di UGO MORELLI.
Non è facile accingersi ad affrontare una questione difficile. Sembrerebbe banale, ma ci sono questioni più difficili di altre. Quella che ci proponiamo di affrontare qui lo è in particolar modo. Bisogna in primo luogo disporsi ad usare parole sature, sovraccariche, equivoche, corrotte, e per questo ed altro, difficili. Usarle però come parole che provocano, cercando di performarle, convertendole. Connettere la loro etimologia con l’evoluzione semantica del loro uso, fino a estrarne un significato attuale e appropriato al presente, può essere una via per riconoscere la crisi del linguaggio della democrazia e possibili vie d’uscita. La prima di quelle parole è autorità. Così come la parola potere è automaticamente deformata verso il dominio e come tale rifiutata, o almeno, anche giustamente, scansata, allo stesso modo la parola autorità è identificata quasi sempre e immediatamente con l’autoritarismo e con la personalità autoritaria. Accade qualcosa del genere anche a proposito del rapporto tra due parole come autonomia e dipendenza. La prima è cercata, associata a valori positivi e addirittura celebrata come sinonimo di libertà; la seconda è deprecata e, oltre che utilizzata per indicare patologie e disagi diversi, è considerata come sinonimo di debolezza e precarietà.

Cercare di districarsi in questa selva di significati non è per niente facile, eppure sembra necessario per cercare di comprendere qualcosa dell’attuale crisi della democrazia e delle possibili evoluzioni, adoperando gli strumenti propri della psicologia del potere.
Una via può essere il gioco del rovescio. L’individuazione di un insieme di parole che sono ormai ideologicamente associate alla democrazia e che pretendono di definirne natura e prassi. Quelle parole, tra le altre, sono: autonomia, appunto; partecipazione; parità; uguaglianza; condivisione. Ce ne sarebbero altre ma intanto conviene riflettere su queste. Come è evidente si tratta di parole impegnative a loro volta. Soprattutto perché vengono usate non come complementari e reciproche dell’autorità, ma come alternative o opposte ad essa. Come quando si assume più o meno tacitamente che in una data situazione o in una relazione, se c’è autorità non c’è partecipazione; se c’è autonomia non c’è dipendenza; se c’è cooperazione allora non c’è conflitto; se c’è cooperazione allora si è tutti uguali e tutto, ad ogni livello, deve essere condiviso all’unanimità; se c’è uguaglianza non ci devono essere differenze; e l’uguaglianza delle opportunità è la stessa cosa dell’uguaglianza dei trattamenti.
Gli orientamenti, e le prassi conseguenti, richiamati da ultimo non sono solo pensieri più o meno condivisi, ma hanno creato e creano una vera e propria cultura organizzativa, istituzionale e sociale. Ne emerge un modo di pensare e di agire che ha progressivamente informato di sé istituzioni e popolazioni, mettendo in discussione il buon funzionamento della democrazia, come una sabbia corrosiva che si è insinuata nei suoi ingranaggi fino, non solo a bloccarne la dinamica, ma spesso a causare dinamiche opposte ai principi elementari della democrazia stessa, o a favorire e consentire un utilizzo di quegli ingranaggi e di quelle dinamiche contro la democrazia. Dal momento che quegli ingranaggi e quelle dinamiche sono tra i più fragili che si conoscano, essendo la democrazia un sistema di governo che trae la propria forza dalla sua fragilità, i rischi di degenerazione e di crisi si fanno particolarmente sentire. I modi più appropriati che si conoscano per affrontare quella fragilità costitutiva e fare in modo che mantenga vitalità nel tempo, riguardano in buona misura la capacità di contenere contemporaneamente autorità e partecipazione; cooperazione e conflitto; differenze e uguaglianza; autonomia e dipendenza; unicità e condivisione. Come del resto accade o dovrebbe accadere in ogni relazione intersoggettiva e in ogni molteplicità condivisa. Sì, perché è la relazione la matrice della democrazia, e questo ne fa forse il sistema di governo più adatto e confacente a degli animali relazionali quali noi siamo.
Proprio quella relazione facciamo fatica a riconoscere e ad abitare, ritenendola un accessorio opzionale dell’individualità e non la condizione stessa dell’individuazione psichica e collettiva. Sia le derive scientiste che rischiano di fare della stessa scienza una fede, sia le altrettanto perniciose derive magico-populiste, con i loro portati di certezza presunta e appagante, che non mette mai in discussione l’attore, confermando le sue pretese di stare fuori dal sistema che osserva, si mostrano mine pericolose per la fragilità democratica.
