse di chi non è nel gabinetto reale, per il momento. Seguiranno le camarille.

Come se il limite del palcoscenico rinchiudesse la vita della città di Avellino, come se la vita vera non fosse oltre il teatro, nelle strade e nei territori.

Grazie a Fabrizio De Andrè e ai livornesi.

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