di ANNIBALE COGLIANO.
La DC di De Mita è in mezzo al guado. In un proscenio nazionale, al congresso regionale campano del Partito comunista, l’intervento di De Mita espone l’iter possibile del compromesso storico[1]. In riferimento alla crisi in atto nel Paese, afferma che essa è espressione del passaggio da una fase agricolo-industriale dell’assetto dello Stato a una fase più avanzata di democrazia industriale, rispetto alla quale nessuna delle forze politiche ha risposte all’altezza della sfida. Se la società agricolo-industriale comporta un’organizzazione autoritaria del potere, una società con “alto grado di industrializzazione richiede un assetto statale corrispondente alle esigenze di una società democratica”, che non può non avere un coinvolgimento organico del PCI. Sì dunque al compromesso storico ma «io dico no [sottolineatura nel testo], in quanto accordo per il governo, oggi; però mi interessa rilevare positivamente l’esigenza di fondo che è alla base di quella strategia perché in effetti, per affrontare i problemi della trasformazione della società e dello Stato occorre certamente un tipo di unità di popolo che possa garantire lo sviluppo della democrazia, coinvolgendo, alla base stessa del potere, le grandi masse popolari». Come può realizzarsi l’unità di popolo? «Attraverso una solidarietà di fondo al quadro istituzionale ed allo sviluppo della democrazia; operando le convergenze che sono necessarie a questo fine senza annullare le differenze di linee politiche in relazione alle situazioni concrete. Nella alternanza dei ruoli, in questo quadro unitario, risiede la garanzia dello sviluppo democratico della società. Quando parlo di alternanza, non intendo affatto affermare per l’uno la condizione permanente all’opposizione o per l’altro quella eterna del governo. Al contrario questa questione deve essere vista in modo del tutto nuovo rispetto al passato, quando si poneva in termini abbastanza rigidi proprio per il fatto che una egemonia del PCI appariva mettere in discussione il quadro democratico. Il problema di chi governa di chi sta all’opposizione va deciso in concreto nelle situazioni politiche date attraverso il confronto.» Dopo il voto del 15 giugno 1976, segnali di svolta vi sono nella nomina di comunisti alle assemblee elettive. Una linea di alternanza non può escludere una collaborazione di governo, perché potrebbe esservi “il pericolo che una DC all’opposizionediventi il coagulo delle forze conservatrici e reazionarie”. In polemica con il PCI, De Mita sostiene che non ha fondamenta la lettura che esso ha fatto in passato della DC nel dopoguerra, come del partito che avrebbe operato la rottura dell’unità antifascista per abbracciare la linea proposta dagli USA (simbolicamente rappresentata dal viaggio di De Gasperi in America nel 1947). Le scelte economiche e politiche operate dalla DC sono state in realtà «le più rispondenti alle esigenze della società italiana» per lo sviluppo del dopoguerra. Solo negli ultimi anni, il PCI ha svolto verso la DC un’opposizione costruttiva, protagonista della quale è stato Berlinguer, che ha tenuto presente le posizioni di Togliatti dell’ultimo periodo. Non rispondente alla realtà è la lettura schematica di una DC divisa fra conservatori e progressisti. Se difficoltà di cambiamento interno vi sono, Zaccagnini segretario è la condizione per il rinnovamento della DC (Alinovi annota che De Mita, in un colloquio privato, gli ha detto che quanto ha esposto al congresso del PCI sosterrà al congresso nazionale del suo partito.

Ma nella provincia in cui De Mita è l’indiscusso leader dubbia è la coerenza con tali aperture. Doppiezza o solo resistenze ideologiche? Quanto accade per il governo del comune capoluogo è una cartina di tornasole. Gli interessi economici legati alla speculazione edilizia, che hanno dato luogo a un vero e proprio blocco sociale impediscono ogni rinnovamento e ogni tipo di presenza del PCI al governo. È una storia che viene da lontano, dalla metà degli anni ’60, simile alla storia delle tante mani sulle città italiane, nel periodo del boom economico. Sullo era stato qualche anno prima il profeta sconfitto e rimosso da ministro per la coraggiosa riforma urbanistica proposta a livello nazionale, e sconfitto anche sul piano locale per la defenestrazione ripetuta del sindaco di Avellino, Angelo Scalpati, della sua corrente. Nell’aprile del 1967, dopo un infondato linciaggio morale per peculato da cui era stato assolto[2], Scalpati (nel 1964 dissidente della DC e poi riammesso), si dimette a seguito dell’invito del Comitato cittadino (segretario Ugo Sullo) e del Comitato provinciale DC (segretario Romeo Villano) a costituire una nuova amministrazione comunale di centrosinistra. La precedente è costituita dalla DC che ha 15 consiglieri (su 40) e da una lista civica PLI-PDIUM capeggiata da Michelangelo Nicoletti, che dispone di 8 consiglieri. L’obiettivo delle dimissioni è affrontare, «in armonia con gli indirizzi governativi di programmazione e sviluppo», i maggiori problemi cittadini (piano regolatore, viabilità cittadina, tributi, legge 167). La questione vera del dissenso interno alla DC e del rifiuto del centrosinistra ruota da lungo tempo intorno al piano regolatore cittadino: il pomo della discordia su chi affidarne la redazione è nient’altro che la prefigurazione del futuro della città: di scempio o di civile assetto urbanistico? Quanto, in modo caustico e con grande spirito civico, ha detto Antonio Cederna vale per Avellino e per tante città d’Italia nel processo caotico e speculativo di inurbamento del secondo dopoguerra:
I vandali che ci interessano sono quei nostri contemporanei, divenuti legione dopo l’ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato: proprietari e mercanti di terreni, speculatori di aree fabbricabili, imprese edilizie, società immobiliari industriali commerciali, privati affaristi chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale, urbanisti sventratori, autorità statali impotenti o vendute, aristocratici decaduti, villani rifatti e plebei, scrittori e giornalisti confusionari o prezzolati, retrogradi profeti del motore e scoppio, retori ignorantissimi del progresso in scatola. Le meraviglie artistiche e naturali del Paese dell’arte e del giardino d’Europa gemono sotto le zanne di questi ossessi: indegni dilapidatori di un patrimonio insigne, stiamo dando spettacolo al mondo[3].
Dopo la morte di Scalpati (maggio 1969), il nodo non è sciolto e non lo sarà per gli anni a venire. Nuovo sindaco è l’avv. Emilio Turco, pure della corrente di Sullo (20 consiglieri su 36 presenti, con i seguenti voti: 15 DC, 1 Partito socialista unitario, 4 PSI); ma già nel febbraio del 1970 è dimissionario, perché eletto con i voti del centro-destra. Si va poi ad una giunta Democrazia cristiana-Partito socialista unificato (PSI e PSDI), ma anch’essa ha breve durata. Nel maggio 1970, non resta altro alla Prefettura che nominare un commissario prefettizio. Questo è il retroterra del lungo monocolore democristiano degli anni ’70, appoggiato dall’esterno dalla destra, espressione, con larga parte della DC, del partito del cemento. Solo quando il sacco della città sarà pressoché consumato, con le elezioni comunali del 1975, vi sarà una giunta di centrosinistra di breve durata. Le mani riformatrici della DC sono legate, quelle di Sullo in passato, come quelle di De Mita dopo.

