di EMILIA CIRILLO.
Nel giorno dei morti, si andava a Boscotrecase, paese di mio padre. Nel cimitero era sepolto mio nonno Emilio che non avevamo mai conosciuto. Era un uomo elegante, faceva il sarto, aveva i baffi, una faccia paffuta, un sorriso bonario, almeno così sembrava nel grande ritratto ” foto Majolino, gabinetto fotografico” appeso nella stanza di mia nonna. Era morto giovanissimo, mio padre aveva solo due mesi. Andavamo tutti gli anni a portare i fiori al nonno sconosciuto, in un rito imprescindibile. Nonno era per noi bambini una parola misteriosa, a cui non sapevamo collegare un corpo, una voce, un profumo. Per noi il nonno Emilio era l’uomo dell’orologio infilato in un taschino del gilet e di quella curiosa catena a maglie larghe che formava sulla pancia come una piccola onda. L’altro nonno, Umberto, aveva il volto sbiadito di un giovane dal sorriso ingenuo, ritratto in una foto che mia madre aveva sul comò. Dunque il viaggio a Boscotrecase era, prima che mio padre comprasse la seicento, lungo e faticoso. Da Avellino a Napoli con la Sita, poi da Napoli a Pompei con la Cimcumvesuviana, da Pompei a Boscotrecase con un trenino che si inerpicava lento sulle pendici del Vesuvio. Tornavamo a casa stanchissimi, senza che noi, io e mio fratello, capissimo il senso di quel viaggio. Ore sulla strada per deporre garofani rossi davanti a un marmo, dopo aver cercato e atteso ‘O Capitano, un omaccione a mezze maniche, un berretto blu in testa e la scala in collo, che si arrampicava fino al loculo , dove a stento si leggeva il nome e il cognome del defunto. Una mancia, un commento sulle luci poste accanto alla foto, una preghiera ed era tutto finito.

Ma, c’era un ma, quanti Cirillo leggevo sulle lastre di marmo mentre cercavamo l’uscita, un cognome diffusissimo ed io che credevo di essere unica!, erano parenti? Mio padre alzava le spalle, forse, chissà, non credo, ma, c’era un appuntamento che rendeva quella visita al cimitero davvero diversa da tutte le altre che facevamo in Irpinia.
Davanti al cimitero all’uscita c’era ad attenderci un vero cordone di venditori di pasta cresciuta e scagliuozzi ,che accanto ai loro carretti vendevano la loro merce a cinque lire al pezzo.
In una concolina di metallo c’era una grande quantità di una pasta molle, bianca, che prelevavano velocemente e gettavano nell’olio bollente, e sì, sul carretto era montata una friggitrice, di continuo. Una volta dorata, scolavano la pasta cresciuta e lo scagliuozzo con un mestolo bucato, e li gettavano con un tocco del gomito, in un cuoppo di carta spessa, marroncina. Volete sale? era la domanda. Poco, era la risposta, e giù, un bella presa lanciata senza risparmio sulle zeppoline calde. Niente era più squisito di quella pasta dorata, oleosa, salata che addentavamo con fame, per levarci da dosso la tristezza delle lapidi e l’odore della cera dei lumini. Ci interrogavamo sul perché ci fosse quella tradizione unica, in quel paese sul crinale del Vesuvio, dove tutto appariva intenso, ville, case, strade, giardini di aranci, un paese dove avremmo potuto nascere e vivere, se il destino non avesse deciso altrimenti, e non sapevamo darci risposta. Doveva essere, secondo i miei genitori, Un rito antico, come un cuonzolo di massa, che levasse la tristezza dal cuore e consolasse il corpo addolorato. Alla morte, al suo pensiero, si risponde mangiando cose saporite.
Oggi 2 novembre molti cimiteri sono chiusi. A Boscotrecase l’ospedale Covid lavora a pieno regime, e i garofani rossi sono diventati fiori introvabili. E io darei chissà che cosa per una zeppolina fritta.