di UGO MORELLI.

Inversioni affettive
Come ho sostenuto in Empatie Ritrovate. Entro il limite per un mondo nuovo, Edizioni San Paolo, Milano 2020, un altro mondo è possibile. Soprattutto perché il mondo così come lo abbiamo costruito finora è fallito.
Ce ne rendiamo conto in questo tempo di pandemia, in cui siamo costretti a sospendere l’insospendibile. Sì, perché, per animali naturalmente empatici quali noi siamo, sospendere l’empatia, che di per sé non è sospendibile così come non si può sospendere il battito del cuore o il ritmo del respiro, significa precipitare in una nevrosi che può divenire depressiva, o peggio.
L’empatia, oggi lo sappiamo, non è una scelta, e non è né buona né cattiva. Non è la morale il metro per considerarla.
Siamo esseri intersoggettivi che si individuano nelle relazioni corporee, sensoriali, tattili.
L’individuazione non appartiene a una fase della vita: inizia prima della nascita nella relazione con la madre e attraverso lei con il mondo, e prosegue finché siamo vivi.
L’empatia, ovvero la nostra risonanza incarnata con gli altri, è prima di tutto corporea e sensoriale, emozionale e fisica, perché possa esprimersi nella cognizione e nella consapevolezza.
Emerge nelle relazioni sensorimotorie con gli altri e il mondo ed è strettamente connessa ai nostri movimenti di avvicinamento e di allontanamento.
Sfiorare il seno con la mano mentre beve il latte è un gesto fondativo dell’essere per un neonato.
Un preludio commovente di tutte le carezze e le strette di mano, gli abbracci e le fusioni corporee che ognuno vivrà nella vita, tra vincoli e possibilità, eccessi e mancanze, paure e desideri, aggressività e dolcezza.
L’impossibilità del contatto fisico si propone, quindi, come una sospensione impossibile, eppure necessaria da mettere in pratica.
È forse questa la principale fonte del nostro disagio e della nostra sofferenza.
Nessuno è in grado di stimare le conseguenze di una situazione con queste caratteristiche, che si estende dalla primissima infanzia alla vecchiaia e depriva noi tutti di una delle fonti principali della nostra individuazione e del nostro riconoscimento. Basterebbe pensare alla deprivazione del labiale e del sorriso che dai neonati ai vecchi stiamo sperimentando in ragione della copertura della maschera. Siamo di fronte ad una situazione nella quale una spinta interiore che ci porta verso l’altro si interrompe e si inverte prima ancora di poter raggiungere la meta della propria aspettativa. Una vera e propria inversione affettiva, come ho scritto in Empatie Ritrovate.
Non ci si deve toccare, e per tentare di farcela a contenere la depressione si deve cercare di non pensare di non potersi toccare: una ulteriore sospensione in uno stato generale di sospensioni.
Se tutto il sistema delle aspettative è in crisi, dall’affettività primaria, al desiderio, alla progettualità, è verosimile ritenere che a pagare il prezzo più alto siano i bambini, gli adolescenti e i giovani, che vivono tempi della vita in cui la proiezione verso il futuro rappresenta la dimensione più rilevante delle esperienze. Le aspettative hanno a che fare con il pensiero del possibile e proiettano le strutture elementari dell’essere verso le nostre capacità creative, alla ricerca delle risonanze più significative con gli altri e il mondo. In questo senso le aspettative hanno a che fare con la bellezza intesa come esperienza di risonanza particolarmente riuscita in grado di estendere il mondo interno e le relazioni col mondo esterno in spazi di possibilità che senza quelle esperienze non sarebbero possibili.
È questo il livello in cui la pandemia agisce in maniera verosimilmente più perniciosa.
Si tratta proprio del livello che un progetto come “Di bellezza si vive” sta cercando di affrontare, sviluppando un programma di interventi sostenuto dalla Fondazione Con i Bambini. Può essere importante svolgere alcune considerazioni capaci di evidenziare come, in termini paradossali, il vincolo della pandemia intervenga proprio laddove un progetto di intervento mediante la bellezza, contro l’impoverimento educativo e contro i processi di emarginazione ed esclusione, cerca di agire.
