“Ecce Homo!” il valore e il mistero di un affresco incompreso

di Riccardo Sica.

Nella Basilica di S. Paolo ai piedi del castello. L’importante documento pittorico (XII-XV sec.) testimonia la presenza di comunità cristiane ad Avellino

In un saggio recentemente pubblicato sulla rivista internazionale “Sinestesie” n. 29 maggio 2021 ci siamo occupati ampiamente di un affresco raffigurante l'”Ecce homo !” che è ad Avellino e che, forse, è ancora poco conosciuto dagli stessi avellinesi. I risultati di ulteriori nostri studi ci consentono ora un approfondimento di quel saggio. Essendo l’affresco un monocromato, è abbastanza probabile che si tratti di una sinopia (disegno preparatorio) di un affresco rimasto incompiuto. Esso è attribuibile, per i caratteri di repertorio squisitamente bizantino, al XII-XIII secolo, cioè allo stesso periodo in cui furono realizzati alcuni altri simili affreschi nell’Italia Meridionale (in Campania e in Irpinia specialmente). Nel caso di questa ipotesi attributiva la straordinaria e davvero sorprendente somiglianza iconografica del volto di Cristo al volto di Mehemet II dipinto da Gentile Bellini sarebbe dovuta solo al caso. Per l’iconografia squisitamente orientale, forse senz’altro turca, se si ipotizza, come faremo in seguito, che essa fu esemplata sui ritratti di Mehemet II risalenti agli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento e dovuti al pennello di Gentile Bellini, l’affresco avellinese potrebbe, tuttavia, anche essere assegnato ad un periodo compreso tra gli ultimi decenni del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. In questo caso il ritorno al bizantinismo sarebbe una scelta voluta, deliberata, di anacronistico linguaggio stilistico. Nell’uno e nell’altro caso, comunque, si ipotizza l’esecuzione dell’Ecce Homo! ai due periodi storici in cui più intensamente fu sentita in Occidente la presenza orientale, bizantina ed ottomana in particolare, e più acceso fu il dibattito politico, religioso ed artistico, sulla contesa fra i due imperi per l’egemonia.

Il gioiello pittorico in questione è custodito (non a caso) in un angolo nascosto, quasi inaccessibile, della superstite struttura originaria della Basilica di S. Paolo, ai piedi del castello. La Basilica è documentata a partire dal giugno 1103 e nel 1165 e costituisce una delle quattro basiliche di architettura basiliana esistenti con l’eccezionalità di tre absidi. Acquista, in questo senso, particolare valore l’affermazione del De Franchi: “Il monastero a cui la chiesa è annessa nacque basiliano e divenne poi benedettino” (F. De Franchi, Avellino illustrato da’ Santi e da’ Santuari, Napoli, 1709).

Sul significato della parola “basiliano” ci illumina G. Ciotta: “Basiliano è denominazione data ai religiosi che osservano la regola di S. Basilio il Grande, considerato, al pari di S. Benedetto, come fondatore di uno dei principali ordini monastici. In Occidente si credeva, dal sec. XVI fino ad epoca molto recente, che tutti i monaci cosiddetti “greci”, cioè di disciplina bizantina, senza differenza di paese e di lingua, fossero basiliani costituiti in un grande ordine, anzi, che quest’ordine fosse l’unico riconosciuto dalla chiesa impropriamente detta “greca”. Questa convinzione è errata. De Franchi, infatti, con la sua affermazione, riconosce indirettamente che “i monaci orientali non vedono in S. Basilio il loro principale ed esclusivo padre o fondatore (egli in realtà non è che uno dei maestri della vita ascetica) e si volgono, infatti, alla fine, a San Benedetto nel monastero annesso alla chiesa di S. Paolo ad Avellino. Il rivolgimento è possibile perchè ” i monaci orientali, per loro natura, sono monaci di un determinato monastero, e non membri di corporazioni più vaste”[1].

