“Madres paralelas” di Pedro Almodóvar

di Carla Perugini.

Sembra quasi un ossimoro il titolo di quest’ultima pellicola di Pedro Almodóvar (Coppa Volpi a Penélope Cruz per la sua interpretazione da protagonista nell’ultimo Festival di Venezia): se il termine “madri” è associato, quasi d’istinto, alla più elementare e inscindibile vicinanza, “parallele”, con un’ involontaria eco scolastica, ci rimanda a due traiettorie che, anche se prossime, sono destinate a non incontrarsi mai. Ed è quello che sarebbe avvenuto a due donne molto diverse fra loro, se il caso non le avesse portate a partorire nello stesso luogo, allo stesso momento, due bambine. Se l’una è già per età ai limiti della possibilità di diventare madre, l’altra (Milena Smit) non è ancora maggiorenne. Entrambe vivono una maternità inaspettata e non voluta, l’una grazie a una relazione clandestina, che finirà bene, sia pure fra varie traversie; l’altra in seguito a uno stupro di gruppo, le cui modalità ricordano episodi di cronaca oggi troppo frequenti, comprese le orrende minacce di diffonderne le immagini via social.

Sebbene le due esistenze femminili soffrano di una solitudine in parte scelta in parte forzata, l’arrivo delle bambine le sconvolge in senso positivo, sì che entrambe le accettano come un dono, che un po’ provoca disordine e problemi, un po’ fa scoprire loro una capacità d’amare senza precedenti.

Ma il film, oltre alle storie personali di Janis e Ana, si apre e si chiude su quella che è stata la Storia, con la s maiuscola, della Spagna, sulle conseguenze di quella guerra civile che, seppure non vissuta in prima persona da nessuna delle due protagoniste, le coinvolge ancora appieno, in maniera consapevole o meno, pur con modalità diverse: mentre l’adulta si fa portavoce, con ostinazione e fiducia, della volontà degli abitanti del suo paese d’origine di scavare una verosimile fossa per ritrovare i resti dei repubblicani uccisi dai franchisti e dare loro una degna sepoltura (secondo la Legge sulla Memoria Storica), la giovane Ana (vissuta peraltro con genitori “apolitici”, ovvero indifferenti ed egoisti, anche nei confronti della figlia) è del tutto ignara, come quasi tutti i giovani, di qualsiasi avvenimento che superi l’immediato presente.

Fin qui la trama, di cui non riveleremo i colpi di scena. Nella sua traduzione filmica è riuscito Almodóvar a cucire insieme tanti diversi e nobili argomenti? Non del tutto, direi. C’è una sorta di struttura rapsodica dell’opera, come se la regia stentasse a trovare un autentico nesso fra narrazione privata e narrazione collettiva. Ragion per cui fra la prima e l’ultima parte (quelle che fanno riferimento agli eventi storici) e il grosso del film (le due maternità) sembra non esserci un reale legame, tanto che potrebbero dar vita a due pellicole indipendenti.

Inoltre, come già accadeva nel precedente Dolor y gloria, il regista cede con troppa frequenza al suo côté melodrammatico, che, mentre gli ha ispirato gli indimenticabili eccessi e inverosimiglianze della sua divertente produzione giovanile, in vecchiaia pare restare solo quello che è: mélo, con tutti i rischi ad esso connessi quando non è equilibrato dall’autoironia. Così molti esiti delle storie sono prevedibili e scontati: dall’evoluzione del rapporto fra le due donne, alle tragedie materne, al lieto fine.

Ma Almodóvar si prende in blocco: così è se vi pare. E noi che lo abbiamo amato e l’amiamo ce lo teniamo stretto.

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