Un altro mondo è possibile
Uno dei fallimenti più evidenti del modello di vita, di società e di economia attuale, è l’orientamento al passato e il tradimento delle nuove generazioni, la negazione delle opportunità e l’esaurimento delle risorse che sarebbe stato un loro diritto avere a disposizione. In ogni campo, da quello della disponibilità delle risorse di vivibilità, ai diritti, come quello al lavoro, alla casa, e in generale al futuro. La pandemia ha evidenziato le distorsioni di un modello di sviluppo insostenibile, basato sulla distruzione, sulla disuguaglianza, sull’esclusione. È necessario un orizzonte culturale per non perdersi e affrontare i vissuti apocalittici che il susseguirsi delle crisi di vivibilità ci fanno sperimentare. La principale condizione per realizzare un mondo vivibile sembra il riconoscimento e l’adozione del limite. Dopo essere diventati i padroni del pianeta, dobbiamo cercare di diventare i padroni del limite. Covid_19 non è stato una guerra, né un incidente di percorso, ma un’apocalisse, cioè una rivelazione. Solo considerandolo tale, cioè accorgendosi finalmente di cosa ha evidenziato possiamo pensare di affrontare le sue conseguenze con un’elaborazione generativa del trauma. Quello che conosciamo meno, di solito, è proprio ciò che è più vicino a noi. Il paradosso può aiutarci a vederlo. Con la pandemia abbiamo vissuto un paradosso doppio. Mentre prima avvicinarsi a una persona era un segno di amore e cura, con Covid_19 è stato vero il contrario: stare lontano è diventato un gesto di cura e di amore. Il secondo aspetto del paradosso riguarda l’intersoggettività. Mentre faticosamente si sta affermando la consapevolezza che è la relazione intersoggettiva che ci fa diventare i soggetti che siamo, abbiamo dovuto interrompere ogni manifestazione intersoggettiva. A rendere visibile la nostra condizione di crisi di vivibilità e sostenibilità sono stati, di fatto, un esperimento in tempo reale, una lente di focalizzazione, un evidenziatore, non progettati intenzionalmente. All’improvviso che siamo accorti di una evidenza: l’insostenibilità del nostro modello di vita.
L’esistente è fallito, con i suoi numeri sempre orientati al “di più è meglio”, fatti di indifferenza, ingiustizia sociale, disuguaglianza e volgarità, distruttive dell’ambiente e della cultura, del paesaggio e della memoria. Solo l’immaginazione creativa ci può portare a un mondo possibile e vivibile.
Padroneggiarlo vuol dire lasciarsi guidare dal limite, che è il principio generativo di ogni effettiva possibilità non illusoria e non distruttiva. Il limite, infatti, è in grado di indicare le condizioni e la misura per agire e fare qualsiasi cosa rispettando le condizioni stesse che rendono possibile quella cosa. Se vogliamo continuare ad avere l’acqua per vivere, ad esempio, la condizione principale e rispettare un limite d’uso che ne permetta e garantisca la riproducibilità. La principale responsabilità soggettiva e politica è, perciò, riconoscere il limite e porlo a condizione costitutiva di ogni possibile. Il possibile sarà in tal modo immaginato non tanto e solo come auspicabile, ma come effettivamente perseguibile, come anticipazione e innovazione, oltre le sole logiche del controllo e della sicurezza, a partire dai mondi interni di ognuno, della connessione al mondo esterno, e dal valore della libertà.
Abbiamo oggi relativa consapevolezza che tra il pensabile e il possibile intervengano non solo le resistenze e le difese ma anche i limiti della razionalità delle scelte. Si è rotto, insomma, il rapporto tra le due dimensioni, ammesso che quel rapporto sia stato mai lineare e non piuttosto auspicabile. Anche se il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso stessa pensa, la realizzabilità esige l’elaborazione di passaggi non sempre lineari e spesso critici.
Un trauma come Covid19, se ben elaborato, può aiutarci a tirar fuori da noi il meglio per riconoscere il valore del limite e la generazione di inedite possibilità. Quello che fin da ora sappiamo è che cambieremo come saremo capaci di cambiare. Non ci sono automatismi né garanzie derivanti dalla crisi che stiamo attraversando. La condizione principale per fare di necessità virtù è investire in eccedenza, è andare oltre. Dobbiamo cioè creare le condizioni per eccedere l’esistente e la forza dell’abitudine, che ci porterebbero a ricominciare esattamente come prima, replicando le condizioni che hanno prodotto la crisi pandemica e le emergenze degli ultimi anni. Se usciamo dalla nostra condizione di “non vedere di non vedere” e apriamo finalmente gli occhi, non sarà difficile comprendere come le emergenze che stiamo vivendo, dalla crisi climatica, agli tsunami, all’inquinamento ambientale, alla carenza di risorse e agli squilibri demo-economici, alle migrazioni, agli incendi catastrofici, alle tempeste distruttive, alle pandemie, sono una sola emergenza. Quell’emergenza si chiama insostenibilità.