Con la sua affermazione (“Il monastero a cui la chiesa è annessa nacque basiliano e divenne poi benedettino”) il De Franchi si riferisce evidentemente al passaggio dalle regole di S. Basilio a quelle di S. Benedetto ma, a nostro avviso, anche al passaggio dall’architettura basiliana a quella latina come risulta, del resto, dalla ricostruzione delle parti strutturali superstiti della basilica di S. Paolo ad Avellino compiuta a seguito dei restauri. D’altra parte la consistente comunità bizantina insediata sulla “Collina della Terra” (ai cui piedi sorgono il castello e la Basilica suddetta) continuò a frequentare gli edifici religiosi greci, come  la Chiesa di San Nicola dei Greci, pure dopo la riconquista longobarda.

E’ soprattutto dalla presenza dell’affresco (Ecce Homo!) all’interno della basilica che, tuttavia, scaturisce quell’irresistibile suggestione di un monachesimo orientale o greco, a forte vocazione ascetica, che avvertiamo nella zona di Avellino detta la “Terra” (Rampa Tufara) popolata, a suo tempo, da comunità greche: qui, oltre la Chiesa di S. Nicola dei Greci, è documentata la presenza di altre due chiese di culto greco, Santa Sofia e San Nicola della Carte nei pressi del Duomo, ora distrutte. Si sa che la Chiesa di S. Nicola dei Greci (969 circa) venne eretta a Rampa Tofara durante l’ennesima occupazione bizantina da parte dei militi diretti dal patrizio Eugenio, durante l’assedio di Capua che resisteva strenuamente.  Nel 542 si era verificata la prima fuga degli Abellinates verso Selectianum, divenuta poi la “Collina della Terra”. Sulla “Collina della Terra” ad Avellino, quindi, le comunità greche (bizantine) segnarono il confine di resistenza all’Imperatore Ottone I, che mirava a ricreare il Sacro Romano Impero. Nell’ambito di questa indimenticabile pagina di storia probabilmente si configurò l’occasione per realizzare l’affresco dell’Ecce Homo!

Nel nostro saggio pubblicato in “Sinestesie” n. 29 abbiamo evidenziato gli straordinari richiami dell’affresco alla iconografia bizantina ed orientale. Il personaggio raffigurato porta in capo un’accurata acconciatura di lunghissimi capelli a forma di turbante a “bulbo” tipico degli ʿulam (un’acconciatura simile a quella, per intenderci, che si osserva in testa al sultano nel celebre Ritratto di Mehemet II  realizzato da Gentile Bellini nel 1480). Un ulama o ʿālim (in arabo: عالِم‎; pl. ʿulamāʾ) è un dotto musulmano, un maestro, esperto in scienze religiose (ulūm dīniyya). Strettissima è la sconvolgente somiglianza del volto dell’Ecce Homo! avellinese con quello del “Gran Turco” Mehemet II nel celebre dipinto citato. Ciò trova una sua spiegazione. L’impero romano d’Occidente, a seguito delle invasioni barbariche, scomparve nel 476 d.C. L’impero romano d’oriente, impero “bizantino”, sopravvisse, estinguendosi solo nel 1453 con la conquista della capitale bizantina Costantinopoli (l’attuale Istanbul), ad opera dei turchi capeggiati dal Sultano Mehemet II. La vittoria di Mehmet fu considerata da Isidoro di Kiev come la venuta dell’Anticristo: il poeta ascolano Panfilo Sassi inviò a Ferrante d’Aragona un hecatelegium, un epigramma, in cui esortava il Gran Turco a venire in Italia contro la Chiesa romana. Che l’affresco dell’Ecce Homo! non volesse costituire una sorta di annuncio pittorico della venuta di Mehemet II ? Alla città di Avellino l’esercito di Alfonso d’Aragona (che l’aveva messa a sacco) aveva inferto un “colpo mortale” circa un decennio prima, nel 1440. La politica imperiale adottata da Mehemet II instaurò prevalentemente uno spirito conciliante tra l’Oriente e l’Occidente. Egli dette subito il primo segnale di continuità imperiale quando a Bisanzio trasformò la Basilica di Santa Sofia senza stravolgerne la struttura, e vi produsse anzi una sostanziale coesistenza della cultura e del linguaggio figurativo bizantino con la cultura ottomana, del gusto occidentale con il gusto orientale, persino turco. E’ da considerarsi elemento della politica di continuità dell’impero bizantino in quello ottomano anche l’interesse del Sultano per il collezionismo di reliquie non solo islamiche ma anche cristiane (collocate, dopo la conquista, nella chiesa di Santa Irene, inglobata nella prima corte del Topkapi). Ad Avellino l’affresco in questione avrebbe potuto rappresentare una rara, ma significativa icona pittorica di questa politica di continuità, politica, religiosa ed artistica, dell’impero bizantino in quello ottomano. Non a caso proprio ad Avellino, dove già dal VI sec. si era registrata, come abbiamo visto, una prima nutrita comunità greca, insediatasi nella collinetta della Terra (Rampa Tofara): la sua egemonia bizantina vi si sarebbe affermata per qualche anno verso la fine del sec. IX, raggiungendo il massimo splendore tra l’850 e il 1050. In questo periodo «si affermò e si consolidò la dinastia di Basilio I mentre l’impero Bizantino diventò un punto di riferimento importante per la cultura mediterranea, sia per l’organizzazione burocratica dello Stato, collegata all’introduzione degli archivi, dei bilanci etc.,sia per le varie espressioni artistiche, che trovavano le loro radici in una civiltà antica e fiorente».3 Proprio sulla “Collina della Terra” ai cui piedi sorge la Basilica di S. Paolo in cui è collocato l’affresco dell’Ecce Homo!, la comunità greca avellinese, come riferisce il Bella Bona, aveva trovato nella Chiesa di S. Nicola dei Greci (969) il suo punto di maggiore raccoglimento («la Chiesa di San Nicola della Carte era riservata alle alte dignità bizantine, le quali risiedevano in un loro palazzo, posto accanto alla cattedrale»).