E legate sono anche per il modello di crescita economica e sociale incentrato sui poli di sviluppo. Gli anni che seguono il 1976 sono anni disastrosi sul piano economico-sociale per la provincia. Nel 1977 e 1978, a parte la ennesima crisi nel settore agricolo a causa delle consuete avversità atmosferiche, si ha una fase recessiva generale e un ulteriore decremento occupazionale in molte aziende di vecchia data del settore manifatturiero[4]: la Imatex e l’Amuco in particolare (850 addetti complessivamente), e il Lanificio Gatti, che annunciano licenziamenti massicci. Va a fondo l’edilizia con ricorso massiccio alla CIG, e con la chiusura di molti opifici delle industrie satelliti. Crisi nella lavorazione del legno per gli infissi (Fratelli Caso). Vi è crisi anche del settore conciario (200 aziende e 2.500 addetti) per la riduzione della domanda nazionale nel settore calzaturiero (2/3 della produzione di pelli sono destinati alla produzione di calzature) e per la concorrenza dei paesi emergenti, che non si limitano più ad esportare pelli grezze, ma esportano a prezzi competitivi pelli conciate. È una crisi che si annuncia non più solo congiunturale, ma strutturale: il carattere familiare delle aziende (150 circa con 2.500-3.000 addetti) non favorisce la riconversione verso altri tipi di lavorazione e di mercati. Solo alcune, ma in tempi successivi, impiegheranno capitali per riconvertirsi; e altre troveranno la strada più agevole della delocalizzazione negli stessi paesi emergenti, dove il costo della materia prima e del lavoro sono ridottissimi, e, per di più senza costi di risanamento ambientale.
Se il modello di sviluppo s’inceppa e il quadro economico è progressivamente disastroso, nel conflitto di classe che si genera, in alcune aziende in particolare, maturano figure operaie e sindacali portartici di diritti avanzati, di istanze egualitarie e di democrazia sociale e politica, che vedono l’Irpinia in sintonia con i grandi processi nazionali.
Nel nucleo industriale di Pianodardine, sono la Samm e l’Italdata le aziende che si distinguono per le forme di lotte e i contenuti della conflittualità operaia[5].
«Nel Sud c’è una perla rara, una fabbrica per auto che Agnelli se la sogna. Si trova ad Avellino. Si chiama Samm. Produce bene, svelto e con professionalità»: sono il titolo e il sottotitolo del reportage di un giornalista e storico affermato, Giorgio Bocca, apparso su “Repubblica” del 7 agosto 1980.
Aggiungiamo noi: è la fabbrica in cui la conflittualità operaia è la più elevata sul territorio irpino, portatrice di valori e di contenuti sociali avanzati simili alle più avanzate fabbriche storiche del Nord. È una conflittualità particolare: non c’è muro contro muro fra maestranze e direzione aziendale (dirigente è Luigi Provera), quanto piuttosto una cogestione aziendale con accoglimento sostanziale delle rivendicazioni delle maestranze, che migliora la produzione per quantità e qualità. L’indotto industriale lavora prodotti per l’auto: pezzi di carrozzeria, serbatoi di benzina, coppe dell’olio, basamenti dei sedili, supporti del cambio, e altre componenti. Com’è – si chiede Giorgio Bocca – che la Samm ha lavorato con forte perdite nei primi sei anni, prima di arrivare al pareggio? E come mai rispetto all’Alfasud – continua a chiedersi Giorgio Bocca – il tasso di assenteismo è di gran lunga inferiore e gli scioperi selvaggi sono inesistenti? La risposta del dirigente alla prima domanda è inequivocabile: l’Alfasud e la Fiat hanno programmato una quantità superiore di componenti che la Samm non ha potuto smaltire, sino ad essere obbligata a lavorare al 50% delle sue potenzialità, con conseguenti ingenti perdite di miliardi[6].
Rispetto alla seconda domanda, Provera è in parte evasivo, ma per altra parte dà una risposta che è spia del rapporto particolare stabilito con gli operai. Se l’assenteismo è ridotto, è anche perché l’azienda va incontro alle esigenze operaie e si fa interprete dell’ambiente in cui opera. Esempio addotto: se fra fine settembre e inizi ottobre comincia la raccolta delle nocciuole, e gli operai sono anche proprietari di terreni che le producono, si deve mettere in conto un certo assenteismo, salvo provvedere in anticipo con doppi turni e straordinari per lo stoccaggio.

Non che gli operai accettino lo straordinario a cuor leggero: sin dall’ottobre del 1978 si sono battuti con tenacia contro ogni prestazione che debordasse l’orario canonico. E ciò sia per favorire nuova occupazione, sia per la tutela della salute. Altra cosa è l’una tantum delle nocciuole.
Testo eloquente di quella che abbiamo chiamato cogestione, risultato finale dell’azione del Consiglio di fabbrica (leader Federico Rocco e Alberto Musto) e del sindacato (mentore il segretario provinciale pro-tempore della Fiom, Ennio Loffredo) è la piattaforma rivendicativa presentata alla direzione aziendale dal Consiglio di fabbrica nel maggio del 1979, contestuale al rinnovo contrattuale nazionale: la lotta per il salario, il controllo dei tempi di lavoro e degli organici, il controllo delle turnazioni e degli orari, i diritti sindacali e la qualità della vita in fabbrica (mensa, fumo, rumori, ritmi, rischi), si coniuga con una un’attenzione al processo lavorativo aziendale: controllo operaio preventivo sugli investimenti e gli indirizzi produttivi rispetto alla domanda esterna (Fiat, Alfa, Lancia); definizione dei carichi di lavoro dei reparti chiave (stampaggio e lastro-saldatura) in rapporto al numero degli occupati; individuazione delle strozzature tecniche che diminuiscono la produttività; iniziative di formazione e di sviluppo dei livelli professionali; risanamento e miglioramento dell’ambiente di lavoro. Vi è, inoltre, un’altra specificità delle iniziative operaie: la proiezione sul territorio per costruire un’egemonia culturale e un blocco sociale alternativo, e il rapporto continuo con le altre esperienze più avanzate che maturano nelle aree del Paese con radicamento storico di classe. Valga per la testimonianza di tale egemonia il documento in controtendenza firmato dopo la marcia dei quarantamila a Torino del 14 ottobre 1980 (i colletti bianchi contro gli operai che si oppongono ai licenziamenti di massa annunciati dalla Fiat)[7], che segna l’inizio dell’isolamento operaio dagli impiegati, dal ceto medio e dalla città, e in tanta parte del Paese, nonché la più dura sconfitta democratica e sindacale, dopo quella altrettanto storica della seconda metà degli anni ’50:
Documento di impiegati e capi intermedi della Samm di Avellino –
Aumento di giorno in giorno la pressione che la FIAT esercita su impiegati, capi ed intermedi perché scendano direttamente in campo contro la lotta dei lavoratori in difesa dell’occupazione e per impedire ogni ritorno al passato. […]
Si cerca addirittura di nobilitare questa funzione antioperaia assegnataci contrabbandandola come lotta per la libertà e per l’esercizio del diritto al lavoro.
