“Per amore del mio popolo”: Gennaro Bellizzi

di Generoso Picone**.

C’è un’immagine che ricorre in queste ore immediatamente successive alla morte di Gennaro Bellizzi. Si tratta di una sequenza tratta dal video di un suo intervento pubblico in un’assemblea di un paio d’anni fa in cui lui cita una frase di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe assassinato dalla camorra: “Per amore del mio popolo”. Ecco, se si potesse racchiudere in un’affermazione il significato di un percorso di vita largo, intenso e purtroppo tragicamente interrotto, questa suonerebbe come il suggello più autenticamente appropriato. Perché non c’è alcun atto che il marito dolcissimo e affettuoso, che il padre tenero e premuroso, che il fratello vigile e attento, che il medico preparato e partecipe, che l’amico disponibile e solidale, che l’uomo delle passioni politiche e civili, che il cristiano adulto – come lo ha definito l’amico della comunità di San Ciro, don Luciano Gubitosa, non abbia compiuto se non per amore del suo popolo. Nella dimensione più vasta che si riesca a concepire, nella misura straordinariamente eccessiva con cui ha speso la sua esistenza, mai risparmiandosi e sempre donando se stesso agli altri.

  Gennaro Bellizzi era animato da questa tensione che pareva invincibile. La declinava con l’equilibrio, il sorriso e la misura del gesto. Si è detto: era segnato da eccezionale umanità. Lui avrebbe schivato questa etichetta perché a non altro canone sentiva di consegnarsi. L’umanità è stato il tratto costitutivo della sua presenza e proprio perché fondante era naturale, spontaneo e vero nel suo porgersi. Fino a diventare una categoria dello spirito che gli faceva interpretare ogni funzione svolta nell’ovvietà e nel rispetto di una norma scritta in cielo, una sorta di principio kantiano articolato nella pratica quotidiana. La legge morale che lo indirizzava rispondeva alla consapevolezza di un valore acquisito e irrobustito dal ceppo ideale di provenienza, il socialismo del padre Antonio, dall’insegnamento di don Michele Grella con la sua fede turbata dall’ansia del cambiamento, dalla sua militanza nel cattolicesimo democratico più avanzato, dalla tensione accesa a sognare un’altra Avellino, un’altra Irpinia, un migliore destino per i suoi compagni di viaggio, una più accogliente prospettiva per le generazioni a venire. Dall’amore per gli altri che portava la sua pacatezza moderata a incresparsi di fronte allo svilimento e al declino a cui era costretto ad assistere, all’imbarbarirsi del discorso pubblico, allo stato di acutissimo degrado in cui vedeva precipitata la città, la sua terra. Su questo scatto aveva contribuito a fondare l’associazione “Controvento”, di cui era vicepresidente, e soffriva constatando ciò che capitava intorno, non sopportava il limite raggiunto dal disastro e si sforzava ad accendere i fuochi dell’orgoglio, non intendeva rassegnarsi e insisteva a individuare occasione di riscatto che dovessero riguardare il Municipio e l’Ospedale, lo Stadio e il Palazzetto, cioè i luoghi simbolici delle sue passioni politiche e sportive accomunati nelle ragioni della dignità.

  Non sopportava gli infingimenti e le convenienze di sorta, le strumentalizzazioni e le storture: gli apparivano come le offese e le ingiurie massime perpetrate a un organismo che aveva assoluta necessità di altro. Qualche settimana fa, in un dibattito che vedeva la partecipazione anche del sindaco Gianluca Festa, ebbe a reagire con un rimbrotto che doveva venirgli dal profondo dell’animo ferito e la sua proverbiale pazienza venne scossa dalla falsa rappresentazione di una realtà. Ne scaturì un monito di severa radicalità. Il suo ennesimo atto di amore che oggi si consegna come un lascito di verità.

