VITE PRECARIE

di UGO MORELLI.

Nelle campagne lucane e campane, quando si voleva indicare la condizione di precarietà di una vita, si richiamava il lavoro di quella persona con l’espressione: “quello va a giornata”. Andare a giornata, voleva dire che ogni giorno la persona era nella condizione di cercarsi il lavoro e l’espressione non indicava solo l’attività svolta da quella persona, ma la sua intera condizione esistenziale. Un’etica e una prassi non violente, fondate sulla consapevolezza della vulnerabilità e precarietà della vita umana, ci potrebbe mostrare, oggi, come una più profonda comprensione del significato del lavoro e della violenza insita nelle sue forme attuali possa invece condurci verso nuove modalità di solidarietà e giustizia globale. La violenza con cui le forme dominanti del lavoro si presentano è distribuita a diversi livelli, che vanno dalla profonda alienazione esistenziale dei manager dell’alta finanza, fino agli schiavi del clic che lavorano per pochi minuti a commessa in cambio di pochi centesimi. Non meno precari sono i lavoratori cosiddetti stabili assunti da imprese che danzano al ritmo dei flussi finanziari internazionali, scavalcando regole statali e operando di fatto in una dimensione sovra-legale, in un terreno inedito costruito ad hoc per i propri interessi. Ciò vale per le imprese-mondo che dominano il mercato, ma anche per la miriade di imprese più piccole che tendono a quel modello.

Uno degli aspetti che raramente si considera è che la precarietà è anche una semiosi e crea un linguaggio, inducendo assuefazione e divenendo un’abitudine, con tutte le conseguenze in termini di adeguamento e consolidamento di intere cosmologie e modi di pensare e di scegliere. Una ex-studentessa o un’ex-studente alla fine di un dottorato di ricerca, a cui vengano proposte due contratti trimestrali, uno di 400 euro e l’altro di 500 euro, si impegnerà a scegliere tra i due e non a mettere in discussione la drammaticità di una scelta-non-scelta.

Il processo di precarizzazione in atto è una sorta di puzzle a cerchi concentrici. Dal cerchio più ampio della crisi di vivibilità causata dall’insostenibilità ambientale, economica e sociale del modello di sviluppo dominante, al cerchio più interiore e intimo dell’alienazione psichica individuale, passando per la crisi delle istanze intermedie e delle istituzioni di mediazione e contenimento. Dai processi di individuazione, alla manifestazione e gestione degli affetti primari, fino alla difficoltà a definire un senso di futuro, la precarietà si propone, quindi, come un codice interpretativo del nostro tempo, oltre che un elemento analizzatore di processi che attraversano gli aspetti più rilevanti dei nostri mondi vitali.

Siccome la precarietà è una condizione relativa, precarietà indotta è anche quella che si crea con l’ossessione dei consumi e dell’obsolescenza programmata dei prodotti. Ognuno è precario, in quanto perennemente insoddisfatto, rispetto a un modello che continua a cambiare sotto i suoi occhi e a porgli ulteriori e inedite mete di autorealizzazione attraverso i consumi, indipendentemente da ogni stima di utilità effettiva e di soddisfazione possibile. Tutto ciò fino al punto da identificarsi e individuarsi esclusivamente mediante gli atti di consumo, producendo così una semiosi coinvolgente e accecante, satura e triste.   

Ogni progetto di trasformazione e innovazione che voglia incidere in questa situazione deve probabilmente partire dall’esame di realtà della precarietà come condizione esistenziale e cercare vie inedite per farvi fronte, attraversandola.

Liberare il lavoro

Come l’angelo della storia di Paul Klee assunto a riferimento da Walter Benjamin, ci voltiamo indietro e vediamo le macerie che abbiamo prodotto. A fare quel gesto, senza difendersene più di tanto, possiamo finalmente osservare quanto arcaica e superata sia la nostra forma di vita, in non pochi campi. Dal movimento, all’alimentazione, ai consumi, al lavoro, le soluzioni dominanti nella nostra forma di vita risultano del tutto obsolete, distruttive, energivore, tali da non consentire la riproducibilità delle risorse e, soprattutto, ingiuste, causa di profonde disuguaglianze, volgari. Il virus pandemico evidenzia tutto questo alla stregua di un messaggio chiaro e indubitabile che la nostra appartenenza al sistema vivente ci invia. Ci muoviamo con mezzi inquinanti, acustici e dell’aria che respiriamo, distruttori di energie, rumorosi, pericolosissimi. Ci muoviamo freneticamente anche quando, come scopriamo in questi mesi, potremmo avere a disposizione altre soluzioni, almeno in un numero rilevante di casi. Ci mangiamo letteralmente il pianeta, con una disuguaglianza tra le più gravi e ingiustificabili, tra obesità e morte per fame, sprecando almeno un terzo degli alimenti e utilizzando modalità di distribuzione, dal packaging ai trasporti, particolarmente inquinanti e distruttive.

Un ambito in cui l’arcaicità della nostra forma di vita raggiunge un vertice particolarmente acuto è quello del lavoro.

