Emancipazione, marginalità e valore della cultura
di UGO MORELLI.

Fotografia di Giancarlo Blasi
Il valore delle zone di sviluppo prossimale
Sulla capacitazione individuale e la valorizzazione o il valore dello spazio, quindi della zona di sviluppo prossimale a ognuno di noi, come condizioni per affrontare il tema della disuguaglianza e della marginalità culturale, esiste una letteratura importante e esperienze che meritano di essere considerate.
Covid-19 è stato un evidenziatore sostanzialmente, alla stessa stregua di quegli evidenziatori che compriamo nelle tabaccherie o nelle cartolerie per sottolineare i libri, – a me non piacciono, a me piacciono le matite -, per farci riconoscere l’importanza della prossimità. La dimensione dell’evidenza che la pandemia ha prodotto nel manifestare come funzionano e come si affermano, come purtroppo agiscono i sistemi delle disuguaglianze e quindi processi di marginalizzazione, per me è stato particolarmente importante. E mi ha ricollegato alle condizioni di ricerca per affrontare i temi delle aree marginali, delle aree interne e delle periferie o comunque della periferizzazione.
Vi porterò con me, naturalmente in una breve sintesi, sul mio terreno di lavoro, mi occupo della mente umana e di come la mente umana apprende e del rapporto fra la mente e la dimensione neuroplastica del cervello, cioè del fatto che noi possiamo cambiare e possiamo emanciparci. Allora la domanda diventa: a quali condizioni la capacitazione è possibile? Che rapporto si può stabilire fra capacità e opportunità per affrontare il tema delle disuguaglianze, e quindi il tema delle periferie?
Il valore generativo del margine
Il titolo è per molti aspetti provocatorio, nel senso che il lavoro che stiamo facendo, e che presenterò fra un attimo, in alcune aree italiane sui temi dell’impoverimento educativo e in particolare sui temi della marginalità, ci ha fatto assumere due tipi di provocazione che vi presento e poi le giustificherò. La prima ha a che fare con il valore generativo del margine, nel senso che il margine non è un confine, il margine non è da intendersi come un muro o come un ostacolo, nel margine c’è la vita, nel margine ci sono i saperi ingenui e i saperi spontanei in uso, ci sono le reti sociali di protezione reciproca, ci sono, ovviamente con tutta la loro precarietà, una serie di condizioni dalle quali secondo noi bisogna partire. La seconda provocazione è che noi stiamo tentando di affrontare questi problemi valorizzando in particolare la dimensione simbolica della nostra specie, e cioè la cultura e la bellezza, la cultura e l’esperienza estetica. Per molti aspetti questa cosa potrebbe apparire paradossale, però abbiamo elementi per continuare a insistere in questa direzione, cioè riteniamo che la via assistenzialistica non sia la via risolutiva, riteniamo che siano le condizioni economiche naturalmente organizzative dei territori, come abbiamo sentito nelle relazioni precedenti, siano decisive ma, se non altro per deformazione professionale, la nostra insistenza è soprattutto sulla capacità individuale di creare, di generare l’inedito e quindi di lavorare con l’educazione e la cultura come leve fondamentali per affrontare le tematiche della marginalità e le tematiche della periferizzazione.