Bisogna sottrarsi a questa manovra senza esitazioni. La neutralità a questo punto non basta più. Il nostro rapporto col sindacato ha registrato anche momenti di difficoltà, ma è chiaro a tutti ormai quale valore di libertà abbia oggi la lotta operaia.
Abbiamo interesse a stare da questa parte perché la perdita di conquiste e di diritti sindacali colpirebbe inesorabilmente anche noi, e perché solo da una nuova democrazia in fabbrica, da una modifica dei ruoli, delle gerarchie e dell’organizzazione della produzione può venire una nostra identità fatta innanzitutto di dignità e di professionalità.
Lanciamo perciò un appello a quanti impiegati, capi ed intermedi siano ancora tentati ad imboccare vecchie strade, perché intendano che oggi più che mai nessuno si salva da solo.
O avanza tutto il movimento dei lavoratori, o tutti saremo meno liberi, più deboli, strumento, magari inconsapevole, per disegni di rivincita autoritaria.
No alla divisione, scegliamo l’unità, sottoscriviamo per il fondo di solidarietà [seguono 65 firme][8].
Il documento è sottoscritto pressoché all’unanimità dagli impiegati, dai dirigenti, dall’ufficio del personale, dai capi reparto, dai capi squadra, dai capi turno, dall’ufficio programmazione – dalle stesse figure sociali che a Torino hanno imboccato la strada opposta –. La storia successiva – passaggio in proprietà piena alla Fiat a fine 1982 e cassa integrazione a zero ore per circa 300 dipendenti, preludio dello smantellamento – è tutta da scrivere.

La Italdata, per iniziativa della Cassa per il Mezzogiorno, nasce come azienda a partecipazione statale (50% della Stet che controlla la Telecom, e della Siemens, tedesca, azienda privata), con indirizzo elettronico e meccanico per produrre prodotti d’avanguardia per l’informatica. Gli obiettivi produttivi e l’elevata professionalità potenziale richiesta generano, all’atto dell’insediamento, una specificità che la distinguono rispetto alla tara d’origine degli altri insediamenti: il reclutamento non clientelare delle maestranze. Le assunzioni, nella fase di avvio, non possono riguardare manovalanza generica che possa essere assunta attraverso padrini politici. Una quarantina di giovani, per lo più diplomati negli istituti tecnici e professionali, fra il 1973 e 1975, è obbligata, per una formazione di base, a frequentare un corso biennale (senza retribuzione) fuori sede (prima presso il Centro professionale della regione Campania e poi, presso la Siemens di S. Maria Capua Vetere). Più di un terzo dei neo assunti, prima del reclutamento, è già politicizzato, perché passato attraverso la FGCI (uno di loro, Luciano Vecchia, sarà per 8 anni poi il futuro segretario provinciale della FIOM, il sindacato dei metalmeccanici): qui è la matrice della diversità, prima che si vada ad una seconda fase dell’assunzioni e della produzione, fra il 1976 e il 1981 si giunge a un’occupazione di circa 400 unità, quando il reclutamento avverrà secondo le vecchie logiche: graduatorie con chiamate numeriche sì, ma di fatto controllate dalla DC e dalla CISL. Chi però esprimerà in permanenza l’alterità culturale e politica in fabbrica è il gruppo dei politicizzati, prima come RSA (Rappresentanze Sindacali Aziendali, ossia rappresentanti sindacali nominati dalle confederazioni sindacali, nel 1977) e poi come Consiglio di fabbrica (delegati espressi con elezione diretta delle maestranze, nel 1978). È il gruppo che unitamente ai quadri della Samm sarà decisivo per il rinnovamento del sindacato provinciale. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio del conflitto che si snoderà negli anni a venire; basterà enunciare le novità della contrattazione: diritti di informazione sugli investimenti e sulle prospettive produttive e occupazionali, diritti sindacali, incrementi salariali intrecciati al controllo delle qualifiche, contrattazione della mobilità interna, passaggio automatico dei livelli salariali, blocco o contenimento degli straordinari per favorire nuova occupazione (in particolare giovanile), assunzione di manodopera femminile licenziata dall’Amuco. È una primavera che durerà poco, non oltre i primi anni ’80, con la cessione alla Siemens dalla Finanziaria pubblica Stet del ramo aziendale di tutte le attività Hardware e dell’intero pacchetto azionario; il ricatto della delocalizzazione dell’azienda e del licenziamento avrà la meglio sugli operai più combattivi e sul sindacato, che in nome della salvaguardia del posto di lavoro, rinunceranno in gran parte ai contenuti radicali espressi precedentemente. Ma questa è una storia comune ai rapporti capitale-lavoro che riguarda l’intero Paese, negli anni che seguono la marcia dei quarantamila.
La scommessa più grande di De Mita ministro è l’insediamento Fiat con produzione autobus, nell’area che prenderà il nome di Grottaminarda (in realtà, il comune dell’area espropriata – fra le più fertili della provincia – per il nuovo nucleo industriale è Flumeri). Nel contratto nazionale dei metalmeccanici stipulato nel 1973, punto qualificante che ha vincolato la Confindustria sono gli investimenti nel Mezzogiorno. La Fiat, dal suo canto, a fine ’73, dopo la guerra arabo-israeliana nell’ottobre, detta del Kippur (che produce, fra gli altri esiti, l’embargo delle esportazioni di petrolio in Occidente e l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio), presenta, in alternativa all’uso privato dell’automobile, un piano per la produzione di autobus, che avrebbero potuto mitigare il consumo di combustibile e, nel contempo, soddisfare un bisogno sociale. Il progetto dell’azienda s’incrocia, da un lato, con le recenti conquiste operaie, perché è il Mezzogiorno l’area in cui propone di realizzarlo, e, dall’altro, con le sovvenzioni statali. In un primo tempo, l’insediamento Fiat avrebbe dovuto essere localizzato nella Piana del Sele, in provincia di Salerno (fra Eboli e Battipaglia). Il cambio di area porta ad una rivolta con 5 giorni di occupazione della linea ferroviaria e dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, cosa per la quale l’on. Vincenzo Scarlato, democristiano, è accusato di essere l’ispiratore[9]. La Democrazia cristiana di De Mita dirotta l’intervento straordinario in Irpinia (delibera del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, del 3 maggio 1974); 90 i miliardi di lire di investimenti pubblici, di cui 25 per le infrastrutture, e 104 ettari di terra espropriati. È il primo strappo corporativo alla solidarietà nazionale promossa dal sindacato e dalle sinistre, una guerra fra poveri che Gramsci avrebbe definito esempio di rivoluzione passiva, ossia di assorbimento conservatore di una contraddizione di classe. Da più parti è confutata la tesi del dirottamento. Non disponiamo della documentazione iniziale del progetto in sede governativa. Posto comunque che fosse l’Irpinia la sede d’insediamento prescelta dal CIPE, resta la domanda: perché questa provincia? Era forse l’unica area depressa nel Mezzogiorno? Fatto è che la piana di Valle Ufita, per decreto, diventa il Mezzogiorno sottosviluppato più meritevole di provvidenza. Sarà il primo laboratorio di guerra fra i poveri, che avrebbe insanguinato di egoismo sociale l’intero Paese.
