Al bivio

di FRANCO FESTA.

Ogni volta, a quel bivio, è un brivido sottile. Quaranta anni dopo, è sempre come se fosse la prima volta: quella volta, quella sera. Non conta l’occasione, la stagione.   Conta il punto, il luogo. Conta lo sguardo, che si perde in alto, lungo la salita, con un fremito di morte, o si distende a destra, oltre la curva, verso la vita certa. Come a un bivio, appunto. Solo che non è un crocevia mentale, un percorso dell’immaginazione. E’ un concreto punto sulla carta geografica, uno snodo reale  tra due percorsi entrambi possibili. Risalendo dalla zona della Ferrovia, in città, la strada a un certo punto si dirama. Proseguendo dritto, sale lungo corso Umberto, per le antiche vie, fino alla Dogana; girando a destra, si inoltra subito nella città nuova, con la circumvallazione che la cinge come in un abbraccio protettivo.

Anna arrivò lì, subito dopo la grande scossa. Era ad Atripalda, a una festa di compleanno, all’ultimo piano di un palazzo di nuova costruzione.  Al grande rumore, all’immane vomito della terra, tutti reagirono scappando. Rimase solo lei, interdetta, e la sua bimba ancora a terra tra i giochi, che la guardava muta. Con un attimo di ritardo, corse giù, per gli otto piani, la tromba delle scale ancora tremava, si sentivano, più sotto, i passi di altri, che si precipitavano anch’essi verso la strada. Fu un attimo, o un tempo infinito, la luce era andata via, si scendeva nel buio. Poi furono le voci e le luci della via. Anna sentiva, sul suo corpo, il calore della bimba, che si stringeva forte: la piccola non piangeva, non diceva nulla, si consolava delle carezze della madre, che la faceva sentire calma e al sicuro. Corse verso l’auto, parcheggiata lì vicino, con un solo pensiero: a casa, tornare a casa. Bisognava attraversare tutta la città, arrivare all’altro capo. Un piccolo percorso, trasformatosi in un cammino di guerra; un tratto conosciuto, diventato una distanza impossibile.   Tutto si agitava intorno a lei, ma Anna non aveva tempo per guardare intorno, per pensare. Solo la strada contava, solo la striscia di asfalto di fronte.  La bimba, sul sedile vicino, con la manina si era aggrappata alla cintura verde che cingeva la vita della madre. Una cintura di plastica sgargiante.  Ad Andrea, suo marito, non era piaciuta, l’aveva trovata volgare. Per  essa, proprio per essa,  era scoppiata una lite tremenda, un elenco sterminato di recriminazioni aveva straripato in ogni stanza, sfociando livido in una porta sbattuta,  in vite separate per una sera. Il padre con il figlio a casa, a covare rabbia, lei con la bimba alla festa, a ritrovare se stessa tra le amiche di sempre.  Non avvertiva, ora, pentimenti per quella scelta, ma dolore sì, e paura sì, una incontenibile paura di una separazione per sempre.  Ora la strada, oltre l’incrocio della Puntarola superato a fatica, tra auto che correvano in tutte le direzioni, era quella della parte bassa della città. C’era gente, sui marciapiedi, che si agitava, e sassi, che ingombravano ogni tanto la carreggiata. Anna procedeva senza distrarsi, gli occhi sempre più fissi in avanti, solo in avanti, la manina della sua creatura era ancora lì, abbarbicata sulla cintura della catastrofe. L’auto giunse quasi subito al bivio.

Quando Andrea la vide arrivare, quando la vide scendere sorridente dall’auto nella stradina del quartiere stordito, ammaccato, ma salvo, dall’altra parte della città, con la bimba tra le braccia, il mondo si riavvolse nella luce dei loro occhi, e tutto riprese a battere con regolarità, oltre il cupo terrore degli attimi di prima.  La madre baciava l’altro bambino, la bimba cercava i baci del padre, poi un solo, lungo bacio tra loro due, per la strada, pronti ad affrontare insieme tutte le notti che sarebbero arrivate.

Perché al bivio era andata a destra? Andrea glielo aveva chiesto mille volte, in tutti gli anni che erano venuti dopo, ogni volta che erano giunti a quel punto. Anna non aveva mai dato una risposta chiara. Era andata così, aveva girato, e basta. La risposta era sempre serena, e Andrea non aveva insistito. Eppure quando ci pensava, da solo, ripassando per lì, e ci pensava sempre, nello stesso modo, con la stessa ansia,  il cuore si spaccava, la ferita si riapriva. Dritto, oltre il bivio, la città si era richiusa sui suoi morti, lacerata dai crolli, sconvolta, spezzata. Dritto, oltre il bivio, la città aveva cancellato la sua storia e la sua memoria,  per strade sventrate, abitazioni venute giù, desolazione e morte dilagate in ogni punto.  Quella strada oltre il bivio fu chiusa dopo, nella notte, e sarebbe rimasta chiusa per anni. E sarebbero occorsi decenni, nella zona antica, per provare a ricominciare. La citta nuova, quella a destra, no. Pochi segni, scarse ferite, subito rimarginate: solo l’ingordigia di denaro, la perdita della dignità civile, sarebbero durate a lungo, incancellabili. Ma la vita era ripresa quasi subito, come se nulla fosse accaduto.

Tutto si era deciso in quel punto: la vita contro la morte, il tempo di poi, la furia degli anni a venire,  le scelte, le fughe, le lotte, le rese. L’amore, soprattutto. Tutto in quel punto.  Ma Anna sorrideva sempre, alla domanda, e rispondeva muovendo appena la testa e le braccia.

E’ andata così, ripeteva.

Non diceva tutta la verità. Si conosceva, sapeva che se fosse andata dritta e l’avesse scampata, avrebbe vagato per soccorrere qualcuno tra le macerie della Torre dell’Orologio crollata, tra le voci di dolore urlanti nel silenzio del deserto di Piazza del Popolo o del Vicolo della Neve; oppure si sarebbe perduta  nel cuore della città martoriata,  tra gli sguardi di smarrimento stampato sui volti dei Vigili del Fuoco, esitanti di fronte alle mura delle case sbriciolate lungo la discesa di Sant’Antonio Abate, che per tanti secoli era stata il centro pulsante della vita cittadina. Forse sarebbe arrivata, con il cuore in tumulto, la bimba stretta tra le braccia, fino ai cadaveri sepolti del palazzo crollato in Piazza della Libertà, che venivano estratti dai cumuli di macerie con delicatezza addolorata. E forse sarebbe stata vicina ai sopravvissuti, ancora coperti di una polvere che non calava e che li faceva somigliare a tanti spettri.

Ma non era andata così. E non aveva senso parlarne, ora.

Così Anna riprendeva a canticchiare la canzone di Fossati che arrivava dalla radio, felice del breve viaggio in auto per le strade della città che l’aveva riportata fino ad Andrea. E Andrea prima si rasserenava, per la scelta di allora, poi si incupiva, ma solo un istante, ripensando a quella insopportabile cintura verde sgargiante. Poi si chetava, sfiorandola appena con la mano, osservando la luce di vita che le brillava negli occhi, mentre quel rumore sordo, lungo, sterminato, che risaliva dal cuore della terra fino a devastare tutto in superficie, ancora risuonava nell’anima, come un’ eterna eco che l’avrebbe accompagnato per sempre.

Le foto sono di Sergio Iannaccone

Qui troverete altre foto di quel terremoto visto dalla città:

http://www.avellinesi.it/persone/terremoto.htm

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