Le aree interne e le periferie come laboratori di produzione di socialità e innovazione sociale
Ebbene, sostanzialmente, di questo abbiamo già parlato, concepiamo le periferie nelle realtà in cui stiamo cercando di lavorare, da Palermo a Como, da Messina a Roma a Napoli, e poi ripeto, citerò una metodologia che stiamo utilizzando, stiamo cercando di considerare le periferie come laboratori di produzione di socialità. E naturalmente anche luoghi di disagio ed esclusione, però anche luoghi di valorizzazione e di innovazione sociale. Ovviamente per fare questo è necessario uscire da una visione standard dei modelli di vita, da una visione standard dei modelli di sviluppo, da una visione standard delle reti di socialità. Per farlo puntiamo, come dicevo poco fa, non tanto sulle tematiche dell’assistenzialismo, non tanto sulle tematiche top-down, che in molti casi ovviamente sono fondamentali (abbiamo visto i processi di partecipazione che sono stati attivati per definire il progetto del Polcevera a Genova dopo la tragedia del ponte e la sua ricostruzione), ma la cosa che più di tutto ci interessa è dal punto di vista dei processi di capacitazione, quindi dello sviluppo delle capacità, attingere alla neuroplasticità cerebrale umana, al fatto che noi siamo degli esseri che sono portatori di capacità creativa. Che cosa intendiamo qui per creatività? Ovviamente parola estremamente scivolosa, ce ne stiamo occupando da molti anni e su questo abbiamo scritto anche testi, intendiamo che la creatività sia una disposizione specie specifica di noi umani che ci porta a essere capaci di comporre e ricomporre, in modo almeno in parte originale, i repertori disponibili. Ecco, questo è l’elemento su cui stiamo lavorando, cioè la capacità soggettiva e intersoggettiva di sviluppare l’inedito, di sviluppare generatività, non in una direzione che consideri la periferia come un luogo residuo, ma lo consideri come, richiamando un grande della nostra tradizione di ricerca che è Lev Vygotskij, la zona di sviluppo prossimale, cioè la zona all’interno della quale la prossimità tra le persone produce reti di socialità. Naturalmente in molti casi reti di socialità problematiche, reti di socialità che possono contenere anche ulteriori processi di marginalizzazione, ma alla base di tutto, come potete immaginare, c’è l’idea che le prospettive top-down di carattere ingegneristico e assistenzialistico per intervenire su questi problemi abbiano prestato il fianco e continuino a prestare il fianco. Io ho una certa storia di undici-dodici anni di contribuzione con UNESCO e con i Comboniani, di lavoro volontario in alcune realtà africane, e mi conforta, nel senso problematico del termine, affermare quello che ho appena affermato. La capacità di affrontare i problemi di marginalizzazione che ci sono nelle periferie dipende strettamente dal fatto che noi prendiamo in mano le menti intersoggettive degli esseri umani che vivono nei contesti di riferimento e, a partire dai loro saperi spontanei, dai loro saperi ingenui, cerchiamo di sostenerne la capacitazione. È una condizione indispensabile, che naturalmente non nega la rilevanza di lavorare ai contenitori, di lavorare alle strutture urbanistiche, di lavorare ai progetti economici, non stiamo parlando di questo, ma la domanda fondamentale è: che rapporto c’è fra l’evoluzione e il sostegno allo sviluppo dei comportamenti adeguati ed emancipativi e le strategie complessive che si sviluppano in questi contesti?
Capacitazione e esperienza estetica
Capacitazione, quindi, è un’attenzione alle potenzialità, che per certi aspetti potremmo chiamare potenzialità residue, potenzialità marginali, ma sono la base sulla quale innestare processi di cambiamento e processi di innovazione con la cultura e con l’educazione, e in particolare con l’esperienza estetica, come cercherò di dire fra un momento. E allora entra in gioco una categoria che è cara ad alcuni studiosi, penso a Giorgio Tavano Blessi, la persona che ha creato il ponte tra me e la Fondazione Bracco, o a Vittorio Bo con cui abbiamo avuto la possibilità di lavorare su questi temi nel corso del tempo.