Altra questione è la credibilità dell’insediamento stesso della Fiat nel Mezzogiorno, quale che sia il territorio di accoglienza. Trenta mesi sono previsti per la messa a punto dell’impianto (l’azienda torinese smantella lo stabilimento di Cameri in Piemonte e si assume in proprio l’onere tecnico dell’infrastrutturazione dell’area: acqua, luce, strade, ecc.). Uno sciopero generale provinciale del 25 febbraio 1975, supportato da un documento unitario delle tre maggiori organizzazioni sindacali, pone la questione chiave per il presente e per il destino futuro dell’insediamento[10]: il ciclo completo della produzione autobus. La partita sociale e politica che si gioca investe la credibilità dello stesso sindacato nazionale, tanto che ad intervenire alla manifestazione (15.000 persone, annota il Prefetto), che nel capoluogo accompagna lo sciopero, è il segretario nazionale della CGIL, Luciano Lama. Ma la Fiat, per passare al piano operativo – come la direzione aziendale puntualizza al ministro per l’Industria pro-tempore, Donat Cattin – chiede allo Stato garanzie di finanziamento delle regioni per un piano nazionale autobus[11].

La partita si gioca anche sul terreno delle assunzioni (altro caso di rivoluzione passiva). La CGIL in particolare pone la questione chiave: assunzione non a chiamata discrezionale dell’azienda e dei notabili locali, ma a chiamata numerica, che comporti graduatorie non truccate nelle liste di collocamento e sia equilibrata rispetto alle popolazioni dei vari comuni della zona. L’escamotage è presto trovato, sia per soddisfare le richieste clientelari sia per esigenze strettamente produttive. Affidiamo la parola a Cesare Ianniciello, responsabile delle relazioni sindacali per conto della Fiat per quasi tre decenni:
Il meccanismo selettivo era tanto semplice quanto efficace: l’azienda inoltrava richiesta di figure professionali poco conosciute e pressoché inesistenti in zona, come ad esempio lo sbavatore o il battiberta, al collocamento di competenza che era quello di Flumeri, il quale, in mancanza, rivolgeva la richiesta stessa ai collocamenti dei comuni contermini. Tra questi vi era il comune di Ariano Irpino che, avendo una popolazione superiore a 25.000 abitanti era tenuto ad iscrivere nelle liste dei disoccupati con diritto all’avviamento al lavoro provenienti da altri comuni lontani e comunque non contermini. Che erano proprio quei lavoratori in possesso della qualifica strana richiesta dall’azienda. Niente di illecito, per l’amor di Dio, pur tuttavia si trattava di un elegante espediente che consentiva alla Fiat di selezionare a suo piacimento i lavoratori, adottando di fatto la richiesta nominativa anche per quelle qualifiche per le quali la legge richiedeva la richiesta numerica[12].
Ciò non comporta – aggiungiamo noi – che tutte le assunzioni abbiano un marchio esclusivo di patronage. Il numero delle assunzioni necessarie deborda quello della via clientelare ed ha, inoltre, un limite politico democratico nell’Italia del tempo. Tutti coloro che inoltrano domanda di assunzione e si iscrivono al collocamento sono puntualmente oggetto di indagine (informatore un ex sottufficiale dei carabinieri); numerosi sono gli iscritti al Partito comunista e in possesso di qualifiche di cui l’azienda necessita. In tal caso, a esaurimento della graduatoria nella lista di collocamento (Flumeri e Grottaminarda[13]) l’azienda non può non assumerli, ma li sceglie per ultimi e non per la qualifica posseduta, tanto che, dopo l’assunzione, il neo assunto dovrà riqualificarsi per altre mansioni e il suo livello retributivo resterà basso per lungo tempo[14].
La partita si gioca altresì sul terreno dell’assetto complessivo del comprensorio (servizi, trasporti, ambiente, ecc.), rispetto a cui brillano le inadempienze della Regione e della Cassa per il Mezzogiorno. Sul terreno della mobilitazione sociale è una forza politica minoritaria di estrema sinistra, il Pdup, che promuove dibattiti e ipotesi di vivibilità futura (pianificazione dei servizi, assetto urbanistico, servizi sociali, sviluppo armonico), e prova costruire leghe di disoccupati per realizzare o almeno condizionare i criteri di assunzione. Ma sono solo generose testimonianze senza approdi.
Alla fine della primavera del 1978, puntuale rispetto ai tempi programmati, la Fiat avvia le assunzioni degli operai (quelle di molti impiegati sono già state avviate l’anno precedente), ma per quantità e criteri di reclutamento, le aspettative sono frustrate. Non 3.000, ma 550 sono i dipendenti assunti (con stage a Cameri, in provincia di Novara, o a Suzzara in provincia di Mantova) e per di più per chiamata diretta nominativa o con passaggi di cantiere. Il sindacato, impotente, si batte per le restanti 470 assunzioni programmate per l’anno in corso: «richieste numeriche e rispetto degli ordini di avviamento dei disoccupati iscritti al collocamento». Quanto al numero degli occupati, nel corso degli anni futuri, al massimo della produzione, non supererà mai le 1.500 unità. L’insediamento sarà per vent’anni uno stabilimento di solo montaggio di carrozzeria, prima di trasformarsi in fabbrica dismessa di autobus, quando costruirli altrove o non costruirli affatto darà maggior profitto all’azienda.
Il prestigioso direttore del CENSIS, Giuseppe De Rita, riferendosi ai nuovi operai della Fiat di Valle Ufita, con un gioco di parole li designa come metalmezzadri (metalmeccanici e mezzadri): non solo e tanto per le caratteristiche sociologiche della loro estrazione contadina né per gli aspetti culturali o per l’incerta figura di auto-identificazione, ma per l’ibrido particolare di reddito, fra salario e proventi dall’attività agricola mai abbandonata (nella restante parte di una delle poche valli della provincia estremamente fertili, si continua a coltivare tabacco e barbabietola da zucchero).