Circa la seconda ipotesi attributiva da noi avanzata, è da rilevare, sul piano stilistico ed iconografico, che sia l’autore dell’affresco ad Avellino e sia Gentile Bellini, autore di Ritratti di Mehemet II, rappresentano affini, e talvolta identici, caratteri, soprattutto il volto di tre quarti, in una posizione che consente un’attenta analisi fisica e psicologica dei personaggi ritratti. Ma, se nel dipinto del Bellini la mezza figura del sultano è racchiusa in una sorta di elegante cornice, arcata ed ornata con motivi a fogliami, l’affresco ad Avellino, invece, è incastonato in una semplice cornice di pietra squadrata, all’estremità d’un pilastro anch’esso in pietra. Sul piano iconografico in entrambi i dipinti menzionati è la tipologia orientale a risaltare specialmente grazie ad una fissità quasi iconica dell’immagine, tipica delle divinità e delle autorità. Tuttavia, sul piano stilistico, l’affresco avellinese si distingue per una connotazione più decisamente bizantina e per una significazione iconografica speciale. Il volto, infatti, con gli occhi quasi chiusi per la morte che sopraggiunge, asimmetrici, rivela un atteggiamento d’impressionante, drammatica maestà, come il volto emergente dalla “Sacra Sindone”. Non a caso, forse, l’autore dell’affresco sembra attenersi proprio al volto di Cristo che dal IV secolo è sempre rappresentato “secondo la Sindone”, specialmente dall’arte bizantina: cioè “con grandi occhiaie asimmetriche, barba lunga, capelli che coprono le orecchie, baffi cadenti, caratteristiche che s’imposero come canoniche ed ufficiali”. Entrambi i volti, inoltre, sono ritratti con marcati tratti fisionomici: la fiera barba rossiccia, il profilo affilato, il naso aquilino e gli zigomi pronunciati, elementi qualificativi d’una fisiognomia greca, turca, in relazione con l’espressione pensosa e sofferente. Nell’affresco un occhio è socchiuso, l’altro è aperto.