Che cosa intendiamo quando parliamo di bellezza e parliamo di esperienza estetica? Io qui riconosco la componente provocatoria in un contesto come questo, di questa dimensione. Potrei avvalermi di un verso straordinario di un grande poeta spagnolo che è Rafael Alberti, il quale in una poesia che ritengo per me fondamentale, e spero un po’ anche per voi, scrive un verso che è: “I bambini d’Estremadura sono tristi”, stiamo parlando di una zona marginalissima, naturalmente di grande povertà, e poi nel verso successivo scrive: “Chi ha rubato loro i giochi?”. Ecco, la componente simbolica dell’esperienza umana, la componente culturale dell’esperienza umana, non è il contorno della pietanza, non è quello che facciamo quando abbiamo la pancia piena. Questa visione, diciamo così, quantitativo-economicistica dell’esperienza umana è un po’ restrittiva, un po’ mortificante, di ciò che la specie è o perlomeno è diventata da quando è diventata simbolica, la stima è 240-250.000 anni fa. Perché la bellezza, e lo stiamo verificando da un punto di vista sperimentale al Dipartimento di neuroscienze di Parma, e su questo abbiamo scritto da una quindicina d’anni anche delle cose, come può essere intesa? Può essere intesa, e si verifica che è così in termini sperimentali, come una risonanza particolarmente riuscita tra individui e individui e tra individui e mondo, lo spazio intorno, il contesto, ecco, risonanza tale da estendere quello che tecnicamente chiamiamo il modello neurofenomenologico di sé, ovvero di estendere la sensibilità soggettiva, di portarla a una soglia (o oltre una soglia) che senza quella esperienza non si sarebbe mai sperimentata. In sostanza, il problema è come fare ad aumentare la capacità soggettiva di utilizzare meglio se stessi, di fare meglio i conti con la realtà, per quanto quella realtà possa essere per certi aspetti, come dire, una realtà che dispone di risorse limitate. Ma il problema è proprio questo; come fare a innestare sulle risorse disponibili con la logica del contadino, che fa l’innesto su una pianta per ottenere un frutto diverso da quello che la pianta precedentemente produceva, come fare a innestare delle opportunità riconoscibili che valorizzino quelle capacità? Questa è stata la nostra preoccupazione e questa è la nostra preoccupazione, perché il fatto fondamentale che ci interessa è che quei livelli di esperienza, senza l’estensione che la bellezza e l’esperienza estetica producono, non si verificherebbero.
Il benessere non è riducibile a uno standard univoco
E allora qui il problema fondamentale è uscire dalla logica che il benessere sia riconducibile a uno standard univoco, che sia solo quello, e che abbia quelle caratteristiche. I bambini delle periferie di Messina, con cui abbiamo lavorato e stiamo lavorando, hanno una loro lettura della realtà e chiamiamo questo sapere ingenuo di quei bambini, esperienze ingenue e spontanee di quei bambini, ogni azione che voglia essere efficace (ma questo vale anche per i bambini di Kibera alle periferie di Nairobi), ogni azione è fondamentale che non sia un’azione ingegneristico-assistenzialistica e top-down se vuole essere efficace, ma che sia capace di partire dalla loro esperienza e di innestare su quella esperienza possibili processi di emancipazione. L’accesso a quelle possibilità passa per l’esperienza estetica, cioè per lo sviluppo della loro sensibilità rispetto a se stessi e rispetto alla realtà. È un processo di emancipazione in cui la cultura e l’educazione sono le leve fondamentali. È fondamentale dare valore a questo aspetto e riconoscerlo non tanto, ripeto, come un fatto marginale. Voi sapete come viene trattata la cultura, lasciatemelo dire con un po’ di polemica, viene trattata come quella cosa che tutti richiamano come importante, ma quando poi si tratta di stabilire perché lo è e che cosa fa per noi la cultura, che cosa fa per noi l’arte, Iosif Brodskij, grande poeta e premio Nobel, dice: “solo l’arte potrà fare per noi quello che Dostoevskij aveva auspicato, cioè che la bellezza cambierà il mondo. La volgarità probabilmente lo ucciderà”.