Non risolvono il problema, anche se aiutano a definirlo, i tentativi di evidenziare bias e forme di autoinganno da parte di noi umani, se poi il sottofondo è una presunta metarazionalità che permetterebbe di epurare la razionalità dai suoi limiti, come si può criticamente riconoscere negli approcci, pur importanti, di D. Kahneman o di R. Thaler. Di un certo interesse è la critica di G. Gigerenzer, che cerca di trattare gli stessi bias come risorse cognitive e come metodi di ragionamento veloci che, certo, possono incorrere in inganni, ma in molti casi si propongono come risolutivi generando soluzioni sub-ottimali e appropriate. Un pensiero purificato libero da bias si avvicina troppo a un pensiero totalizzante e totalitario che nulla ha a che fare con la sana fallibilità della democrazia. L’adozione di un pragmatismo sperimentale (con regole di validazione-falsificazione esplicite), sembra possa costituire una via d’uscita da questi dilemmi. Viene in aiuto la convinzione che sia meglio spingere all’uso della ragione, anziché ricorrere a superuomini che dovrebbero indurre comportamenti (sia pure nominati entro le regole della democrazia) che si fanno interpreti “autentici” di quanto esseri fallibili potrebbero volere se non fossero accecati dalle loro stesse menti.
Si profilano allora due possibili prospettive che fanno entrambe riferimento all’autorità, intesa come necessità di emissione di segnali attendibili, sottoposta e temperata continuamente e conflittualmente dalla partecipazione. Non dimenticando che l’autorità ha la sua radice in augere, emettere, e che la radice del potere è possum, la stessa di possibilità. Sono le buone forme di esercizio del potere e dell’autorità che si rendono necessarie per far vivere la democrazia, fondate sul confronto e la partecipazione, contro le cattive forme basate sul dominio e sull’esclusione.
Vi è in primo luogo la prospettiva dell’autorità interna o interiore.
Ha a che fare con la volontà di agire, con l’autocritica permanente, con l’autoesame, compatibile con la critica di se stessi. È necessaria una efficace elaborazione del conflitto interiore tra il processo spontaneo di self-deception che è in noi e che produce false percezioni di se stessi, negando e rimuovendo il negativo e il vergognoso, e la ricerca e la disposizione a riconoscerli e elaborarli. Una resistenza interiore ben temperata può aiutare a resistere alle isterie collettive, all’odio che si manifesta nella vita delle società. Un’autorità interiore così elaborata sarebbe in grado di gestire il conflitto intrapsichico e di creare un distanziamento riflessivo da sé, come condizione preliminare a tutte le altre forme possibili di autorità.
In secondo luogo, vi è la dimensione istituzionale e collettiva dell’autorità.
Nel leggere il resoconto di Emmanuel Carrère sul processo per la strage del Bataclan, si possono riconoscere alcuni dei risvolti della crisi dell’autorità come esercizio della responsabilità a livello delle istituzioni. Gli atti dell’istruttoria indicano che gli investigatori che indagarono e perquisirono il caffè dove erano stati organizzati tutti gli aspetti logistici degli attentati impiegarono quindici minuti per le operazioni. Il poliziotto belga, chiamato a renderne conto in sede di testimonianza, ha avuto un momento di difficoltà, soprattutto quando gli è stato chiesto perché la sua squadra non avesse avuto la curiosità di scendere nella cantina dove era tenuto l’arsenale: “Ah! C’era una cantina?”, ha chiesto il poliziotto. Un paio di giorni dopo, un altro investigatore belga, sempre in sede di testimonianza, ha raccontato che i suoi collaboratori, nella primavera del 2015 avevano interrogato Brahim, sospettato di processi terroristici. Poi lo avevano rilasciato. “Perché”, ha chiesto il giudice. “Perché”, ha risposto il poliziotto, “niente nelle sue risposte lasciava ritenere che avesse dei progetti terroristici”. “Ma”, chiede stupito il presidente del tribunale, “su quali basi siete giunti a questa conclusione?” “Be’, glielo abbiamo chiesto”.
La responsabilità di ogni posizione richiede l’autorità corrispondente e quell’autorità deve essere temperata a sua volta da un principio di responsabilità e di partecipazione. L’autonomia di un singolo o di un gruppo non può non essere coniugata con la dipendenza da regole e istituzioni, salvo cambiare quelle regole quando si riesce a individuare un’innovazione ritenuta necessaria magari da una minoranza e riconosciuta dalla maggioranza. Quella dipendenza non è solo un vincolo, ma condizione stessa dell’espressione e della crescita di ognuno e dell’individuazione psichica e collettiva.
Se l’istituzione e la vita collettiva non sono solo aspetti formali della nostra esperienza, ma il loro valore dipende dall’interiorizzazione simbolica e operativa delle loro funzioni, l’autorità andrebbe riconosciuta come base di relazioni asimmetriche necessarie per le relazioni e per ogni convivenza possibile. Come ha sostenuto Kenneth Arrow, l’autorità è necessaria, se persino Minerva si era dotata della nottula, poiché, anche se dea della saggezza, dell’ingegno e della conoscenza, al crepuscolo non solo non basta a se stessa, ma necessita di dipendere dal sostegno da parte di un altro essere che l’aiuti a vedere quel che da sola non vedrebbe.
La forza fragile della democrazia esige, quindi, accanto alle deleghe e ai processi partecipativi e assembleari su cui la democrazia si regge, un continuo e impegnativo esercizio dell’autorità interiore o intrapsichica, relazionale e istituzionale.