In realtà, però, non si tratta di soli contadini: tanti neo assunti sono maestranze qualificate, artigiani o operai con elevata professionalità, o della zona o emigrati che sperano in un lavoro sicuro o che rientrano per poter lavorare nella comunità di origine. Di più: tali maestranze sono una risorsa inattesa per la stessa Fiat: la produzione di pullman è compatibile fino ad un certo punto con la catena di montaggio fordista. Non vi è produzione di pullman in serie: la domanda è diversificata, tanto che ogni pullman è spesso diverso dall’altro, pur quando è della stessa serie. L’ufficio progettazione è sempre nella sede centrale di Torino; ciò che giunge in Valle Ufita è solo un progetto di massima. Saranno proprio queste maestranze ad apportare modifiche e miglioramenti significativi nel processo lavorativo: i reparti di lastratura, verniciatura, sellatura, finizione diventano veri e propri laboratori, sia per migliorare l’ambiente di lavoro che per il prodotto finale, tanto che i vari tipi di autobus di volta in volta sfornati, sul piano della qualità, non avranno nulla da invidiare a quelli di altre aziende europee. Come dire? È una vera e propria rivoluzione creativa nel processo produttivo. Non una lotta che assuma caratteri di luddismo (come pure accade alla Fiat di Torino): le battaglie e le vertenze per ridurre la nocività delle esalazioni, il fumo, i rumori, gli incidenti, sono al contempo mezzi per diminuire i tempi di lavorazione, per fare meno pause, per ammalarsi di meno e, dunque, per incrementare il profitto aziendale. Quando subiscono il pugno duro della Fiat che licenzia o commina sanzioni di vario tipo, o che li manda persino sotto processo con procedure di arresto teatrali[15], la Fiat è obbligata a fermarsi per vari giorni, per l’adesione massiccia agli scioperi di solidarietà. I leader, quasi tutti iscritti alla CGIL (che ha il più alto tasso di sindacalizzazione rispetto alla CISL e UIL) e ai partiti di sinistra (Antonio Inglese, Prisco Inglese, Raffaele Manganiello, Antonio Pezzella, Domenico Petrillo – alias Zi Mingo –, Antonio Blasi, e altri), alcuni anche portatori di handicap, sono tutti stimatissimi come figure operaie e sindacali. Sono quadri che si forgiano nella prassi quotidiana, coadiuvati da operatori sindacali ex operai (Franco Ortu e Giovanni Rondinelli) che la Federazione Italiana Metalmeccanici (Fiom) ha inviato come maestri dal Nord.
Nonostante tale conflittualità, comunque a mietere consensi nel territorio è la Democrazia cristiana, che catalizza un coacervo di forze e gruppi sociali. Le liste di collocamento dei comuni ammessi al banchetto si gonfiano unitamente alle residenze anagrafiche con nomi sconosciuti e liste di mestieri professionali esistenti solo sulla carta, utili ad aggirare le leggi di collocamento. Si gonfiano pure le liste degli invalidi civili, nella prospettiva di una quota occupazionale garantita. Una corruzione di massa dilagherà irrefrenabile per un Eldorado immaginato, a fronte di una combattiva nuova classe operaia non egemone. Una miriade di speculatori, ingegneri, architetti, geologi, geometri e amministratori corrotti e compiacenti farà crescere come funghi palazzi invivibili e distruggerà patrimoni architettonici secolari. Il grande capitano d’industria potrà ritenersi soddisfatto: quella miriade di postulanti e arrampicatori sociali sarà la sua ancella fedele a spartire la spesa pubblica. Se a Torino Agnelli è il signore della città, in Valle Ufita lo è anche degli alberi, delle acque sotterranee, dei fiumi, del cielo. I sindaci, i collocatori e i selezionatori, i medici del lavoro e le guardie giurate si nominano e si licenziano nei suoi uffici. E non mancheranno persino speculatori in guanti bianchi, provenienti dal sottobosco criminale e dagli apparati repressivi dello stato, che selezioneranno a viso aperto i futuri cani da guardia aziendali. Uno di loro, in premio del suo caporalato, sarà eletto sindaco qualche anno dopo l’entrata in produzione e un altro segretario provinciale del sindacato cinghia di trasmissione della Democrazia cristiana. I comuni del bacino d’utenza interessata, tutti o quasi governati dalla Democrazia cristiana, si presenteranno sempre in ordine sparso davanti alla Fiat: ciò che interessa loro è contrattare singolarmente il maggior numero di assunzioni, non certamente programmare servizi o stabilire un rapporto con le preesistenze produttive o delineare un piano polivalente di sviluppo con gli altri settori economici dell’area. Nel comprensorio, in particolare in Grottaminarda e Ariano, invivibile sarà l’assetto urbano e del territorio, sino a farne una grande periferia disastrata. La scelta iniziale di privilegiare la crescita selvaggia della rendita immobiliare, dell’imprenditoria rampante, di uno sviluppo urbanistico senza servizi, come un boomerang, produrrà interi lotti di case invendute, investimenti con scarsi saggi di profitto, assenza di servizi primari, degrado ambientale, traffico caotico. Ciò sino a quando la crisi spazzerà via il quarantennale partito di governo con la gran parte dei suoi dirigenti transfughi verso altri lidi.
Per la Fiat, a fronte della crisi di domanda, saranno frequentissimi gli ammortizzatori sociali con la Cassa Integrazione Guadagni (senza contare i contributi pubblici di 15 miliardi ricevuti con la legge 219 che disciplina i contributi post-terremoto), sino a quando, nella prima metà degli anni ’90, oltre metà dei dipendenti lavorerà addirittura poche settimane l’anno per 4 anni[16]. E quando, nel 2012, l’azienda comunicherà la chiusura e la vendita dello stabilimento di Valle Ufita, gli addetti saranno 685, di cui operai 561 e il rimanente impiegati. Il sogno di mamma Fiat, come in tanti dicevano, si muterà in incubo. La Fiat aveva messo previdentemente le mani avanti nel lontano 1974. Di fatto la legge 151 del 1981 (“Legge quadro per l’orientamento, la ristrutturazione ed il potenziamento dei trasporti pubblici locali”), che avrebbe dovuto assicurare la produzione e un servizio sociale per il Paese, è sempre stata applicata a singhiozzi o per lunghi periodi del tutto inapplicata, quali che siano stati i governi in carica.
L’aumento della disoccupazione, l’assenza di prospettive per giovani e sottoccupati, il crollo delle vecchie aziende tessili, l’arretramento del peso dell’agricoltura nel reddito e nell’occupazione, la crisi verticale dell’edilizia, l’inizio della fine del settore conciario plurisecolare, il rientro massiccio degli emigrati, il fallimento sostanziale dei poli di sviluppo e la devastazione del territorio che li accompagna, le stesse generose lotte sociali e politiche nelle fabbriche di nuovo insediamento chiudono il decennio non con la crescita della sinistra ma con la crescita della Democrazia cristiana. Alle elezioni politiche del 3 giugno 1979 la DC irpina balza al 48,3%, (sul piano nazionale 38,30%) tre punti in più rispetto alle politiche del 1976, e 10 in più rispetto alle regionali del 1975; il PCI passa dal 26,6% del 1976 al 21,2%. Portatosi su una linea moderata, il PSI ha un lieve incremento, passando dal 10% delle politiche del 1976 all’11,6%.

