di UGO MORELLI.

Non sono un critico letterario, né tanto meno un poeta. Solo uno che di mestiere cerca di capire qualcosa di come si esprime, vive e sente un essere umano, di cosa significa essere umani.
Mi avventuro perciò, in questo breve testo, nel tentativo di ascoltarmi e comprendere perché ho disagio e sto spesso male, quando certi testi o recitazioni che si presentano in forma di poesia mi raggiungono.
Sento e penso che il sintomo da analizzare sia la falsità.
Un particolare tipo di falsità, frutto di convinzione di chi la propone e di compiacimento di chi la riceve, che fa lo stesso gioco del primo.
Ecco che si impongono subito chiarimenti per nulla facili.
Mi riferisco alla sollecitazione funzionale a generare commozione mediante l’uso di parole e frasi calcolate.
Mi riferisco a qualcosa di molto diverso dal dire o scrivere il falso.
Mi riferisco ai riferimenti esibiti di forme di parole che vogliono agganciare la nostalgia e la malinconia e ci riescono, suscitando compiacimento e emozioni di seconda mano.
Mi riferisco alla ripetizione di canoni che mostrano di funzionare sempre, basta richiamarli.
Mi riferisco alla contemplazione delle rovine che esaltano il tempo che fu, indipendentemente da come realmente fu.
Mi riferisco all’uso delle metafore che non sono vive, ma morte e per questo emanano contriti e partecipati sentimenti di destini ineluttabili.
Mi riferisco alla dolenza necessaria esibita come matrice del poetico.
Mi riferisco all’uso ricercato delle parole giuste per sollecitare sospiri.
Mi riferisco all’enfasi sui luoghi trasformati in simulacri purché lasciati intatti nel loro dgrado.
Mi riferisco alla religione della terra che denuncia l’umana cattiveria.
Mi riferisco alla contemplazione dei resti e della decadenza come ispirazione.
Mi riferisco al sussurro di emozioni tanto al chilo per tappezzare le pareti della coscienza e abbellire di trofei le proprie case.
Non mi riferisco al fare dal nulla
Non mi riferisco alla ferita che distilla sentimenti in forma di parole
Non mi riferisco all’inquietudine
Non mi riferisco alla mancanza come baratro e utero generativo
Non mi riferisco alle scaturigini rocciose di sofferte sassifraghe
Non mi riferisco al canto sommesso che diventa universale
Non mi riferisco al margine o alla soglia su cui sporgersi con vertigine
Non mi riferisco al travaglio di venire al linguaggio
Non mi riferisco al pudore da traduzione mancata in parole risuonanti
Non mi riferisco all’ascolto calmierante della vergogna
Non mi riferisco all’attenzione al valore del silenzio turbato dalle parole
Non mi riferisco alla parola che si staglia e taglia la consuetudine
Non mi riferisco al dolore del tempo reso accessibile agli altri
Era il 1925, e in Ossi di seppia, Eugenio Montale scriveva I limoni:
“Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto tra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le piante che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni”
Era il primo aprile 1932, e Fernando Pessoa scriveva Il poeta è un fingitore:
“Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente”
E Osip Mandel’stam, a sua volta, scriveva, in Epoca:
“Per scioglier l’epoca dalle catene,
per dare inizio a un mondo nuovo
bisogna, a mo’ di flauto, unire insieme
le piegature dei nodosi giorni”