Con gli occhi di una ragazza: riflessioni sul libro”Paesaggio con rovine” di G.Picone

di Giulia Di Cairano*.

“Nebbia e fumo non so darvi il profumo del ricordo” canta Guccini nella sua Piccola città, rivolgendosi apertamente a Modena, la città natale che definisce “nemica strana”. Il brano, estratto dall’album Radici del 1972, viene ascoltato a chilometri di tragedie di distanza da un adolescente avellinese e diventa per lui “colonna sonora di una giovinezza in provincia”. Entrambi sono accomunati da speranze e sogni troppo grandi per il dopoguerra, nel caso del cantautore, e per una città “sonnolenta” come Avellino, così descritta dal giovane irpino. A destarla è, disgraziatamente, il terremoto del 23 novembre 1980, un risveglio tanto violento quanto dimenticato, sciolto in un nuovo sonno che giunge fino ai nostri giorni. L’oblio di chi ha vissuto direttamente o per riflesso questa catastrofe impedisce, insieme a molto altro, di rispondere a domande rimaste aperte, ma anche riproposte in altri drammi, e di affrontare la triste e ignorata realtà di un terremoto infinito.
Eppure il ragazzo avellinese di Piccola città non si arrende. È lui, Generoso Picone, ormai affermato giornalista e scrittore, ad indagare su “un avvenimento lontano e avvolto nella nebbia dei ricordi confusi”, a cercare instancabilmente risposte, o piuttosto una sola: la verità. Lo fa nel suo ultimo libro, Paesaggio con rovine. Cariche di perturbante freudiano, le rovine generano un sentimento ibrido tra l’angosciosa estraneità presente e la rimossa familiarità passata. Infatti, come spiega l’architetto Nimis, curatore della ricostruzione in Friuli dopo il ’76, i terremoti sono le catastrofi dimenticate più velocemente.

Il centro storico di Avellino dopo il terremoto del 1980

A causarlo sono l’ansia che provocherebbe la consapevolezza di vivere su una terra precaria, il dolore dellabmemoria e l’oblio istituzionale. Indubbiamente, essendo l’Irpinia una zona fortemente soggetta a scosse telluriche, all’ansia perpetua di abitarla si preferisce un’inutile e deleteria noncuranza, la quale si mescola alla “memoria rielaborata e inventata”, in quanto i traumi, bloccando il sistema di elaborazione del cervello, vengono assorbiti così come sono stati vissuti, con le stesse dolenti sensazioni che risultano inenarrabili. Tuttavia in questo modo si perde di vista l’essenza delle rovine e della terra stessa, modellando un flagello che si sceglie di “non condividere ma parcellizzare, non elaborare ma continuare a subire”. Picone sottolinea dunque la necessità di una “memoria piena e vissuta” e di “un’autobiografia del terremoto” poiché, come lui stesso afferma, “io sono il luogo nel suo abbandono, nella sua incompletezza, nella sua precarietà congenita”. Sicuramente non giova annoverare i terremoti, così come le altre calamità naturali e anche le pandemie, nell’elenco di eventi imprevedibili, impensabili ed irreparabili, considerarli il cigno nero metafora dell’imponderabile nella teoria di Nassim Nicholas Taleb. Piuttosto sono da valutare nell’ordine naturale della realtà e purtroppo a distanza di decenni non si è ancora entrati in quest’ottica, come dimostra la strage di Amatrice, nonostante le declamate campagne di prevenzione e sensibilizzazione seguite a ritardi ed inadempienze intorno a quel 23 novembre.
Il peggio è la metamorfosi del terremoto in scandalo, così definito dall’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e da molti altri. Addirittura ne vengono fuori due neologismi che prendono in prestito dall’inglese e dal greco dei suffissi sinonimi di corruzione: Irpiniagate e Terremotopoli. Questi sono costruiti sull’orrido elenco senza fine di abusi e speculazioni, familismo e clientelismo, stilato da chi ha tratto profitto dalla disperazione e dalla devastazione del sisma. Eppure le vittime restano senza colpevoli e la catastrofe diviene il mezzo di recupero di un “antico e sempre valido stereotipo del Sud corrotto e sprecone per rubricare in maniera disinvolta l’identità del Mezzogiorno come irrimediabilmente e totalmente refrattaria a regole, leggi, comportamenti, ordinamenti, valori, trasparenza, etica e morale”. Alimenta cioè il pregiudizio antimeridionalista e la teoria dell’inferiorità razziale, secondo cui il problema del Sud è antropologico, innato. Sennonché al viluppo post terremoto prendono parte tanto “fantomatici imprenditori del Nord” quanto “furbi affaristi del Sud”. Lo scempio che ne scaturisce viene persino definito “ricostruzione”, mentre vengono ignorati i progetti di reale cambiamento del Mezzogiorno e smarriti i libri che raccolgono i risultati di accurate indagini, come quelle guidate dal meridionalista Manlio Rossi-Doria, il quale rinomina terre dell’osso le zone interne del Sud, spopolate e poco fertili.