Esperienze e senso del possibile
Ecco, allora, da questo punto di vista, qui c’è una rapida documentazione delle esperienze che stanno alla base di questa prospettiva e su cui abbiamo lavorato nel corso del tempo. Noi stiamo facendo degli interventi in queste città che vi elenco: stiamo lavorando a Palermo con il Teatro Massimo nei quartieri Zen, Brancaccio e nella Kalsa, sulle problematiche che sono tipiche di quei quartieri, potete immaginare, in particolare con i target, in questo caso bambini abbastanza grandi che vanno verso l’adolescenza; stiamo lavorando con la Fondazione di Comunità a Messina per i quartieri periferici della città di Messina; stiamo lavorando con il Museo di Rivoli, a Torino, sulle problematiche legate all’educazione, all’arte e alla cultura, con le aree problematiche periferiche della città di Torino; stiamo lavorando a Como con l’associazione Cometa, che lavora in particolare con diverse forme di disagio sociale, civile, economico e culturale dei bambini e degli adolescenti; sviluppiamo in particolare con i bambini un progetto che assume, si chiama Di bellezza si vive, questo progetto lavora con diverse realtà in Italia, è una rete di partner che sta partecipando a un progetto quadriennale. Il progetto Di bellezza si vive lavora sull’ipotesi che ho formulato prima, cioè su come l’esperienza estetica e la bellezza, che passa in questi casi attraverso il teatro, la musica e la letteratura, possa lavorare all’emancipazione e all’estensione delle capacità e delle possibilità dei bambini; con il consorzio di cooperative che lavora con la marginalità dal Molise fino alla Calabria, Sale della Terra, che ha sede a Benevento, stiamo sviluppando un progetto analogo; e a Napoli, in particolare col dipartimento, collaboriamo con i Maestri di Strada, in particolare con Cesare e Moreno, in era Covid i Maestri di Strada sono stati quelli che hanno in qualche modo provato a far fronte ai drammi che si consumavano in particolare nelle periferie della città di Napoli.
Research Based Learning
Qual è il modello di lavoro? Rapidamente, il modello di lavoro va sotto il nome “research based learning”, cioè lo sviluppo, il sostegno e l’apprendimento nelle aree marginali che è basato sulla ricerca, in questo caso non la ricerca che facciamo io e il Professor Compare, che è qui è che è stato mio collega a Bergamo per dieci anni, ma lavorando sulle emozioni di base della ricerca e della curiosità che è tipica di noi esseri umani, e cercando di innestare dentro l’esperienza dei bambini e delle bambine e degli adolescenti delle opportunità che passano attraverso l’esperienza estetica e la bellezza, e quindi attraverso l’arte la cultura, e che mirano ad aumentare la loro sensibilità e la loro capacità di riconoscere se stessi, e di riconoscere la realtà nella quale vivono.
Queste sono semplicemente alcune delle considerazioni che stanno alla base del lavoro che stiamo facendo, non c’è molto tempo, ma qui in particolare, questo è un saggio di Vittorio Gallese, che è uno dei compagni di strada della ricerca sull’esperienza estetica del dipartimento di neuroscienze di Parma, in cui stiamo lavorando in questa fase storica; abbiamo voluto verificare che cosa succede a noi esseri umani, in particolare a partire dalla pandemia, quando viviamo esperienze di deprivazione della prossemica e di deprivazione del contatto, quali tipi di sé costruiamo a partire dall’idea che noi esseri umani non scegliamo di costruirci un sé, un sé si costruisce comunque, e che i processi empatici ancora a loro volta non sono una scelta e l’empatia non è una scelta. L’empatia è una dotazione neurofisiologica di carattere naturale che permette a me di sentire quello che sente l’altro prima ancora che io decida di farlo, e quindi la responsabilità che abbiamo rispetto all’empatia sta dell’uso che ne facciamo poi, una volta sentito quello che stiamo sentendo e che stiamo vivendo. Ebbene, quali sono i paradigmi che stanno alla base?