Per Giuseppe Muollo “il motivo del capo reclinato sulla spalla e avvolto nella massa dei capelli che girano improvvisi all’indietro” e la caratterizzazione stilistica dei “lineamenti fini, dominati dal naso sottile e allungato”, troverebbero riscontro nel modulo compositivo utilizzato a Lauro per la testa del Cristo nella scena del Battesimo e per quella di Zaccaria nella scena dell’Annunciazione. Ecco “la migliore ragione per pensare a una cronologia in parallelo, agli inizi del XV secolo, con l’affresco avellinese” (F. Gandolfo e G. Muollo, Arte Medievale in Irpinia, pp.286-288, Editore Artemide, Roma, 2014). Certo, a livello iconografico l’identificazione dell’affresco è di difficile e dubbia interpretazione. Tuttavia nel saggio da noi pubblicato, pur optando per una datazione che s’aggira tra il XIII e XIV sec., non abbiamo voluto tralasciare anche un’altra ipotesi: che l’autore dell’affresco, se mai proprio con il deliberato proposito d’ identificare il Cristo cristiano con il “Gran Turco”, si sia potuto ispirare proprio al Ritratto di Mehemet II del 1480 di Gentile Bellini. In tal caso la datazione dell’opera si sposterebbe ancora in avanti fino al XV secolo. Sul capo è il nimbo o l’aureola quale simbolo di dignità e di potenza come appare anche nelle figure degli imperatori sia in Occidente che in Oriente (e nell’arte dell’Estremo Oriente, quale comune attributo del Buddha, nonchè nell’arte cristiana dove l’attributo del nimbo acquista un più preciso carattere di santità Per quanto sinora detto, non escludiamo che l’autore dell’Ecce Homo! possa essere un “greco” di religione islamica trapiantato nella comunità greca formatasi ad Avellino proprio accanto alla Basilica di S. Paolo, sulla “Terra”, nei pressi della Chiesa di S. Nicola dei Greci. Neppure vogliamo escludere, ma la poniamo in secondo piano, l’ipotesi che l’affreschista,  come Gentile Bellini, abbia conosciuto di persona il Sultano ritratto. E’ stato sinora storicamente riportato che il pittore Bellini ritrasse dal vivo, dal vero Mehmet II quando, tra il 1479 e il 1480,  visitò Costantinopoli in missione diplomatica alla sua corte. Il Ritratto del sultano Mehmet II, dipinto in quell’occasione, si trova alla National Gallery di Londra e presenta due iscrizioni: quella in basso a destra con la datazione (25 novembre 1480) e quella in basso a sinistra con i nomi di Mehmet e Gentile Bellini. Maometto II, detto il Conquistatore, sultano ottomano, fu considerato il vero fondatore dell’impero ottomano: salì al trono nel 1451, non ancora ventenne, avendo già partecipato all’assedio vittorioso di Varna (1444) contro i crociati. La sua prima campagna fu la conquista di Costantinopoli (1453), che divenne subito la sua capitale. La vittoria fruttò a Maometto II un prestigio così incomparabile che divenne per gli altri sovrani musulmani il “Ghazi”, il conquistatore per eccellenza: nel mondo cristiano egli si pose come nuovo Cesare, puntando alla conquista di Roma. Giunse, nel 1480, a Otranto, dove fu fermato dall’esercito radunato da papa Sisto IV. Ovviamente Mehemet II assunse il titolo di “Cesare dei Romani”, Kayser-i Rum, non intendendo i romani «de Roma», ma i soggetti dell’impero romano d’Oriente, per lo più di lingua greca. Il titolo gli spettava perché la sua dinastia aveva conquistato Costantinopoli. La pretesa ottomana che, grazie alla conquista dell’impero bizantino, il dominio ottomano fosse la continuazione dell’impero romano non era poi da considerare tanto una forzatura, dal momento che quella di Mehemet II era la più importante potenza bellica dell’epoca. Giustamente gli storici osservano: “Il «diritto» derivante dalla conquista valeva certamente più di altri curiosi congegni legali del periodo, come la Donazione di Costantino, che, per secoli, parve dare al Papa di Roma il controllo totale della Chiesa cristiana fino a che, nel XVI secolo, si dimostrò che essa era invece un falso”. Che la sopravvivenza dell’impero sotto gli Ottomani fosse realtà o finzione non è nemmeno oggi una questione superflua o vana, anche perché continua a colorare la visione islamica dell’Occidente. L’usanza occidentale è invece quella di supporre che l’impero romano sia scomparso con la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi ottomani nel 1453. Di qui il sospetto: che l’autore dell’affresco ad Avellino non abbia replicato volutamente, se mai con sottile sarcasmo e nelle sembianze di Cristo, proprio Mahemet II (considerato in Occidente un Anticristo) ritratto da Gentile Bellini? L’impiego del termine “anticristo” è legittimato anche nell’ambito dell’apocalittica musulmana. La precisione dei singolari tratti somatici e la particolare iconografia del volto di Cristo nell’affresco ci portano, non a caso, a considerare quella tradizione assai radicata che vuole che il Dajjāl possa essere identificato non solo dal suo agire ma anche da alcune caratteristiche somatiche, come il colore delle pupille (una diversa dall’altra), o la forma degli occhi (a goccia), o la capacità visiva (un occhio, il destro, non vedente anche se non bendato), esattamente quali si riscontrano nell’immagine affrescata ad Avellino. A Dajjāl si contrappone il Mahdi (in arabo: المهدي‎, al-Mahdi, lett.: «Il guidato [da Allah]») o Muhammad al Mahdi (in arabo: محمد المهدي‎, Muhammad al-Mahdi), una figura fondamentale araba dell’escatologia islamica, che ripropone in altre vesti l’idea messianica tipica dell’ebraismo e del cristianesimo. Secondo la fede islamica, il Mahdī apparirà nel mondo alla fine dei tempi, dopo che il Dajjāl (una sorta di Anticristo che si dichiarerà musulmano) avrà attuato la sua opera devastatrice delle coscienze dei credenti. Al Mahdī dunque è riservata l’azione antagonistica al Male, rappresentato dal Dajjāl, preannunciando la fine del mondo (il “Dì del Giudizio“, yawm al-dīn, ossia “Il giorno della religione”, che avrà luogo dopo la morte di Gesù) nel corso della quale Dio decreterà per i defunti, resuscitati di tutte le generazioni umane, per l’occasione, il destino di salvezza o di dannazione. Secondo la tradizione dopo il Mahdī verrà Gesù (in arabo ʿĪsā) per uccidere l’Anticristo e sarà lui stesso re della terra per 40 anni. È’ per questo che nella Moschea degli Omayyadi di Damasco un minareto è chiamato “di ʿĪsā”, visto che da esso si crede calerà in terra quello che per la cultura islamica è considerato un grandissimo profeta (Cfr.Wikipedia, il Dajjāl,  il Mahdī). Certo nell’affresco avellinese, così come nel Ritratto di Bellini, il gran Sultano non è raffigurato come era comunemente considerato in Occidente, cioè  come feroce tiranno e come acerrimo nemico della Cristianità. Quello della National Gallery non è, tuttavia, l’unico ritratto occidentale “pacifico” del “Gran Turco”: il suo profilo è raffigurato sulla medaglia disegnata dallo stesso Bellini, con iscrizioni in caratteri latini, conservata alla National Gallery of Art di Washington, Samuel H. Kress Collection. Sempre di Gentile Bellini esiste una tavola dipinta a olio, conservata in una collezione privata svizzera, raffigurante un doppio ritratto in cui una delle figure è, appunto, Mehmet II.