La riduzione a un modello unico del lavoro ha finito per trasformarlo in un’ideologia con apparati normativi, sindacali, morali, che hanno tacitamente scalzato la pluralità delle forme e le differenze che nel tempo ha assunto la vita attiva, l’azione umana finalizzata alla produzione dei beni strumentali e simbolici. Emerge sempre più il rivestimento moralistico e interessato con cui il lavoro come destino, sfruttamento, fonte di disuguaglianza e mezzo per la distruzione ecologica, è stato e viene presentato. La forma dominante è stata reificata come necessaria e come l’unica possibile. Così è stata normata e organizzata, a parte rare eccezioni.

È necessario ricordarsi che solo la conoscenza della struttura di un fenomeno permette di interrogarsi in maniera pertinente sulle sue origini. La genealogia degli elementi costitutivi delle diverse modalità di lavoro e di rapporto di lavoro, fino alla sua riduzione ad una forma unica dominante, può consentire di riconoscerne le pluralità possibili e considerare le diversità delle forme del passato, gettando un ponte verso le forme attuali e possibili, per rispettarle e valorizzarle.

Le cose stanno cambiando, per fortuna, e liberare il lavoro oggi potrebbe essere possibile. Prima di tutto perché è difficile fare ancora come se noi umani fossimo isolati dal sistema vivente e superiori ad esso, e i non umani non fossero dappertutto nel cuore della nostra vita individuale e sociale. Sia che i non umani prendano la forma di un albero, di un moscerino della frutta, di una scimmia o di una barbabietola, di un’ascidia o di un lombrico, di un avversario elettronico nel gioco degli scacchi, di un algoritmo o di una foglia d’insalata, di un agnello mangiato a pasqua o di un bue trattato come sostituto di una persona in una cerimonia rituale, costituiscono la nostra vita e ne sono la condizione.

Il lavoro come forma di massimizzazione illimitata e distruttiva, risulta autodistruttivo, nel momento in cui scopriamo finalmente che la natura non esiste, se per esistere si intende qualcosa di diverso dai molti esseri naturali.

Lo stagirita lo aveva dichiarato esplicitamente nella Fisica: “Quanto a cercare di dimostrare che la natura esiste, questo è ridicolo; è evidente, in effetti, che ci sono molti esseri naturali” [Aristotele].

Le forme e le istituzioni del lavoro degli uomini non possono più considerare le interazioni tra gli abitanti del mondo, tutti gli esseri terrestri, come se tutto ciò che non è umano fosse un conglomerato anomico di oggetti solo in attesa di essere utile agli umani, di acquisire un senso agli occhi degli umani.

Sostenere l’unità natura-cultura umana non vuol dire negare le distinzioni della specie umana, ma anzi significa esaltarle in una direzione appropriata e sostenibile. La capacità di pensare il pensiero, di riflettere sull’azione, di anticipare in una certa misura gli eventi, di creare conoscenza documentabile e condivisibile, può essere la leva effettiva per assumersi la responsabilità, finalmente, di pensare e commisurare l’agire alla vivibilità sostenibile.

La transizione epocale che stiamo vivendo, dopo quella che condusse l’umanità dalla caccia e raccolta all’agricoltura, poi alla produzione industriale di beni e tecnologie, e in seguito all’era dell’informazione e della conoscenza, con il conseguente mutamento del paradigma energetico verso fonti rinnovabili, ci ha condotto a una società iper-connessa e digitale, nella quale il valore aggiunto è costituito dal tasso di conoscenza integrato nei beni prodotti. Un semplice esempio è dato dalla differenza tra il valore dei componenti materiali di un telefono cellulare e quello delle sue potenzialità informazionali. I problemi principali della nuova forma di vita sembrano essere l’accessibilità ingiusta e, connessa ad essa, il più grande problema sociale dei nostri giorni, la disuguaglianza, con immediate ricadute sulla cruciale questione della libertà.

Oggi l’analisi del lavoro si confronta, dunque, con una formidabile sfida: far scomparire il lavoro come destino e come condanna, insieme al contorno di un umanesimo ormai superato e da superare – solo il riconoscimento di essere terrestri ci potrà salvare e aiutarci a fare buon uso delle nostre distinzioni umane. Del lavoro riconosceremo allora la sua importante relatività, il pluralismo delle forme, il valore della memoria e la pervasività del codice attuale che è costituito dal digitale. Ne nasceranno, come è auspicabile, nuove forme organizzative e inedite prospettive di integrazione con prospettive di giustizia sociale, di creatività e di libertà. Il sogno di Francesco Novara.

Quello che non si fa rispetto a questa situazione è prendere la questione dal lato più opportuno ed appropriato. Quel lato é il lato dell’architettura e non dell’archeologia. Si tratta cioè di considerare che per affrontare il tema del lavoro è indispensabile cambiare il paradigma con cui si considera l’esperienza lavorativa nella vita umana. Quel cambio di paradigma non è necessario inventarlo, basterebbe riconoscerlo nelle azioni, nei fatti e nei comportamenti che si manifestano da alcuni decenni, e con particolare intensità nella trasformazione digitale. A ben pensarci stiamo tuttora utilizzando categorie interpretative e norme relative al lavoro proprie delle società e delle economie industriali o pre-industriali. 