Il Prefetto, a qualche settimana dalle elezioni, annota: Nessun accordo è stato ancora raggiunto per dare amministrazione di più ampio respiro ai maggiori enti retti tuttora da giunte minoritarie. L’Amministrazione Provinciale, infatti, continua, dopo una breve esperienza di sinistra, (PCI-PSI), ad essere retta dalla DC, che conta 11 consiglieri su 30, mentre il comune è retto dalla DC (sindaco e 5 assessori), dal PSDI (2 assessori) e dal PRI (1 assessore). […] Il quadro politico provinciale, che in certa misura riflette quello nazionale, continua ad essere lacerato da contrapposizioni e rotture fra le due maggiori componenti e quindi a presentarsi instabile e inadeguato alla gravità dei problemi che affliggono la provincia come le altre zone interne del Mezzogiorno. Le ragioni di instabilità e di incertezza sono principalmente dovute ai rapporti difficili che intercorrono tra il PCI-PSI che, specialmente, dopo i risultati delle elezioni di giugno, sono protesi verso nuovi equilibri e la DC che ha sempre un peso e una funzione primaria nell’attuale quadro politico provinciale, che trovano riscontro nella grossa forza elettorale espressa in occasione delle elezioni medesime. Il PCI, dopo la flessione di consensi registrata in occasione delle dette elezioni, ha irrigidito, rendendo più tesi i rapporti con la DC, con la quale prima invece sembrava aver avviato un processo di graduale convergenza assumendo con sempre maggiore frequenza posizioni di critica e di scontro e introducendo nel dialogo politico elementi di aspra polemica […]
Nuovo scossone elettorale alle consultazioni amministrative del 1980: rispetto alle regionali del 1975, la DC passa dal 40,9 al 42,45; il PSI dal 12 al 15,7%; calo del PCI, che alle regionali passa dal 23,4 al 19,72 (dal 21,3 al 20,7 rispetto alle provinciali precedenti). Al comune capoluogo per la prima volta, con il 50,03% la DC ottiene la maggioranza assoluta, analogamente ad Ariano Irpino, seconda città della provincia. Esplicita e netta è la dichiarazione della DC: nessuna intesa con il PCI sia alla Provincia che al comune capoluogo. Il PSI si accoda.
De Mita aveva sostenuto nel 1959 che i marginali, gli esclusi dal lavoro e dal reddito non potevano essere considerati cittadini liberi in una società che pretendeva di essere democratica ed inclusiva, ma solo quando non fossero stati più tali, ossia cittadini di serie b di un’area depressa. Ma ugualmente, dopo un trentennio di sviluppo distorto e drogato, non sono liberi: l’Irpinia persiste come area depressa, più devastata della società rurale tramontata, e, come tale, esprime una società civile non autonoma, ma subalterna ai nuovi meccanismi di controllo sociale e di assistenza. Certo, vi sono adesso, per fattori nazionali e per storia locale, anticorpi democratici, una società civile più articolata, ma sino a quando possono resistere prima di essere ridotti a sterile testimonianza? Il terremoto geofisico e civile è alle porte.
Le foto sono di Ugo Santinelli
[1] Cfr. la relazione che ne fa Abdon Alinovi, segretario regionale del PCI, in IG, APC, MF 227, p.1694 e segg.
[2] Scalpati, nel 1961-1962 presidente dell’Ospedale civile di Avellino è stato sospeso dalle sue funzioni, perché sotto procedimento penale per imputazione di peculato (asportazione di 4 termosifoni dell’Ospedale civile dati ad Almerindo Raimondo, medico provinciale), salvo poi essere assolto “perché il fatto non sussiste”. Cfr., per questa nota e quanto segue, ACS, Min. Int. 1971-1975, b.104, fasc.lo A-9 (vecchia segnatura).
[3] A. Cederna, I vandali in casa: cinquant’anni dopo, Laterza, Roma-Bari 2006 (1° ed. 1956), a c. di F. Erbani, p. 3.
[4] Della crisi in atto, un documento della Commissione operaia di preparazione della conferenza provinciale del PCI (del 24 novembre 1979), merita essere riportato in alcuni suoi passaggi, per la lucidità con cui si analizza la strategia a corto raggio del padronato e si indica una possibile uscita: «Cadute le residue e deboli difese dell’economia assistita l’apparato produttivo della provincia è esposto in pieno ai colpi della crisi. Interi settori (tessili, laterizi, alimentari) sono investiti da processi di ristrutturazione tendenti a ridurre la base produttiva ed occupazionale ed a recuperare margini di competitività attraverso l’aumento dei carichi e dei ritmi di lavoro, l’uso al massimo della flessibilità, il ricorso, in senso anticiclico, alla cassa integrazione guadagni, periodico e di massa. […] Sono inaccettabili i tentativi di decentramento e polverizzazione del ciclo produttivo portati avanti dal calzaturificio Bianchini tendenti a dequalificare ulteriormente la produzione e ad attaccare le basi stesse di controllo e di contrattazione, per ricomporre momentaneamente i margini di profitto aziendale. È qui in atto uno strisciante ma consistente processo di smobilitazione di aziende di piccole dimensioni, incapaci di ridefinire un proprio ruolo, una volta ridotti gli spazi del lavoro nero e del sottosalario. Le cause della crisi sono strutturali ed addirittura internazionali; ma è altrettanto certo che, se fabbriche come l’Imatex corrono rischi di restare fuori del mercato, il motivo fondamentale è da ricercarsi nel blocco degli investimenti, nell’arretratezza tecnologica, nella mancanza di un qualsiasi piano di diversificazione produttiva (poliestere, cotone puro, tessitura. Sintomi crescenti dello stesso male potrebbero manifestarsi anche nelle altre fabbriche del settore (Lanificio Gatti, Amuco. […] Il blocco della spesa pubblica unitamente alla assenza di una seria e organica politica della casa ha determinato una profonda crisi delle industrie collegate: laterizi, legno ed infissi». Cfr. Archivio privato Federico Rocco, “Bozza documento commissione operaia PCI”, p. 1, 5, 6.
[5] Per le note che seguono, all’Italdata e alla Samm, cfr. interviste: del dicembre 2019 a Ennio Loffredo, ex segretario della CGIL provinciale; a Luciano Vecchia, ex operaio dell’Italdata e poi segretario provinciale dei metalmeccanici per 8 anni; a Raffale Solomita, ex operaio dell’Italdata, fra i più qualificati, e, nel contempo, fra i più bersagliati dalla direzione aziendale; dell’ottobre 2020 a Federico Rocco, leader operaio della SAMM, che, fra l’altro, ha gentilmente messo a disposizione il materiale documentario di riferimento preziosamente conservato, (che merita molto di più delle poche note che seguono). Cfr., inoltre, nel predetto archivio, copia della contrattazione Italdata-CGIL-CISL-UIL del 25 maggio 1987, presso la sede dell’Unione industriale, sezione metalmeccanica.
[6] Il dirigente aggiunge che probabilmente la filosofia produttiva della Fiat è stata errata, basata sulla convinzione «nessuna delle fabbriche fornitrici poteva dare alla Fiat più del 60% della sua produzione. Si pensava che moltiplicando il numero dei subfornitori ci sarebbe stata concorrenza fra di loro: quindi prodotti migliori e meno cari. Non è andata esattamente così: è andata che l’indotto di Torino è diventato gigantesco e caotico, mentre quello del Sud è stato per anni sacrificato».