Ragione poetica e senso del limite
Se poetica è la vita che ci tiene tra l’esistente e l’emergente, abitarla vuol dire sperimentare un particolare tipo di ragione, la ragion poetica appunto, che ci fa sentire più intensamente come l’emozione sia la via attraverso cui entriamo in rapporto col pre-individuale e con il mondo intero di cui siamo parte. Tra mondo interno e mondo intero si può creare un’armonia che finora, con la nostra disposizione a usare senza limiti il mondo, non si è mai creata. Da quell’armonia può scaturire una creatività in grado di generare un mondo vivibile basato sui principi della sostenibilità.
Per uscire dal tunnel della pandemia e delle emergenze che sempre più spesso ci troviamo a vivere abbiamo bisogno di un salto di qualità delle nostre capacità di apprendere e cambiare. In una frase semplice, abbiamo bisogno di imparare ad imparare. Noi siamo fatti per imparare e spontaneamente apprendiamo dall’esperienza fin dalla nascita e anche prima. Riflettere su come impariamo e sull’uso che facciamo della nostra capacità di conoscere è un’altra cosa. E’ soprattutto necessario riconoscere che non ci può più bastare apprendere per prova ed errore. Anche se quel modo di apprendere ha caratterizzato la principale parte della storia umana e ancora la caratterizza. Un salto di livello, del resto, lo avevamo già incontrato, ma anche da quella esperienza non abbiamo tratto il giusto livello di connessione con le altre situazioni globali e controverse in cui progressivamente siamo finiti a vivere. Con l’invenzione della bomba atomica noi ci siamo trovati di fronte a un cambiamento strutturale, a un salto di livello, appunto, nel campo degli armamenti e nell’espressione della nostra aggressività distruttiva.
Mentre fino a quel punto lo scopo perseguito era quello di inventare e disporre di armi progressivamente più potenti e di usarle per primi contro il nemico al fine di vincerlo e di ucciderlo, con le armi atomiche abbiamo scoperto che il loro uso ucciderebbe anche chi le usa e non solo il nemico. Quel salto di livello si è esteso oggi alla vivibilità ecologica della specie umana sul pianeta Terra. Noi sappiamo che perseverare in un certo modello di sviluppo e in certi modelli di vita è insostenibile e produce effetti autodistruttivi. Fino ad ora abbiamo evitato in tutti i modi di riconoscere le connessioni tra i fenomeni devastanti che produciamo e tra le emergenze che periodicamente e sempre più spesso si presentano. Resistiamo non solo a riconoscere di essere la causa delle emergenze con i nostri comportamenti e le nostre scelte, ma anche a connettere tra loro, ad esempio, riscaldamento climatico e migrazioni; regimi alimentari, produzione degli alimenti e pandemie; agricoltura industriale e emissioni di fattori inquinanti nell’atmosfera.
Eppure, quelle connessioni sono evidenti se solo si esce da una visione molecolare dei fenomeni e si adotta una prospettiva basata sulla complessità, riconoscendo così che è la relazione tra le parti e il modo in cui tutto è più volte intrecciato che ci può permettere di capire e di impegnarsi ad agire diversamente.
Sono proprio l’esercizio della ragion poetica, della possibilità di auto-progettarsi e di esprimersi, insieme agli impedimenti ad una seconda nascita, quella mediante la quale ognuno di noi nella vita trova la strada per diventare se stesso; e gli impedimenti a una terza educazione, quella attraverso la quale i progetti individuali riescono a stabilire un dialogo con i contesti della vita, a divenire difficili da realizzare nella contemporaneità. Le difficoltà già esistenti che da anni erano sotto gli occhi di tutti, sono diventate particolarmente più evidenti con la pandemia e mettono in serie difficoltà ogni tipo di progettualità possibile da parte delle giovani generazioni.
Seconda nascita e terza educazione
È sempre più urgente sviluppare la capacità di collegare le micromotivazioni individuali con i macrocomportamenti collettivi, in quanto ogni singolo gesto e ogni scelta si esprimono in effetti anche particolarmente rilevanti e spesso problematici a livello sociale e comunitario.
Il legame sociale tra noi e le strutture che ci collegano a tutto il sistema vivente, oltre la pandemia, ci richiede di imparare e riconoscere la necessità di una seconda nascita. Abbiamo bisogno di creare un umanesimo di secondo grado, insieme a una terza educazione.
