di CARLA PERUGINI.
Con la crudele sincerità dell’infanzia la piccola Francesca definisce “guasto” il vecchio vicino Renato, a cui spesso i suoi giovani genitori l’affidano. È questa la prima pietra d’inciampo negli affettuosi rapporti che legano le due famiglie, sassolino che si trasformerà in una valanga di recriminazioni, violenza e denunce, protrattasi per molti anni. Ma se il giudizio della bambina era obiettivo nella sua crudezza (il cervello e il comportamento del vice nonno non corrispondono più a un parametro di sanità mentale e fisica), quello del padre, Lucio, è assolutamente arbitrario (c’è stato un abuso sessuale), dettato da quei pregiudizi che sono in parte giustificati dai frequenti episodi di cronaca nera, in parte dal patriarcale senso di possesso che il maschio ha nei confronti delle sue femmine, e non solo.

Infatti di amore malato sono affetti un po’ tutti gli abitanti del condominio di cui ci narra l’ultimo film di Nanni Moretti, Tre piani, liberamente ispirato a un romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, e che al festival di Cannes ha ricevuto un’entusiasta ovazione. Le relazioni affettive fra i vari personaggi (interpretati da ottimi attori italiani, fra cui alcune icone di Moretti come Margherita Buy), sono evidentemente compromesse da quel “non detto” che spinge uomini e donne a non proferire le parole autentiche (come il “guasto” della bambina), quelle che potrebbero salvarli dall’ipocrisia in cui trascinano rapporti pur importanti e duraturi, la cui manutenzione però richiederebbe ben altro che la reiterazione di moduli quotidiani di convivenza familiare. Perché il quieto vivere verrà prima o poi sconvolto dalla tragedia: con la morte di una passante per colpa di Andrea, figlio dei giudici del terzo piano, Vittorio e Dora, si scateneranno una serie di conseguenze non solo penali ma relazionali, fra genitori e figli come fra mariti e mogli, tra fratelli come tra vicini, che faranno scoppiare gli equilibri, riducendoli a quei frammenti di vetro che, nella prima scena, provoca al pianterreno l’incidente della macchina guidata da Andrea, in piena crisi etilica.
E scoppia anche la follia della giovane mamma solitaria, Monica, una straordinaria Alba Rohrwacher, sempre lontana dal marito e con una madre malata mentale, che era riuscita a proiettare le sue paure su un enorme immaginario corvo nero, transfert necessario per dare loro corpo senza abbandonare a un fatale destino la prima bambina e il secondo, nato quando ormai il marito s’è reso conto della necessità della sua presenza, e a cui lascia (non sappiamo se senza speranza) quei compiti di accudimento e di riconciliazione a cui s’era fino ad allora dedicata.

Perché poi un altro tema del film è quello della cura, che qui come nella realtà tocca quasi sempre alle donne, ma senza schematismi manicheistici, perché alcune nobili figure, come il marito della donna uccisa che non prova rancore e accetta i tentativi di avvicinamento del giovane assassino, nonché il responsabile di una associazione per rifugiati che poi si rivela essere il padre della compagna di Andrea, questi maschi dunque riscattano abbondantemente le meschinerie di altri.
Ma in fondo, quello che salva il piccolo nucleo di umanità che ci rappresenta tutti, sono i bambini, che continuano a venire al mondo inconsapevoli e indifferenti rispetto a quel guasto che li aspetta, ma dove, tuttavia, una colorata schiera di ballerini di tango, accompagnati dalla musica suonata dal vivo su un furgoncino, dona un tenue finale di speranza a chi sta già sulla strada e a chi quella strada la sta cercando, sulla soglia ormai del condominio, con le valigie a terra, pronte al viaggio.