L’etica e la visione del lavoro che tuttora persistono, non corrispondono più al mondo in cui viviamo e i disagi che intorno al lavoro si strutturano sempre più ampiamente e progressivamente devono essere intesi come le ricadute individuali e collettive della persistenza di ideologie e prassi che non trovano più e non troveranno mai più corrispondenza con il mondo in cui viviamo. Quell’etica e quelle prassi corrispondono all’epoca del materiale e del tangibile, mentre noi viviamo nel tempo dell’immateriale e dell’intangibile. Persistere con forme riparatorie e assistenzialistiche ispirate all’epoca del materiale e del tangibile significa di fatto ostacolare la trasformazione e aumentarne i costi. La metafisica del lavoro, la sua concezione trascendentale, come ogni dimensione trascendentale, ostacola di fatto la presa di coscienza e finisce per tenere le soggettività e le collettività sotto scacco, per bloccare la società, in una posizione che non può che essere carica di disagi, di processi di emarginazione, di nuove schiavitù, di fatiche e di progettualità monche. Le nuove forme di schiavitù, in particolare quelle degli schiavi del clic, sono principalmente l’esito del fatto che noi continuiamo a guardare al lavoro con la testa rivolta all’indietro e non avanti.   Questo comporta che stiamo assistendo a tutti i processi di marginalizzazione che dai gap tra individui, forme di vita e possibilità di esprimere una vita attiva si producono e si diffondono. Se si ascoltassero le espressioni più evidenti del rapporto tra le giovani generazioni e il lavoro e si prestasse attenzione ai modi di intendere la vita attiva combinati con i processi di digitalizzazione del mondo in cui viviamo, si volgerebbe probabilmente lo sguardo alla ricerca delle condizioni per tutelare, organizzare e sviluppare il lavoro in direzioni corrispondenti alle forme di vita della nostra contemporaneità. Tutto questo vale soprattutto nella connessione tra lavoro, crisi ecosistemica e vivibilità oggi. Non bisogna trascurare il fatto che l’etica dei nomadi raccoglitori e cacciatori e l’etica del lavoro agricolo e industriale sono state sostenute e dominate dalla posizione che assumeva la fatica e il destino come premesse per agire le vie per domare e dominare la natura, posta come nemica e comunque esterna agli umani. Niente di più lontano dal tempo in cui viviamo, allorquando siamo divenuti i pericolosi e pervasivi dominatori del pianeta, the master of the planet, come sostiene Ian Tattersall, energivori oltremodo e onnivori ancor di più. Accecati rispetto all’evidenza che il digitale può divenire la via effettiva per la sostenibilità, arranchiamo nei labirinti di vecchi paradigmi e ribadiamo ad ogni livello la necessità di ripristinare vecchie forme della vita lavorativa, finendo per difendere una roccaforte sempre più ridimensionata, quella dei garantiti e del posto fisso, e non riuscendo a vedere, lasciandole non tutelate e non organizzate, le forme che emergono e avanzano. 

Nel frattempo la persistenza delle politiche pubbliche, delle forme organizzative di imprese e dei modi di agire del sindacato si configurano di fatto come azioni che impediscono l’emergere del nuovo e fanno da ostacolo alla creazione di possibilità lavorative, di progettualità individuali e collettive e di forme di vita in cui il lavoro non sia inteso come una condanna, una espiazione delle colpe, l’unica fonte di identificazione individuale, un destino lungo quanto la vita stessa, una situazione estesa quanto il tempo migliore della vita a cui sottoporsi per essere qualcuno, per avere dignità sociale, per essere socialmente accettati e riconosciuti. Intanto che si persiste in questa prospettiva arcaica e sostenuta con molteplici investimenti di natura assistenzialistica, non si presta attenzione a come si potrebbero organizzare le forme nuove che assume il lavoro, a come si potrebbe liberare il lavoro e le molteplici modalità sostanzialmente schiavistiche con cui le nuove forme non tutelate vengono trattate, come il lavoro potrebbe essere concepito in un modo laico e divenire quello che da sempre è, cioè un dato originario interno e una delle forme dell’azione umana e della vita attiva. Se si sceglie la strada nel cambio di paradigma si profila immediatamente un’amplissima rete di opportunità di innovazione sociale e relazionale, di inedite strutture di legame che possono integrare in forma solidaristica e armonica il lavoro nell’esperienza e le esperienze in forme di vita sociale basate sulla creatività e sulla giustizia. Il digitale è l’effettiva opportunità rivoluzionaria che abbiamo in mano per ridefinire il lavoro, sottrarlo al carico moralistico con cui è stato proposto nel corso del tempo e per cercare di organizzarlo ponendo al centro la soggettività umana e i significati che l’azione finalizzata e i processi cooperativi tra persone possono fornire come fondamenti di nuove forme di vita sociale e collettiva.

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