La seconda nascita non è solo un’efficace metafora. Si tratta di un’effettiva possibilità che ognuno di noi ha a disposizione. Della nascita dai nostri genitori, infatti, non abbiamo responsabilità diretta. Tutto dipende da un processo relazionale e genetico che non ci vede coinvolti direttamente, se non come esito e manifestazione. Quello che ognuno di noi se ne fa della propria vita; quello che sceglie in ogni circostanza e situazione ci fornisce di fatto un’opportunità di seconda nascita. Possiamo, cioè, accedere a una forma di valorizzazione delle nostre possibilità e opportunità, come non avevamo mai fatto prima, sfruttando al meglio le nostre potenzialità e le circostanze disponibili. Le situazioni critiche si prestano particolarmente a questa apertura e a questi percorsi di emancipazione.
Tanto più è possibile accedere a una nuova inedita stagione, quanto più siamo sostenuti da una terza educazione. Ognuno di noi nasce in un habit in cui acquisisce più o meno tacitamente linguaggi, orientamenti di valore, criteri di scelta e conoscenze almeno in parte spontanee e ingenue. Quella prima forma di educazione è seguita, di solito, da un’educazione organizzata, quella scolastica, con programmi e contenuti di apprendimento guidati e influenti, quasi sempre obbligatori. Abbiamo una terza possibilità educativa, accanto alle prime due, questa volta caratterizzata da un principio di responsabilità e di scelta. È quella che chiamiamo terza educazione. Un’educazione in grado di aiutarci a comprendere i vincoli e le possibilità della nostra condizione umana in relazione con gli altri e il mondo. La terza educazione può contribuire alla conoscenza di cosa significa essere umani; di come conosciamo e apprendiamo, delle scelte che facciamo e, in particolare, del tempo in cui viviamo e delle nostre responsabilità. Si tratta, in fondo, della principale via per cambiare. Solo per questa via possiamo giungere a quello che possiamo chiamare umanesimo di secondo grado. Umanesimo, più che mai oggi infatti, dovrebbe necessariamente significare non più perseguire il primato dell’umano, ma assumerci la responsabilità di una specie che non solo sa, ma sa di sapere, per creare una vivibilità sostenibile con il sistema vivente di cui siamo parte.
Il valore della bellezza e della cultura
La pandemia ci ha messo di fronte a vincoli che ci hanno confermato e fatto utlterioremente scoprire il valore della cultura.
Dalla chiusura delle scuole, a quella delle librerie e delle biblioteche, dei teatri e dei cinema, delle sale musicali e di ogni tipo di seminari, incontri e convegni, a essere sospesa nelle nostre vite e nelle nostre relazioni è stata anche la cultura. Ha supplito come ha potuto la rete, soluzione tecnologica quanto mai opportuna, ma ognuno di noi sa e sente che non è la stessa cosa. Ce la facciamo bastare e sperimentiamo che siamo corpi che si incontrano e si scambiano menti relazionali situate nei contesti fisici delle nostre vite. Ma una cosa è l’informazione e il freddo apparire su uno schermo del volto dell’altro, un’altra cosa è la presenza con tutte le sue componenti di prossemica, di vitalità, di attrazione e repulsione, di cooperazione e di conflitto. La vita, insomma. È quella che si chiama eusocialità, con i compromessi, le approssimazioni, i giochi cooperativi, gli accordi e i disaccordi, ad averci reso gli umani che siamo. Stringersi la mano, un gesto che durante la pandemia non abbiamo potuto esprimere, è un simbolo evidente di cosa sia la vicinanza e di come si diventi quello che siamo, nel bene e nel male. Una domanda cruciale è stata ed è, perciò, come stiamo coltivando la nostra conoscenza, i nostri saperi, le nostre condivisioni, in questa esperienza di umanità limitata che il Covid19 ci ha imposto e ci impone. Riusciremo a elaborare la paura investendo in cultura e conoscenza, senza regredire – come rischiamo di fare – a uno stadio di chiusura vegetativa, in cui prevale l’egoismo e neghiamo l’eusocialità e la cooperazione? L’umanità per esprimere il meglio di sé richiede di essere coltivata. Di noi può venire fuori il meglio o il peggio in base agli humus culturali nei quali cresciamo e ci esprimiamo. Coltura e cultura hanno la stessa matrice nel “colere” latino, che richiama l’atto del coltivare. L’umanesimo è una risposta necessaria. Ma non sufficiente. Non si tratta di un concetto neutrale. “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, scrive in un verso il poeta latino Terenzio, ripreso da Michel de Montaigne. Anche la distruttività è umana, ad esempio; e un esame di realtà impegnativo quanto necessario è la condizione per un’emancipazione possibile mediante l’educazione e la cooperazione. Mentre attendiamo alla nostra sicurezza con le cautele necessarie, sarebbe di particolare importanza riflettere sulla funzione preventiva della cultura. In un paese in cui il disinvestimento in questo campo è stato clamoroso, fino a sentirci dire da governanti che di cultura non si mangia, alcuni sistemi locali si sono distinti, per l’attenzione alla cultura. È tempo di confermare e insistere per coltivare con la cultura la nostra comune umanità e i sistemi viventi di cui siamo parte.