 Certo è azzardato pensare, come noi abbiamo fatto,  che anche l’affreschista avellinese, come Gentile Bellini (l’autore del Ritratto di Memete II), abbia potuto conoscere di persona il Grande Turco quando venne a conquistare l’Italia e lo abbia ritratto nella sua opera ad Avellino. Ed infatti pensiamo che la datazione dell’affresco non possa giungere fino al 1480, dal momento che il suo stile, tipicamente bizantineggiante, arretra di secoli rispetto a quell’anno. Una cosa, comunque, è certa: sia il Ritratto del sultano Mehmet II ora alla National Gallery di Londra e sia l’affresco dell’Ecce Homo! nella  remota cittadina di Avellino costituiscono due rari, straordinari documenti dei rapporti intercorsi tra Occidente e Oriente, con particolare riferimento al mondo islamico. Prima del pittore Bellini, un altro artista italiano, Costanzo da Ferrara, era giunto alla corte del sultano: suo è il disegno di una medaglia che ritrae Mehemet II (alla National Gallery of Art). Un ritratto del sultano, omologo al disegno della medaglia di Costanzo da Ferrara, è conservato nel cosiddetto Fatih Album, nella libreria del Topkapı. L’affresco ad Avellino, riproducendo- consapevolmente o incosciamente- i tratti fisionomici di Mehemet II, finisce inevitabilmente coll’inserirsi gioco-forza nell’ ambito dellaritrattistica occidentale ispirata a Mehemet II.