[7] La marcia dei quarantamila quadri Fiat, cui si aggiungono cittadini torinesi durante il corteo, è promossa con assemblea cittadina dal caporeparto Luigi Arisio con le parole d’ordine «Il lavoro si difende lavorando» e «Vogliamo la trattativa». Essa interrompe il protrarsi del conflitto sociale e politico, che si svolge non solo in città ma in tutta Italia per protestare contro i 14.469 licenziamenti annunciati l’11 settembre (l’8 maggio era stata proposta la cassa integrazione per 78.000 operai; il 5 settembre ancora cassa integrazione per 18 mesi per 24.000 dipendenti, di cui 22.000 operai; caduta del governo Cossiga il 27 settembre; il 30 settembre, cassa integrazione a zero ore fino al 31 dicembre 1980 per circa 23.000 dipendenti sparsi in tutte le fabbriche Fiat del Paese). Alle spalle della marcia dei colletti bianchi (i colletti bianchi, per usare lo stigma del sociologo americano Charles Wright Mills): 35 giorni di picchettaggio operaio davanti ai cancelli della fabbrica; scioperi in tutte le aziende Fiat e scioperi di solidarietà in quasi tutti i settori produttivi nazionali; Berlinguer che ha annunciato la disponibilità politica del Partito nel caso gli operai e il sindacato volessero occupare gli stabilimenti.
Probabilmente la cifra di 40.000 è di gran lunga esagerata (è il segretario generale della CGIL, Luciano Lama, a indicare incautamente questa cifra, che la Questura aveva segnalato in 12.000), ma ha un valore fortemente simbolico, tanto da segnare l’inversione di tendenza rispetto al ’68-69: frattura fra le tute blu (gli operai) e il ceto medio (appunto i colletti bianchi).
Inversione di tendenza che sul piano teorico e comportamentale delle forze sindacali e della sinistra negli anni a venire si può sintetizzare come segue: la classe operaia non più variabile indipendente dalla valorizzazione del capitale, con diritti sociali inalienabili, ma variabile dipendente da neutralizzare e da rendere quanto più possibile precaria per vanificarne il potere contrattuale e affermare il solo valore del mercato (i sindacati chiuderanno la vertenza Fiat accettando le condizioni Fiat).
O inversione di tendenza, in termini più articolati, nei termini che Giorgio Amendola (il riferimento è anche a Lama), esponente di primo piano del PCI di quegli anni, che esprimerà in un infuocato dibattito interno: «Le rivendicazioni sono cresciute incontrollate, con un progressivo livellamento delle retribuzioni, in un esasperato egualitarismo, che contribuisce a mortificare, assieme ai nuovi sistemi di organizzazione del lavoro, ogni orgoglio professionale e senza che l’aumento dei salari sia accompagnato da un crescente aumento della produttività. […] in questi anni di crisi economica, i salari (delle categorie occupate) sono cresciuti in assoluto più dell’aumento del costo della vita. Si è voluto avvicinare il salario italiano a quello europeo, ciò che è pienamente legittimo, ma senza prendere l’iniziativa di una coerente politica di ristrutturazione produttiva dell’economia italiana. […] Non si è condotta una lotta coerente contro l’assenteismo, difendendo anche casi scandalosi, solo oggi rivelati chiaramente ed accentuando passivamente sprechi, parassitismi, esasperazioni corporative. […] Si è mantenuto alto il livello delle retribuzioni, imponendo allo Stato la fiscalizzazione degli oneri sociali. […] La stessa richiesta rivolta agli industriali del nord di spostare i loro investimenti nel Mezzogiorno presuppone uno sviluppo industriale del sud deciso fuori e dall’alto, dagli industriali del nord, effettuato e distribuito, con il contributo determinante dello Stato, in base alla spartizione delle varie aree clientelari tra i notabili democristiani, senza una programmazione autonoma e decisa delle regioni meridionali e fondata anzitutto sul rinnovamento e lo sviluppo di un’azienda moderna» (cfr. AA. VV., I mestieri del sindacato – Il dibattito di “Rinascita” attorno al caso Fiat, Editrice l’Unità, Roma 1982, pp. 40-41).
Può sembrare un paradosso, ma questa è la linea sindacale e operaia proprio della Samm, la cui conflittualità ha sempre tenuto conto della produttività e delle compatibilità del mercato, cosa senza la quale probabilmente non vi sarebbe stato il documento dei colletti bianchi.
[8] Cfr. Archivio privato di Federico Rocco. Merita riportare un fatto di vita interna di poche settimane successive che riguarda ugualmente operai e impiegati: il 24 novembre, il giorno successivo al terremoto disastroso che colpisce in particolare l’Irpinia, essi sono già al lavoro in fabbrica per garantire le forniture agli stabilimenti Fiat e impedire fermate di produzione.
[9] Il 12 giugno 1974, l’organo vicino alla Democrazia cristiana, la “Tribuna dell’Irpinia”, titola in prima pagina: «Esplode nella piana di Eboli il duello De Mita-Scarlato. Il parlamentare salernitano indiziato di reato quale presunto organizzatore della rivolta ebolitana, si è abbandonato a irresponsabili dichiarazioni contro il ministro Irpino [De Mita] che risponde serenamente al suo ex gregario».
Ricordiamo al lettore, che già nell’aprile del 1969, la piana di Eboli, è stata già teatro di una rivolta sanguinosa di massa generatasi dopo la notizia della chiusura di due opifici (un zuccherificio e una manifattura di tabacchi) che danno occupazione alla gran parte della popolazione della zona: (2 morti e 200 feriti, fra i quali oltre la metà da armi da fuoco; devastazione della stazione ferroviaria, incendio del municipio, centinaia di auto distrutte; assedio della caserma dei carabinieri e del Commissariato di polizia; cariche ripetute della polizia; intervento finale del governo per il riapertura delle aziende).
[10] Cfr. ACS, Min. Interno, Gabinetto 1971-1975, b. 278, nota prefettizia del 3 febbraio 1975.
[11] Il primo tipo di autobus sarà il 370, poi il 380 (pullman interurbano), il 491 (l’urbano), il pullman turistico (HD, Irisbus Domino), il pullman a corto raggio, il My way.
[12] Cfr. C. Ianniciello, Fiat Val d’Ufita – autobiografia di un quadro irpino, Elio Sellino editore, Avellino 2007, p. 28. Ringrazio l’autore anche per l’intervista concessa (ottobre 2020).
[13] Il grosso delle assunzioni avviene in Flumeri (160 unità) e, soprattutto, nei comuni limitrofi: Ariano circa 400, Grottaminarda 170.
[14] Cfr. interviste ad Antonio e Prisco Inglese (ottobre 2020), che ringrazio per tante informazioni di cui mi sono servito in queste note. Ringrazio altresì Dario Meninno, ex operaio Fiat, ora dirigente del Sindacato Provinciale Pensionati, che ha fatto da ponte per gli intervistati.