Prospettive ristrette
Era stato Bohumil Hrabal a scrivere di “una solitudine troppo rumorosa”, ma anche “inserzione per una casa in cui non voglio più abitare”. I poeti vivono al di sopra delle possibilità e ci arrivano sempre prima. Non perché sanno prevedere il futuro, ma perché sentono il mondo più degli altri e sanno tradurre il proprio sentire in parole che, a loro volta, concorrono a fare il mondo.
Ora, alla prova della pandemia, la solitudine che siamo stati costretti a vivere è stata non solo rumorosa, di un silenzio spesso fragoroso, per chi come noi a quel silenzio non era più abituato o forse non lo aveva mai conosciuto. Ma sono stati, quel silenzio e quella solitudine, un esperimento di vita e di morte, di ascolto e di paura, la cui portata si rivelerà nel tempo. Come può accadere in una notte d’estate, seppur sempre più raramente, nelle situazioni in cui l’inquinamento luminoso è minimo, di rimanere a bocca aperta se non addirittura con un senso di timore, osservando il cielo stellato che sembra troppo vicino da farci vivere la sensazione che ci cada addosso.
Lo spazio domestico e la necessità di restare a casa ci hanno fatto vivere gli effetti della sincope dello spazio. Come in musica, una accentuazione di una nota in un tempo debole con suo prolungamento nel tempo forte che la segue ci fa sperimentare la riduzione ad uno del molteplice e la sua estensione perdurante, così lo spazio è sembrato concentrarsi in un pixel, alla maniera di certe fotografie della serie site_specific di Olivo Barbieri.
La forma della nostra esperienza è emersa, allora, in un gioco senza fine tra istituente – un inedito habit che ci si è cucito addosso ora per ora e giorno per giorno – e istituito, il cui perdurare nonostante tutto ha finito per somigliare sempre più a un guscio vuoto, simile a quelle pelli secche della muta di serpente che di maggio si trovano nei prati e che, se ben conservate, possono farci anche paura, ma non contengono più nulla. L’istituito a cui nel tempo ci eravamo consegnati, dai nostri rituali quotidiani alle istituzioni di appartenenza vicine e lontane, si è svuotato di referenzialità e siamo rimasti tutti più soli, con le nostre paure, aggrappati a legami salvifici cercati con diversi livelli di ansia. Si è ristretta la prospettiva del legame sociale insieme alle aspettative verso gli altri e il mondo che, non abbiamo più potuto toccare, la cui prossimità è diventata un pericolo, mortificando la tendenza a protendersi delle nostre mani e la propensione all’ariosità del nostro respiro.
Quando e dove sono usciti di senso
Per via paradossale, come già indicato, l’esperienza di deprivazione del movimento, della prossemica e dell’intersoggettività dovuta al Covid19, può essere letta come un enorme esperimento affettivo e cognitivo.
Al centro dell’attenzione e della deprivazione dell’esperienza è finita l’intersoggettività umana, cioè la via mediante la quale diventiamo noi stessi.
Interrompere l’intersoggettività e l’empatia che la sostiene è una fenomenologia impossibile, per degli esseri naturalmente sociali quali noi siamo, eppure realizzata con l’esperienza del Covid19.
Questo è il cuore della questione e il tema del libro, un tema di ricerca che pone molte questioni da esplorare e cercare di comprendere, in quanto è opportuno cercare di riconoscere cosa ci accade quando non solo le pareti di casa diventano insopportabili, ma la casa comune, il pianeta su cui viviamo, diviene inospitale perché tale lo abbiamo ridotto, e ci ritroviamo, come è accaduto, a interrompere ciò che non si può interrompere, l’empatia e la risonanza incarnata che ci rendono umani, cioè gli animali sociali che siamo.