Il velo del mistero continua ad aleggiare sull’affresco dell‘Ecce Homo” ad Avellino.

 Nelle intenzioni dell’autore, l’immagine dipinta è veramente quella del Cristo, o è quella dell’Anticristo, di un “falso Cristo”, di Maometto II?

Nascosto in un angolo sconosciuto del mondo, nel luogo in cui la storia avellinese racconta che s’insediarono comunità greche intorno alla vicina Chiesa di S. Nicola dei Greci, l’affresco dell’Ecce Homo! ci sembra creato apposta per costituire un’eccezionale icona di rappresentanza artistica in terra d’Irpinia dell’auspicato rapporto di continuità non solo politica tra Occidente ed Oriente, tra l’impero romano, quello bizantino e quello ottomano, senza possibilità di distinguere, però, purtroppo, se la simpatia dell’autore si rivolga all’una o all’altra civiltà.

Riccardo Sica

Basilica di S. Paolo ai piedi del Castello di Avellino: è cerchiata la zona in cui si trova l’affresco Ecce Homo!

L’affresco Ecce Homo!, Basilica di S. Paolo, Avellino

Ecce Homo!, affresco, sec. XIII c., Basilica di S. Paolo, Avellino

Gentile Bellini, Ritratto di Mehemet II, 1480, Victoria and Albert Museum, Londra

Gentile Bellini, Ritratto di Mehemet II, 1480, Victoria and Albert Museum, Londra

L’affresco Ecce Homo!, sec. XIII c., Basilica di S. Paolo, Avellino


[1] L’espressione ordo sancti Basilii indica convenzionalmente le comunità monastiche italo-greche dell’Italia meridionale e della Sicilia e pare derivi da un inciso dell’ultimo cap. della Regola di S. Benedetto relativo alla “Regula sancti Patris nostri Basilii” (SC, CLXXXII, 1972, p. 672). L’idea di un ordine basiliano trae la sua origine da un passo della regola di S. Benedetto (cap. 73), in cui vien citata con encomio la compilazione delle risposte ascetiche del santo arcivescovo di Cesarea. Quando i Normanni conquistarono l’Italia meridionale e la Sicilia, sui primi anni del sec. XI, trovarono in quelle regioni meridionali un gran numero di monasteri bizantini, e appunto nei diplomi concessi a questi dai re normanni, nonché nelle bolle contemporanee dei papi, si trova per la prima volta menzionato un “ordine basiliano”. Detta denominazione era quindi una mera formula di cancelleria. I primi lineamenti d’una federazione tra i monasteri bizantini dell’Italia meridionale si devono vedere nelle facoltà concesse da Eugenio IV nel 1446 a tre visitatori, scelti in un capitolo generale tenutosi nello stesso anno in Roma, con l’incarico di ricondurre la disciplina nei monasteri greci del Mezzogiorno, che erano in condizioni di grave decadenza disciplinare. Nel novembre 1446, il cardinale Bessarione convocò allo stesso scopo un nuovo capitolo generale in cui furono eletti nove definitori; questo fu il primo passo verso un’organizzazione del tutto occidentale. Nel 1504, un altro capitolo generale radunato nel monastero di S. Nicola di Calamizzi, vicino a Reggio Calabria, nominò ancora due visitatori; ma tutti questi tentativi di riforma non ebbero notevole efficacia. Il cosiddetto ordine basiliano è di origine latina e spagnola. Nei tempi di Paolo IV (1555-1559), alcuni pii cristiani della diocesi di Jaén, nella Spagna meridionale, avendo deciso di abbracciare la vita monastica, adottarono, dietro il consiglio del vescovo Diego Tavera, la cosiddetta regola di S. Basilio, e il loro primo rettore, padre Bernardo de La Cruz, andò nell’archimandria di Grottaferrata presso Roma per farvi la sua professione monastica. Un breve di Pio IV del 18 gennaio 1561 è la vera carta di fondazione dell’ordine basiliano, allora tutto latino. Detto ordine condusse per più secoli in Spagna una vita del tutto indipendente da quella monastica orientale, prescindendo dall’affiliazione spirituale ai monaci di Grottaferrata” (G. Ciotta – Basiliani, Enciclopedia dell’ Arte Medievale,1992).

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