di Ugo Morelli.

Le imprese e le istituzioni devono la loro esistenza nel tempo e anche la loro vitalità all’interscambio con l’ambiente, in una parola alla loro porosità.
La porosità, di cui si è occupato anche Walter Benjamin raccontando Napoli e la tolleranza e la permeabilità che aveva constatato attraversando quella città, è anche quel che consente alle imprese, alle istituzioni e alle organizzazioni di essere vive e vitali, apprendendo e prendendo dall’ambiente e scambiando con l’ambiente quel che producono e esprimono come servizi. Non solo, ma anche tutto ciò che le persone che vi lavorano assorbono e rilasciano, ciò che vivono non solo all’interno delle imprese, ma anche ciò che sperimentano oltre i tempi del lavoro, per le influenze e i condizionamenti che l’esperienza lavorativa esercita in ogni ambito della vita, sia a livello psicologico che materiale.
La porosità è certamente la questione in quanto indica il volume degli spazi vuoti, quelli lasciati al possibile, a quel che può essere, a quel che sarà. Quel vuoto è lo spazio dell’apprendimento, quello delle relazioni discrezionali, che fanno funzionare ogni istituzione e ogni organizzazione. La porosità non agisce solo, però, come penetrabilità di un organismo o di un’impresa, ma anche come impenetrabilità dovuta ai meccanismi di difesa e alle resistenze verso l’ambiente.
E anche come indifferenza, ovvero negazione deliberata della risonanza con gli altri e l’ambiente.
Oggi la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale sono associabili in particolare alla deliberata negazione della porosità: le imprese prendono dall’ambiente quel che serve, ad libitum, e praticano soprattutto la difesa e l’indifferenza quando si tratta di essere per l’uomo e la comunità, come avrebbe detto Adriano Olivetti.
Tra le tante esperienze di porosità riuscita o negata, dove ciò che si vive all’esterno dell’ambiente di lavoro viene poi portato da chi lavora al suo interno e dall’interno nuovamente verso l’esterno, c’è la questione della salute e del benessere delle persone. Un’esperienza troppo spesso rimossa, taciuta, negata, ma pure condivisa, narrata, affrontata, se non altro nelle relazioni di prossimità, che genera ansie e paure.
In questi ultimi due anni, specialmente in alcuni territori, la malattia da Covid_19 ha attraversato parecchi luoghi di lavoro in modo impattante e collettivo; generalmente, però, prima di allora e tuttora, si è manifestata come esperienza di una singola persona, come solitudine, che solo in contesti solidali è diventata esperienza condivisa, di un gruppo, di un reparto, di un’intera impresa.
Se si considera un importante contributo di ricerca del 2009, di Richard Wilkinson e Kate Pickett (entrambi docenti e ricercatori universitari inglesi), La misura dell’anima, Feltrinelli, Milano 2009, risultato di almeno tre decenni di raccolta dati e ricerche, si può comprendere come sia la disuguaglianza la madre di tutti i malesseri sociali. Siamo infatti abituati a pensare che la crescita economica abbia l’effetto automatico di rendere una nazione più sana e più soddisfatta. Ma oggi non è così, perché i malesseri generati dalla disuguaglianza non coinvolgono tutti alla stessa maniera: sono i ceti più svantaggiati a pagare il costo più alto, non coloro che si collocano al vertice della scala sociale, in un tempo in cui la forbice della disuguaglianza è sempre più simile a una linea retta (si veda anche: Thomas Piketty Come evitare il peggio. L’economia dopo il Coronavirus. Scaricate il PDF qui).

Questa storia che il virus sia “democratico” è quanto di più ideologico si sia sentito sostenere in questi due anni. I dati ci dicono che, se è vero che il virus raggiunge tutti, non tutti hanno la stessa possibilità di non farsi raggiungere dal virus o di curarsi una volta raggiunti. Né a livello di paesi e popolazioni, né tanto meno a livello di singoli gruppi di popolazioni o organizzazioni. Proprio seguendo Wilkinson e Pickett e alla luce delle tesi di Amartya Sen, sono le accessibilità alle opportunità che determinano le disuguaglianze, prima ancora che la disponibilità dei mezzi relativi.
Le politiche pubbliche e quelle sanitarie hanno disinvestito pesantemente dalla tutela e prevenzione della salute in nome della spending review e dell’affermazione dell’individualismo iperliberista che sono divenute ideologie. Covid_19 ha potuto agire come ha agito principalmente per il disinvestimento nella medicina territoriale, quella che aveva riguardato e riguarda l’accessibilità per la maggioranza della popolazione; proprio quella che è stata smantellata (si pensi al ruolo del “celeste” come presidente della Lombardia). Sovrapponendo i dati delle morti per Covid_19 ai territori in cui di più ha agito la logica dello smantellamento della medicina preventiva si ottengono evidenti coincidenze che devono far riflettere. Come deve far riflettere la vergogna delle morti sui luoghi di lavoro per la grave ingiustizia dello smantellamento della sicurezza, nel paese che ha avuto Anton Giulio Maccacaro e i gruppi omogenei di fabbrica, con cui ho avuto l’onore e la soddisfazione di collaborare.
La salute non può essere, infatti, semplicemente intesa come una questione privata: è una risorsa pubblica e come tale va trattata. Se ciascuno deve fare la propria parte responsabilmente, abbiamo necessità di una visione e di scelte complessive di sanità pubblica, se si vuole che la salute sia connessa alla fondamentale questione dell’uguaglianza.
Se intendiamo l’equità anche come “l’assenza di differenze ingiuste ed evitabili nella salute tra sottogruppi di una popolazione” (stando alla definizione dell’Organizzazione mondiale della Sanità) allora diventa fondamentale monitorare -e intervenire- in tutti gli ambiti in cui le questioni sanitarie risultano discriminanti.
Ci sono luoghi o contesti dove la tutela della salute vale per alcuni, ma non per tutti. Luoghi e contesti dove la salute unisce i lavoratori, e dove li divide, fino a contrappone. Luoghi e contesti dove salute e lavoro sono addirittura in un contrasto ricattatorio. Luoghi e contesti dove invece la salute del singolo viene presa in carico dal gruppo, per il bene di tutti.
Ci sono, inoltre, luoghi di lavoro dove è difficile distinguere fra la malattia di una persona e la patologia dell’organizzazione ed è complesso intendere chi sia patogeno per chi. Entriamo così in una dimensione nella quale il benessere organizzativo è solo retorica e il lavoro perde il suo significato di crescita, di apprendimento, di relazione costruttiva.
Il tema delle patologie organizzative e dei costi che esse comportano è quanto mai urgente, soprattutto per le inedite forme di alienazione, sfruttamento e disuguaglianze, che l’affermazione del digitale comporta, non ultimo perché attacca la gruppalità e manda letteralmente l’organizzazione in pezzi, interrompendo le tradizionali forme di aggregazione e di costruzione di possibili contropoteri. Col sindacato che ha perso quasi ogni contatto con le trasformazioni in corso e al massimo riesce a inseguire i problemi quando non svolge una funzione fiancheggiatrice dettata dalla paura.