di GENEROSO PICONE.*
Trent’anni, più o meno l’intervallo di tempo che Jan Assmann indica necessario per sedimentare il ricordo in forma di memoria, probabilmente non sono bastati per assegnare una definizione plausibile a Pier Vittorio Tondelli e quindi riportarne alla mente il profilo oggi nel terzo decennio dalla sua morte, il 16 dicembre 1991 a soli 36 anni, ucciso dall’Aids.

© foto di Alberto Roveri/ Getty Images
Per quanto possa bastare l’etichetta di scrittore, occorrerebbe comunque legare quest’impegno alla necessità che lui viveva di esprimere sulla pagina la dimensione intima della sua persona, trasfigurandola in un gioco di esibizionismi e ritrosie che nel romanzo sentimentale ha trovato esiti importanti. Ma poi è stato soltanto uno scrittore o invece alla figura dell’autore di narrativa non ha pure accoppiato l’attività di giornalista, il cimento dell’operatore culturale, l’indagine curiosa dei fatti costume, la frequentazione della musica, del teatro e del cinema, la scoperta di talenti e altro ancora? L’inquietudine intellettuale che lo muoveva, nomade ed errabonda fino a rivelarsi febbrile, gli consegna certamente il profilo del “Viaggiatore solitario”, come è titolato il racconto del suo percorso attraverso conversazioni e interviste messo a punto da Fulvio Panzeri, l’amico biografo purtroppo prematuramente scomparso poco prima dell’uscita del libro (Bompiani, pagg. 292, euro 13): resterebbe da stabilire, per comprendere a pieno la qualità della sua impresa, quale territorio abbia inteso attraversare. A partire da dove, per tentare di arrivare a che cosa. Dunque, soltanto uno scrittore?
Autore dello scandaloso “Altri libertini”, il romanzo che lo rivelò nel 1980, poi di “Pao Pao” nel 1982, di “Rimini” nel 1985, di “Biglietti agli amici” nel 1986 e di “Camere separate” nel 1989, del testo teatrale “Dinner party” e dei reportage di “Un week end postmoderno. Cronache degli anni ottanta” nel 1990 e “L’abbandono” uscito postumo nel 1993, l’artefice dei progetti “Giovani blues”, “Belli & perversi” e “Papergang” nel 1986, 1987 e 1990, Pier Vittorio Tondelli confessava di scrivere “per l’insopprimibile bisogno di mascherarmi in una storia di cui vorrei far parte” e per lui la pratica – il mestiere – dello scrittore andava a costituire la possibilità di una osservazione discreta della realtà attorno a sé, per raccontarla attraverso il filtro di una interiore mediazione.

Pier Vittorio Tondelli difenderà sempre e comunque l’esercizio letterario, attribuendo a questo dignità assoluta in un periodo di sommovimenti tellurici e attentati al suo statuto istituzionale. Non sarà, quindi, un innovatore, anzi con il tempo la sua pratica recupererà un margine significativo di classicità, nei modelli e nei riferimenti. E la sua sentimentalità sarà declinata così nella curva tra il ’77 delle rivolte creative e gli anni ’80 del vitalismo edonista. Ma lui è probabilmente l’autore che acquisisce la consapevolezza più matura del fatto che la letteratura non ha più la centralità di strumento di espressione e di comunicazione. Da sola mostra di non farcela più. E’ come se l’house of fiction descritta ad Henry James non abbia più, o soltanto, scaffali pieni di libri e porte e finestre che si aprono su altre stanze zeppe di volumi, la casa della finzione dove un tempo di entrava, si prendeva un testo e si cominciava a raccontare storie a partire da quella lettura. Il luogo metaforico a cui accede Tondelli contiene libri e anche dischi, film, videoclip, opere d’arte sperimentali, installazioni, musica rock, fumetti, lavori di grafica, rappresentazioni teatrali d’avanguardia. Materiali magari accatastati alla rinfusa e disordinatamente, masscult e midcult, un enorme, caotico, brillante, stupefacente magazzino delle merci culturali. Se Pier Vittorio Tondelli non ritenesse “grottesco prendere il postmoderno con un atteggiamento di estrema serietà”, quel laboratorio potrebbe essere definito proprio postmoderno. L’officina dove la realtà affida il suo racconto a nuove e varie opportunità.
Si tratta di nuove e varie porte e finestre che danno spazio a un immaginario inedito e spesso irriguardoso di canoni e rubricazioni. Lo compongono le atmosfere alla Charles Bukowski, Jack Kerouac e Selby Hubert jr, la via Emilia di Silvio D’Arzo, Antonio Delfini e Gianni Celati che si riannoda con il West, il Postoristoro e Amsterdam, svia verso Brian Eno, Peter Handke, i Clash, Wystan Hugh Auden, gli Smiths, Ingeborg Bachmann, i Tuxedomoon, Thomas Bernhard, Freak Antoni, Roland Barthes, Andrea Pazienza, Frederick Prokosch nella cui casa a Grasse, in Costa azzurra, Tondelli si reca in uno dei suoi intensi pellegrinaggi letterari. Prokosch è appena morto, uno dei “compagni di viaggio a cui si è chiesto per anni, attraverso la voce del testo, protezione e illuminazione”. La sua cifra di giovane scrittore si ritrova esattamente in questa posizione. Dopo di lui, l’etichetta è stata assorbita da una insopportabile moda editoriale. Molta fuffa e poca letteratura. Tanto rumore e poi nulla. Marketing editoriale.

A ben vedere, tutti i testi di Tondelli sono stati biglietti agli amici in attesa di risposta. Una avrebbe ripagato Tondelli di ogni ansia: quando uscì “Week end postmoderno” ne inviò una copia all’autore che più amava, Alberto Arbasino. Non sempre tenero con lui, gli scrisse la dedica “Un po’ di filologia della nostra gioventù”. Arbasino, il giorno della sua morte, confessò che “poche volte una incomprensione generazionale era stata così autentica”. Troppo tardi. Pier Vittorio Tondelli non ebbe possibilità di leggerla. Il viaggio era terminato.
DA “IL MATTINO” DEL 16/12/2021