“Quando” e “dove”sono usciti di senso, dopo i deliri del tempo reale e dei non luoghi. Il tempo, nei giorni del Covid19 si è dilatato a dismisura, evidenziando le nostre solitudini e la ricerca dell’altro come condizione per esistere. Lo spazio si è ristretto fino quasi a sparire, facendoci vivere sentimenti di claustrofobia e relazioni a volte forzate, a cui scopriamo di non essere più abituati. Tutto questo non è frutto di scelte ma di costrizioni e parlare di “comunità di solitudini” come ha fatto Massimo Recalcati non ha alcun senso; è solo l’ennesima frase ad effetto che non coglie il fatto elementare che una comunità è tale se è regolata dalla scelta di appartenenza in libertà. Chissà se riusciremo a capire che avevamo mortificato il tempo e preteso di neutralizzare i corpi, cioè le emozioni e gli affetti, subordinandoli a una macchina che da un certo momento in poi ha cominciato a girare con finalità proprie, e noi tutti la abbiamo alimentata assecondandola. Solo una critica puntuale e attenta degli effetti perversi di quel modo di vivere e lavorare ci potrà aiutare a cambiare. Non si tratta certo di riprendere o non riprendere. È chiaro che è necessario riprendere prima possibile. Da discutere con profondità e attenzione è come riprendere. Abbiamo bisogno fin da ora, ad esempio, di selezionare scelte, azioni, comportamenti che siano per una vita sostenibile e sufficientemente buona, e scelte e azioni che ci hanno portato fino a qui. Condizione indispensabile è ritenere il Covid19 un fattore analizzatore della nostra condizione complessiva, per quanto terribile.
La rimozione del limite
Come si dice in psicoanalisi, il rimosso ci può aiutare. E tutto il rimosso forse può essere riportato ad una parola. Una volta tanto una parola sembra poter bastare. Quella parola è limite. Mi pare di vedere nasi che si storcono, sopracciglia che si inarcano, in segno di fastidio o rifiuto. Se è così, lasciamo perdere con i buoni propositi. Se non è così partiamo dal considerare una verità elementare: non vi sono possibilità per noi, senza limiti. Detta diversamente è il limite la condizione di ogni possibilità. Posso continuare ad avere l’acqua, per fare un esempio, se stabilisco bene i limiti del suo uso, dal momento che l’acqua non è una risorsa infinita. Elementare, vero? La proposta allora è di diventare signori del limite, di adottare il limite come compagno sodale di ogni scelta, individuale e collettiva. Cosa significa? È necessario accorgersi che il limite non è solo un confine, ma è un ente di particolare importanza, un ente costitutivo, soprattutto come condizione di ogni possibilità. L’esperienza della pandemia ci ha mostrato con evidenza l’entità del limite. Abbiamo soprattutto compreso come il limite non possa essere sollecitato oltre una certa misura. Una libertà di azione e di relazione di tipo nuovo non può non tenere conto della misura e del senso della misura. Ci rendiamo conto che forse è proprio il senso della misura che abbiamo smarrito, seguendo senza controllo la nostra propensione ad andare oltre. Abbiamo neutralizzato persino la vergogna che avrebbe potuto proteggerci dagli eccessi e dalla volgarità, concedendoci all’illusione di essere invulnerabili e di poter usare in modo illimitato risorse finite.
Una libertà di tipo nuovo
Una libertà di tipo nuovo potrà derivare dall’apprendere ad apprendere la soglia del limite e a custodirla come fonte delle nostre effettive possibilità, in ogni campo.
L’attesa aurorale della possibilità esige l’elaborazione di almeno due condizioni:
- un esame di realtà delle determinanti delle situazioni tragiche che abbiamo vissuto e stiamo vivendo; tra stili di vita esasperati, modelli di sviluppo distruttivi e comportamenti a dir poco arbitrari rispetto ad ogni criterio di sostenibilità, non abbiamo tenuto conto di quali limiti stessimo sfidando. Se evitassimo quell’esame di realtà, cavandocela con i buoni propositi e le dichiarazioni di principio, senza affrontare i conflitti, cioè il confronto fra idee, conoscenze, interessi, valori diversi e spesso antagonisti, non genereremmo il cambiamento necessario;
- un affondo sulle nostre effettive capacità di elaborazione creativa dei conflitti, delle contraddizioni, alla ricerca di soluzioni sub-ottimali, partendo dal fatto che siamo capaci di creare quello che ancora non c’è. La discontinuità è necessaria in ogni campo, dagli atteggiamenti, ai comportamenti, alle azioni individuali e collettive, in campo economico, sociale, culturale, educativo, ambientale, personale.