[15] Il caso più eclatante che diventa caso nazionale agli inizi di marzo del 1979 è quello di Antonio Pezzella, arrestato per violenza privata perpetrata contro un capo reparto. L’azienda lo aveva precedentemente mandato in trasferta a Suzzara in uno stabilimento di un paesino mantovano, per impedire che potesse fare l’agitatore sindacale. Pezzella si è imposto legalmente per rientrare, avvalendosi di una clausola contrattuale e di un errore della direzione del personale. Era stato operaio a Torino, per tre anni, nel reparto di Mirafiori, mitica fucina delle teste calde degli anni ’60. Arrivato come tanti dal Sud, cittadino ligio all’ordine, figlio di contadini cattolici praticanti che votavano Democrazia cristiana, aveva dalla sua anche una referenza particolare: per qualche mese, dopo la fine delle scuole professionali, in Germania, aveva lavorato in una fabbrica della NATO, che riparava congegni elettronici per le truppe americane nel Vietnam. Prima di arrivare a Torino, era stato solo uno dei tanti innocui disoccupati, non estraneo alla pratica delle raccomandazioni e per nulla interessato alla politica. Ed era stato proprio il reparto di Mirafiori la sua scuola politica, il cui alfabeto aveva imparato rapidamente nei suoi dodici giorni di prova, che avevano coinciso con altrettante giornate di sciopero per il rinnovo contrattuale, che, guarda caso, aveva avuto quale obiettivo prioritario proprio l’occupazione nel Mezzogiorno d’Italia, in cambio della moderazione salariale. Pur integratosi subito nella fabbrica e nella vita della città, il suo cuore batteva per le piazze e le strade del suo paese natale, Flumeri, in cui tornava appena poteva e il cui perbenismo voleva sfidare, da quando lo vedevano «da bravo giovane che era stato, guastato con i comunisti.» Quando aveva saputo della costruzione del nuovo stabilimento proprio nella sua terra, aveva indugiato qualche anno ancora a Torino e poi si era licenziato. Mai l’azienda lo avrebbe trasferito. Aveva scelto la strada della disoccupazione e si era iscritto al collocamento di Flumeri, per aspettare la nuova assunzione con la categoria 13, quella dei metalmeccanici generici, di diritto del suo paese natale, sul cui territorio era insediata la fabbrica. La spuntò. Fu fra gli ultimi assunti, benché fosse il primo in graduatoria.
Il giorno dello sciopero nazionale (per il rinnovo contrattuale e per protestare contro l’attentato delle Brigate rosse del giorno precedente alla scuola della formazione dei quadri dirigente Fiat) è memorabile e inatteso per tutti, padroni, capi, e operai. Gli operai del turno di entrata stanno ad ascoltare due tribuni improvvisati (uno dei quali è Pezzella), appollaiati in cima al cancello principale, quello della porta d’ingresso delle guardie che impediscono l’ingresso dei volantini che illustrano le ragioni dello sciopero. Poi, dopo qualche ora, sono gli operai del turno centrale a essere sedotti dai due tribuni. E, miracolo nel miracolo, nessuno va via, tutti si fermano a discutere, in capannelli continui e interminabili, nei quali si aggiungono altri tribuni che mai nella loro vita avevano parlato pubblicamente. Ed è così anche con il turno pomeridiano delle due. Il reparto dei carrellisti, semenzaio dei mestatori dell’azienda, prova a fare il gioco solito di intimidazione al cancello merci contro gli operai che picchettano l’ingresso. Il loro capo è un bresciano, assoldato dall’azienda con l’esclusiva funzione di crumiraggio. Un operaio avvisa Antonio e, immediatamente un fiume in piena si spostò verso i cancelli della provocazione. I carrellisti provarono a scappare, ma sono intercettati. Comincia furibonda la zuffa. Pezzella è addosso al capo dei carrellisti:
«Dovevi venire tu da Brescia per metterci gli uni contro gli altri!», gli grida in faccia. Un altro operaio, perché il carrellista senta meglio, gli allunga un pugno che lo stende a terra. Sembra che la cosa debba finir lì. La settimana successiva, nella notte fra il mercoledì e il giovedì, i carabinieri irrompono a casa di Pezzella. È la vittima sacrificale della zuffa, occasione d’oro per l’azienda e il capo del personale per disfarsene definitivamente
«Mi devi seguire un po’ in caserma!», dice il maresciallo con tono che vuole apparire rassicurante. Antonio pensa a un errore e, a sua volta, cerca di rassicurare figli e moglie sgomenti e ancora insonnoliti. Ma appena esce di casa e vede uno schieramento imponente di camionette di carabinieri, sbianca in volto e pensa a un attentato terroristico alla Fiat, di cui lo si voglia incolpare. Di lì a poco la stoccata:
«C’è un mandato di cattura per te. Ti portiamo nel carcere di Benevento».
Seguono: sei giorni di arresto in cella d’isolamento prima della libertà provvisoria, senza che la denuncia sia ritirata; un altro arresto non meno teatrale alla fine dell’anno, il 14 dicembre (quando si sta recando a lavorare alla SAMM, dove la CGIL è riuscita a farlo assumere); infine, un processo lungo che si chiuderà con un’amnistia, di cui Pezzella potrà beneficiare, solo perché i suoi avvocati riuscirono a smontare la tesi delle lesioni gravi causate dal pugno, come aveva dichiarato il capo dei carrellisti.
«L’arresto, la minaccia di tre, quattro anni di carcere, l’immagine di criminale! Tutto per un pugno seguito a una provocazione! E per di più, in assenza di ogni testimonianza, con il capo-carrellista che ha sempre dichiarato di non riconoscere in Pezzella il suo attentatore», arringa l’avvocato difensore.
Paradosso dell’eterogenesi dei fini: durante le udienze, Pezzella, il capo dei carrellisti e le rispettive mogli al seguito solidarizzano in quel processo farsa, che ha ben altri fini che punire la violenza privata. Nelle lungaggini processuali il capo dei carrellisti era stato scaricato dall’azienda, come tanti che avevano assolto al loro compito sporco. Il processo non interessa più a nessuno. L’arresto è servito all’azienda per mettere in riga gli insubordinati e mostrare agli altri chi comanda, che lo sappia o meno il procuratore che ha ristabilito l’ordine antico, che, come tutti i sacerdoti del torto, ha bisogno di solennità liturgica per celebrare la legge.
Per la ricostruzione di quanto sopra, cfr. intervista ad Antonio Pezzella (novembre 2015), Dario Meninno e Mario Inglese (ottobre 2020); “l’Unità”, pagina regionale campana, 25 giugno 1980.
[16] Cfr. M. De Leo, Metalmezzadri – La lotta degli operai dell’Irisbus [nuovo nome dell’azienda nata nel 199 dalla fusione delle divisioni autobus Iveco-Fiat e Renault], Mephite, Atripalda 2011, passim (prezioso per la prefazione, a c. di G. Picone, e per la scorrevole ricostruzione della progressiva crisi dello stabilimento (inizi degli anni ’10 del XXI secolo) e della tragedia finale occupazionale di migliaia di famiglie del vasto comprensorio.