   Gennaro Bellizzi aveva questa grande capacità di sentirsi legato a una storia, ma non di lasciarsene ingabbiare. La sua Avellino della memoria era quella tramandata dal padre e attraversata dal fratello Mimmo, indimenticabile amministratore anch’egli strappato prematuramente ai giorni da un male incurabile. Era quella dove da qualche mese era ritornato a svolgere un ruolo importante l’altro fratello Mario, alla guida del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco. Ne conosceva le tradizioni del passato e gli angoli del presente, non tollerava che fosse diventata il fondale per il teatrino dei mediocri e degli opportunisti. Riusciva, da questo nucleo emotivo, a pensare a una città alternativa che assumesse le sue funzioni urbane e si proponesse da riferimento per un’area più ampia. Un’Avellino che non si specchiasse più nell’immagine distorta e falsa della dignità borghese e del piccolo mondo antico, ma che si sollevasse dalla morta gora e si risvegliasse dagli incubi di un sonno oscuro.

   L’amava. Così come amava il suo lavoro di medico, che gli regalava eccezionali soddisfazioni nel rapporto con colleghi e pazienti, da cardiologo capace di progettare forme avanzata di diagnosi e cura, da professionista accreditato a livello nazionale e sempre pronto a ogni richiesta in qualsiasi occasione: ma che gli aveva riservato anche amarezze malcelate, come gli era capitato di sopportare nei giorni della primissima emergenza pandemica nell’ospedale “Frangipane” di Ariano Irpino quando si era comportato semplicemente da eroe e invece era stato miserevolmente ripagato da chi aveva provato a farne un capro espiatorio di proprie gravi manchevolezze. Gli era rimasta la riconoscenza arianese, la proposta di una cittadinanza onoraria che gli renderà merito. E su quell’esperienza pur lacerante, trattenuta dal rigore di un comportamento esemplare, aveva costruito il punto di osservazione attrezzato sulle questioni della Sanità in Irpinia, elaborando progetti e proposte, coinvolgendo altre energie scientifiche e alzando il livello della riflessione. Il capitolo del documento di “Controvento”, di “Avellino Prende Parte” e di “Sardine d’Irpinia” sul Next Generation Irpinia costituisce il momento di elaborazione più efficace per strappare l’amministrazione e la gestione della cura alle camarille della bassa politica.

   Per amore del suo popolo. In un’epoca di passioni tristi in cui la parola popolo viene esibita da presunti leaderini e insopportabili attori del teatrino dell’indecenza, Gennaro ha avuto la capacità di ricondurla al suo valore precipuo. Lo ha insegnato a tanti e avrebbe potuto continuare a lungo. In ogni modo, non si fermerà. 

**su IL MATTINO del 30 ottobre 2021

2 Comments

  1. Caro Genny,
    Così ti chiamavamo in gioventù e nulla di ciò è cambiato nella nostra ormai lontana ma non distante amicizia.
    Grazie per lo straordinario scritto che ha ben rappresentato il nostro amico con il quale abbiamo condiviso anni di scuola e di discussioni. Discussioni che sono continuate sulla nostra chat « Quelli della III A » fino a pochi giorni fa.
    Lui sognava un’Irpinia diversa. Io ho detto basta e me ne sono andato molti anni fa, dopo aver inutilmente tentato di dare una spinta al cambiamento.
    Le idee innovative trovano sempre ostacoli e purtroppo nemo profeta etc. etc.
    Avevamo con Gennaro un diverso punto di vista sull’approccio alla soluzione, non sul problema e sui suoi mali.
    L’ultima chiacchierata a luglio scorso, seduti in un bar del Corso, ancora una volta ci aveva riavvicinati in una discussione accesa dalla comune passione ma dalla diversità di vedute.
    Mancheranno a me come a tantissimi altri momenti come quelli per i quali pagherei volentieri moltissimo pur di averne ancora.
    Fammi solo invitare me stesso, e quelli che hanno avuto la fortuna d’incontrarlo, a non dimenticare.
    Ti abbraccio
    Michele de Beaumont

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