Un’educazione sentimentale, in grado cioè di renderci più capaci di gestire le nostre emozioni, è probabilmente alla base del cambiamento necessario. Abbiamo fatto e stiamo facendo i conti con la paura e i disorientamenti che ci crea, fino al panico; ci siamo misurati e ci stiamo misurando con il dolore e con la rabbia; anche il disgusto per la difficoltà di accogliere un presente incontenibile ci attanaglia; abbiamo sentito e sentiamo le difficoltà ad ascoltare il nostro desiderio o la nostra capacità di ricerca dell’inedito, così come abbiamo avvertito il buio che ha vincolato e vincola la nostra giocosità e le espressioni dell’immaginazione.
Eppure, il primato della relazione e dell’intersoggettività che ci fanno umani, sono di fatto le risorse da cui partire e dalle quali far dipendere finalmente le regole per gestire la casa, cioè l’economia. Il primato della vivibilità del vivente è il riferimento necessario per un’economia che diventi finalmente bio-economia, all’insegna della sostenibilità e del limite.
Un’ecologia dei comportamenti umani
Vi è alla base di questa prospettiva, fondata sull’educazione sentimentale, una necessaria ecologia dei comportamenti umani, che divengano capaci di accogliere la vulnerabilità, la fragilità, il limite, la cura, come fattori da porre in conflitto generativo e costruttivo con la presunzione di immunità, con l’arroganza, l’aggressività, l’indifferenza.
Sono quattro le coordinate poste alla base della presente analisi. Sono provvisorie e più che scelte si sono presentate come inevitabili nei giorni della distanza e della privazione dei contatti che ci siamo posti come una inevitabile necessità. Da quella condizione estrema si può imparare.
A presentarsi a noi come criticità difficili da elaborare sono stati, in particolare, il tempo delle nostre vite, così cambiato nei giorni della crisi; lo spazio che si è ristretto e allo stesso tempo dilatato presentandoci un conto particolarmente difficile; le nostre mani che si sono ritratte neutralizzando una delle forme più consolidate del contatto umano fino a connotarsi di pericolosità; e il nostro respiro che da condizione esistenziale è divenuto fonte di rischio e di paura.
Quelle empatie interrotte parlano e indicano vie di particolare importanza per pensare a modi di vivere differenti, sostenibili e giusti; per accedere finalmente a empatie ritrovate.
Dipende da noi.
Dipende cioè da come riusciremo ad elaborare l’esperienza di deprivazione che stiamo vivendo, tenendo conto in particolare di quello che saremo capaci di apprendere rispetto ad alcune dinamiche che ci riguardano tutti, ma che soprattutto riguardano le generazioni più giovani e gli adolescenti e i bambini Dipende in fondo da quello che impareremo da alcune dinamiche che ho individuato come cruciali in Empatie Ritrovate e che sono qui di seguito sintetizzate:
- La mano, le mani: dai gesti limitati alla creatività possibile
Alle mani come arti noi dobbiamo una parte fondamentale della nostra storia. Quegli arti, combinati con la nostra mente, sono alla base dell’arte e degli artefatti della nostra vita. Sono soprattutto una fonte continua di legame con gli altri e di socialità. La pandemia è stata, tra l’altro, un esperimento che ha evidenziato, se ce ne fosse stato bisogno, con l’imposizione dei gesti limitati e la sospensione della possibilità di porgersi la mano, l’importanza vitale delle nostre mani. Le mani, come mediatrici con gli altri e il mondo sono una delle fonti principali della nostra capacità creativa e possono aprire a stili di vita e a gesti verso il mondo più appropriati e sostenibili.
- Il comune e l’immune: dalla paura di contatto alla piena vita di relazione
Ogni comunità ha da sempre avuto l’esigenza di avere confini. Le differenze con l’esterno hanno creato l’autonomia interna, come continua elaborazione tra hospes e hostis, tra communitas e immunitas. La pandemia ha ristretto il raggio delle relazioni quasi fino a zero, riportandoci al riconoscimento del vincolo che ogni protezione comporta, sia come perdita di libertà che di socialità. Costruire una socialità che contempli la vulnerabilità come condizione dell’intersoggettività e del valore della vicinanza, vuol dire riconoscere la presenza come dono e assumersi la responsabilità di custodirne l’unicità.
- Fame di aria: dal fiato sospeso al pieno respiro
Una funzione primaria come il respiro, e in particolare la possibilità di respirare all’aria aperta, fanno parte della dimensione spontanea degli habit della nostra vita. Spesso spontaneo finisce per voler dire scontato. Con la pandemia abbiamo scoperto la paura di respirare, di immettere aria vitale in noi, temendo il contagio. Una contraddizione radicale che può essere di particolare fertilità per porre attenzione al valore dell’aria e alla sua funzione vitale per la nostra esistenza.