Intersoggettività, socialità e cultura
In primo luogo il paradigma corporeo intersoggettivo, cioè il processo di capacitazione, si basa in noi esseri umani su delle variabili che sono ormai evidenti e che nell’ultimo quarto di secolo sono state evidenziate sempre di più dalla ricerca neuroscientifica, in particolare a partire dalla scoperta dei sistemi mirror del cervello, non solo di noi umani ma di altri esseri come gli uccelli e le scimmie. Ebbene, questo paradigma corporeo intersoggettivo che cosa ha combinato? Fatemelo dire così, ha combinato il fatto che, noi oggi sappiamo, è un paradosso concepire un io senza un noi, il noi è il fondamento dell’individuazione personale. Dalla quattordicesima settimana di gestazione, informazione che certamente conoscete, un feto sviluppa un’interazione sistematica con la madre, e attraverso la madre con il mondo, che fa di lui un essere che quando nasce non è più portatore di quella cosa che ci avevano insegnato essere la tabula rasa. È un essere intersoggettivo che ha costruito la propria intersoggettività sistematicamente, e da quella intersoggettività trae la propria individuazione. Tradotta come al bar, per fare una mente ce ne vogliono almeno due. E, quindi, se è la relazione il luogo di tutte le possibilità e di tutti i problemi, perché siamo legati agli altri da risonanza incarnata con loro, dicevamo ieri sera a cena: la mente è fortemente inculturata. Usiamo sempre queste quattro E per definire la mente umana, perché in inglese le parole cominciano tutte per E: è embodied, incarnata, è embedded, situata in una cultura, è extended, cioè estesa gli altri, ed è emerged, cioè continua a emergere nel corso del tempo. Questa è una buona notizia per affrontare le problematiche dell’emarginazione, delle periferie e delle criticità sociali delle periferie, purché si consideri l’importanza di partire dall’esperienza, di partire dalle potenzialità, e non chiamarle potenzialità residue. Sono potenzialità specifiche, sono quelle potenzialità lì, e che rappresentano l’humus fondamentale perché funzioni un progetto urbanistico. Perché quanti progetti urbanistici abbiamo visto realizzare con una logica top-down, e rimanere poi a loro volta dei contenitori di marginalità? Ci sono esempi straordinari, non è il caso che io faccia delle citazioni. Naturalmente contiamo sull’intentional attunement, cioè sul fatto che noi siamo sistematicamente connessi agli altri da una modulazione intenzionale. Se siamo seduti in un posto e uno ci dice buongiorno, qualunque cosa facciamo stiamo interagendo con lui o con lei, non ci è dato di sospendere la dimensione di risonanza e quindi di modulazione intenzionale. Sappiamo con chiarezza oggi che è il sistema sensorimotorio che determina la cognizione, e questo autorizza il grande problema del paradigma spaziale che userò fra un attimo: una mente è figlia di una molteplicità condivisa. Ci sono culture nelle periferie. Meritano di essere considerate come tali, nel senso che sono semiosi, portatrici di valori. Lasciate perdere il moralismo che giudica quei valori, l’unica possibilità di intervenire lì è partire da quei valori, non ce n’è un’altra. Non esiste un modello da esportare o da importare da qualche parte.
Naturalmente, il paradigma intersoggettivo e corporeo si connette con il paradigma spaziale e il contesto, e qui al centro c’è il sistema sensorimotorio che produce la nostra capacità di conoscere. L’abbiamo trascurato a lungo il corpo, cinquanta-sessant’anni di cognitivismo hanno lasciato tracce molto problematiche, in particolare nella mia disciplina. Fondamentale è il movimento, fondamentale è la possibilità di muoversi nello spazio, e quindi la connessione con le semiosi sapendo che le appartenenze non sono statiche, le appartenenze sono nomadi, e quindi se vogliamo che le periferie siano non confini, ma margini, e se vogliamo che in quei margini in cui c’è movimento ci sia generatività, noi abbiamo bisogno di stabilire processi che valorizzino l’empatia con lo spazio, l’empatia con i luoghi, e questo naturalmente ci porta, e ho concluso, a che cosa?
Worlding
A considerare che, dovunque ci sono delle donne, degli uomini, dei bambini, delle bambine e degli adolescenti, quelli stanno facendo worlding, cioè stanno costruendo mondi. La condizione essenziale per interagire con quella realtà è partire dal modo in cui costruiscono mondi. Quel modo contiene non solo qualcosa da cambiare, ma la base su cui innestare un’azione possibile, e quindi questo ci porta in una prospettiva che è una prospettiva coevolutiva con qualsiasi realtà, anche la più gravemente emarginata. Perché in quella realtà gravemente emarginata, penso al quartiere Zen di Palermo, ci sono reti di relazioni tra esseri umani in atto, che producono mondi. Naturalmente, in quella cornice si producono le possibilità di sviluppare capacitazione, fornendo opportunità che più sono coerenti con quel modo di fare mondi, più risulteranno efficaci.