Per risolvere i numerosi problemi attecchiti in queste terre da millenni servono, secondo Rossi-Doria, “l’intelligenza, la cultura, la libertà, la critica, oltre alla solidarietà e al rispetto del legame civile”. Ad oggi però ancora non si ha la polpa delle pianure e delle aree agricole più sviluppate. Il sostegno verso i terremotati, rivelatosi terapeutico e purificante per le coscienze altrui, lascia posto alle estrazioni dai paesi miniere che una volta esauriti sono paesi fantasma, a cui manca solo una rotolacampo in mezzo ai territori deserti con le insegne ingiallite per richiamare i certamente più noti luoghi della cinematografia western. C’è chi edifica l’Irpinia su un fittizio passato incorrotto e glorioso, su un utopistico scenario bucolico strappato dalla scossa del decimo grado della scala Mercalli, e c’è chi erge questa terra sulle strutture architettoniche dal forte impatto visivo quanto dall’incongruente variabilità di stili. Ma ha senso comportarsi come gli abitanti della Maurilia di Italo Calvino oppure ostentare un progresso dal cui fluire si è alieni? La società odierna persiste nel coniugare il verbo scambiare e non cambiare. Costruire pare ignoto.
Però ci sono i giovani e proprio in loro occorre confidare.

Loro, piegati ad una comunicazione tautologica, scevri di un’esperienza unica e personale, possono elicitare il proprio io attraverso gli stimoli ricevuti a partire da questa terra. Loro inizierebbero a lottare se solo sapessero delle miniere di Altavilla e Tufo, chiuse nel ’83 ma ferme nei monumenti industriali della valle del Sabato, o della concia a Solofra e degli scarichi chimici nel fiume Sarno e poi nel golfo di Napoli. Combatterebbero se apprendessero dell’ingiustamente dimenticata Isochimica di Avellino, la fabbrica dell’amianto causa di morti e “vivi a scadenza”, anch’essa chiusa ma con sotterrati nella zona 500 cubi attorno al materiale tossico. Si turberebbero nel digitare su Internet i nomi di clan camorristici menzionati al passato nel libro e leggere che “operano” e non “operavano”. Picone scrive che “riconoscersi significa disingannarsi”. Per ridare dignità alle vittime del terremoto, ma anche ai morti da Covid, affinché il loro non “resti un sacrificio assai poco rispettato”, forse il solo modo è un esame di coscienza. Il dolore non può essere calibrato in numeri, in statistiche menzognere, perché la morte sfugge alla burocratizzazione, alla sterilizzazione, all’addomesticamento. Non bastano “l’applicazione delle categorie interpretative giudiziarie e le considerazioni sulle strumentalizzazioni giornalistiche e politiche”. C’è qualcosa che va oltre e che Generoso Picone accoglie tra le pagine del suo libro, un testamento del sisma che dovrebbe avere uno spazio in tutte le scuole della provincia per mettere a conoscenza gli adolescenti di sé e della propria storia, per renderli liberi di volare non altrove ma nella loro matria. È il 23 novembre 1980. I ragazzi irpini ascoltano Radio Alfa 102 quando il brano folk viene interrotto improvvisamente dal boato del terremoto in “un istante lungo quarant’anni e novanta secondi”.
È l’11 marzo 2020. Nelle radio italiane viene trasmessa la dichiarazione dello stato emergenziale sul suolo nazionale e all’ascolto ci sono anch’io.
Sono le origini di due rovine: due insegnanti in cerca di alunni.

*alunna della classe 3 A del Liceo Scientifico di Calitri


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