- Solitudini connesse e presenze empatiche
Anche se molte e connesse, le solitudini non fanno una presenza. Noi umani siamo esseri intersoggettivi, ci affacciamo a noi stessi grazie alla finestra di comprensibilità che ci offre il volto e la presenza dell’altro. La risonanza con gli altri ha una dimensione incarnata e dà vita ai processi e empatici. Su di essi possiamo contare, e in particolare su una loro specifica valorizzazione per andare oltre la solitudine, dopo averla sperimentata in modi imposti e drammatici con l’isolamento della pandemia.
- Maschere o persone
Smascherare il virus ha voluto dire almeno due cose: riconoscere il legame tra eventi e fenomeni apparentemente distanti; immaginare un mondo senza pandemia. Una grande cecità ci ha impedito di vedere che da tempo stavamo andando in una direzione sbagliata. Abbiamo costruito molteplici tipi di maschere per cercare di non vedere. Poi sono arrivate le mascherine obbligatorie e hanno prodotto un grave disorientamento. Ora si tratta di vedere le persone dietro le maschere e creare condizioni per un’autentica reciprocità vicendevole.
- Tempo: dalla crisi della prospettiva al tempo vissuto
Il disorientamento derivante dalla disponibilità di tempo, fino a manifestazioni di disagio e difficoltà, ha evidenziato i disturbi con cui siamo giunti a vivere, riducendo i tempi di vita al cosiddetto tempo reale. Tutte le nostre prospettive temporali si sono manifestate ridotte a una prospettiva ossessiva di produttività separata dai tempi di vita. La pandemia ci ha messo di fronte a noi stessi, consegnandoci la necessità e l’opportunità di imparare un’armonia possibile nella gestione del tempo, in modo da appropriarci del rapporto tra tempo delle relazioni, tempo della vita e tempo di lavoro.
- Spazio, il mondo ristretto e i paesaggi della nostra vita
La presenza dell’altro e dei paesaggi della nostra vita, da quelli domestici ai nostri spazi di socialità, si sono all’improvviso presentati come un pericolo. Lo stesso è accaduto per i nostri spazi di lavoro. Ci siamo trovati a scegliere tra maggiore sicurezza e maggiore libertà. Imparare a vivere scegliendo le misure appropriate della nostra presenza vuol dire scegliere come e quanto incidiamo con le nostre azioni e relazioni, al fine di stabilire un rapporto sostenibile con l’ambiente e il mondo di cui siamo parte.
- Movimento e vivibilità: da un gioco dalle possibilità regolate alle relazioni senza filtri
Noi umani siamo esseri di movimento e al nostro sistema senso-motorio dobbiamo persino la nostra possibilità di pensare. Abbiamo potuto constatare, in una quotidianità ristretta, i costi degli impedimenti a muoversi, in un gioco dalle possibilità regolate. Le relazioni filtrate dalle regole ci hanno fatto vivere la mancanza dell’altro. Da quella mancanza può scaturire una disposizione alla sobrietà e una cura delle relazioni senza filtri, come bene primario, come compito di crescita e di socialità sostenibile.
- Giustizia sociale: le pandemie e le altre emergenze non sono uguali per tutti
L’uguaglianza delle opportunità è un proposito di giustizia sociale essenziale per ogni civiltà degna di tale nome. La pandemia ha mostrato il rischio di selezionare le possibilità di cura con pericolosi risvolti sulla parità dei diritti alla salute. Ciò è dipeso in buona misura da scelte precedenti che hanno ritenuto la salute un bene privato e non un bene pubblico, come di fatto è. Un apprendimento necessario derivante dall’esperienza della pandemia riguarda l’esigenza di tendere alla creazione di una prospettiva di vita in cui l’ecologia, la salute e la giustizia sociale siano considerati aspetti di un’unica questione e di un unico obiettivo.
- Di nuovo liberi, liberi in modo nuovo Un’agorà responsabile
È stata forse la libertà la principale vittima della pandemia. La libertà di movimento, di azione, di relazione, sono le caratteristiche che prima di ogni altro fattore fanno una società e una vita degne di essere vissute. Essere liberi in un modo nuovo, anche mettendo in discussione le forme di controllo sociale che si sono rivelate necessarie per affrontare la fase critica, vuol dire educare alla libertà e al suo valore in una prospettiva di democrazia responsabile.