Sergio Zavoli, genio e stile del giornalismo.

di GENEROSO PICONE*

Da bambino si accorse di sognare a colori. Quando i suoi lo portarono a Forlì da uno specialista, la diagnosi fu che si trattava soltanto di un po’ di immaginazione. Lui in treno chiese al padre di quale malattia fosse affetto e si sentì rispondere: “L’immaginazione è vedere quello che gli altri non vedono. Ma può essere anche una buona cosa”. Se si dovesse racchiudere in poche battute il valore delle qualità umane e quindi la cifra di quella che sarebbe diventata la sua scelta di vita professionale, quest’episodio potrebbe tornare parecchio a utile. Perché Sergio Zavoli – il giornalista, l’uomo della televisione, lo scrittore, il narratore, il poeta scomparso l’altra notte nella sua casa di Roma a 96 anni: era nato il 21 settembre 1923 a Ravenna un po’ per caso, lui riminese nell’anima – è stato colui che si si è sempre sforzato di vedere quello che gli altri non vedono per poi raccontarlo. Come il suo amico Federico Fellini, con cui al mattino si scambiavano le impressioni sui viaggi onirici compiuti la notte, accanto al quale ha chiesto di essere seppellito, con il rammarico confessato in amara ironia di non poter essere presente all’evento del congedo che per un cronista sempre sulla notizia è pur sempre una irrimediabile beffa. Oggi la camera ardente in Senato, dove lui era stato dal 2001 al 2013 eletto con i Ds, l’Ulivo e il Pd, frequentandolo anche quando le sue condizioni fisiche erano proibitive. Domani in funerali a Rimini, dove desiderava tornare.

SERGIO ZAVOLI

 Sergio Zavoli occupa un posto fondamentale nella storia dell’informazione italiana, segnandola con il suo stile, la sua voce, il suo tono: con una postura che lo ha portato sempre a privilegiare l’elemento particolare e addirittura marginale della notizia individuato come il luogo della massima espressione dell’umanità dei protagonisti della cronaca. Doti che oggi per tutti sottolinea il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “Il giornalismo italiano perde uno dei suoi maestri. Il congedo di Zavoli sarà occasione per ripensare la sua eredità, per ricordare l’originalità e la qualità dei suoi lavori più importanti, per trarre spunti e ispirazione dal suo stile, dalla sua etica professionale, dalla sua grande forza narrativa capace di andare in profondità e di cogliere l’umanità che sta dietro gli eventi e i protagonisti”.

  Sergio Zavoli ha sempre creduto nella capacità della parola, espressa nei reportage e nelle inchieste per la tv, misurandosi con un medium che ha innovato e modernizzato nelle massime espressioni delle potenzialità del suo tempo. Alla parola intendeva conferire responsabilità, consapevolezza, equilibrio e il timbro epico di chi racconta storie vere, autentiche, reali. Lo ha fatto soprattutto nella Rai, dove approdò nel 1947 dopo le prime esperienze al giornale riminese “Testa di ponte” e a “Pubbliphono”, un quotidiano parlato organizzato con gli amici servendosi di 7 altoparlanti montati in piazza: da qui prese a occuparsi di calcio, poi a Roma dal capo delle radiocronache Vittorio Veltroni, il padre di Walter, quindi la segnalazione a Cesare Zavattini e l’avvio di una straordinaria carriera.

  Inviato al Giro d’Italia inseguì le gesta di Vito Taccone ed Eddy Merckx e al leggendario “Processo alla tappa” convocava Gianni Brera, Bruno Raschi e Pier Paolo Pasolini. In Belice dopo il terremoto del 14 e 15 gennaio 1968 diede la parola a chi era appena scampato dalle macerie. Nei servizi per “Tv7”, “Az” e “Controcampo” fece ascoltare la voce delle monache in clausura. Insomma, prese a raccontare il suo tempo e la sua Italia nei capitoli di un largo romanzo popolare che nel ciclismo – “E’ la metafora della vita” – aveva il suo architrave e l’immagine simbolica. Narrare e capire: le grandi inchieste in video del “Viaggio intorno all’uomo” del 1969, di “Nascita di una dittatura” del 1972 e de “La notte della Repubblica” – il percorso in 20 anni di terrorismo italiano dalla nascita alla sconfitta, 18 puntate e 50 ore di trasmissione dal 12 dicembre 1989 all’11 aprile 1990 su RaiDue –  divennero pietre miliari nel genere e soprattutto nello sforzo di delineare una linea di comprensione degli accadimenti che non si fermasse all’arida superficie. Aveva una cura quasi maniacale nel lavoro, una precisione e un’attenzione ai fatti che gli faceva cogliere ogni piega e qualsiasi risvolto. Segno di estremo rispetto per l’utente. Quando voltava lo sguardo al passato citava i nomi dei grandi che aveva incontrato: Paolo VI, Lita Levi-Montalcini, Eugenio Montale, Federico Fellini, Arnold J. Toymbee, Fernard Braudel, Wernher Von Braun, Joseph Ratzinger, Albert Camus, Albert Schweitzer, Mario Luzi e all’elenco aggiungeva una carmelitana di Clausura. Con Bettino Craxi – con cui aveva avuto un’aspra polemica – ad Hammamet aveva realizzato un’intervista che finisce per andare oltre, una confessione, un’introspezione dolente, un’autoanalisi che forse sarebbe stata utile al film di Gianni Amelio. “Ma so di dovere una civile riconoscenza al gran numero di persone che chiamiamo normali, il cui ricordo è rimasto legato a una qualche silenziosa e non di meno viva bellezza”, ribadiva.

 In Rai fu radiocronista, condirettore del Tg, direttore del Gr, presidente dal 1980 al 1986. Ha scritto di sé e del suo mondo in “Tre volte vent’anni” del 1978, in “Socialista di Dio” del 1981 – il titolo sarebbe diventato la sua etichetta -, in “Romanza” del 1987, ne “Il ragazzo che io fui” del 2011. Nel 1993 esordì nel giornalismo di carta stampata assumendo la direzione de “Il Mattino”, esperienza importante in un momento complesso per Napoli e l’Italia, probabilmente carica di troppe aspettative andate perciò deluse, racchiusa ne “La trasparenza del mattino” del 1996. Ma rappresentò pure l’occasione per diffondere la sua lezione, per ribadire come ci si dovesse opporre al “tramonto del senso delle cose”, utilizzando le sue parole del 26 marzo 2007 all’Università di Tor Vergata a Roma.

 Poeta nel profondo, nel disegno di “tenere dentro il quadrato della lucentezza, anche espressiva stilistica” come scrisse Carlo Bo, fu autore di versi di presagio con “L’orlo delle cose” del 2005 e “La strategia dell’ombra” del 2018. Rimasto vedovo, aveva preso in sposa la giornalista Alessandra Chello conosciuta proprio a Napoli. Insieme a lei ha concluso i giorni, non senza aver subìto nel 2015 l’amarezza del tira e molla con Riccardo Villari per la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai e nel 2012 un’aggressione nella sua villa di Monte Porzio Catone. Tracce di un mondo che non era più il suo.       

*su “IL MATTINO” di giovedì 6 agosto 2020.

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