di BIANCA MARIA PALADINO.
Ho conosciuto Celati ventitré anni fa, nel 1999 a Bisaccia, a casa di Franco Arminio. Aveva l’età che ho io adesso e viveva già a Brighton. In quegli anni Franco aveva un sogno bellissimo: voleva realizzare nel Castello di Bisaccia un centro internazionale di poesia. Invitava scrittori e poeti che svolgevano degli interventi sulla poesia o presentavano dei volumi di recente pubblicazione nella sala del Castello e li ospitava a casa sua. Spesso, a stretto giro (si fa per dire) del pubblico, la conversazione continuava generosamente a tavola a casa Arminio.

Quel pomeriggio l’incontro aveva per tema la lettura ad alta voce. Gianni sosteneva la necessità di tornare a questo tipo di lettura. Oggi sembra banale, ma allora si prospettava come una rivoluzione/restaurazione in Italia: rivoluzione perché sembrava inaccettabile rinunciare alla lettura silenziosa e privata, restaurazione perché significava voler tornare ad un rito antico. Gli audiolibri inoltre esistevano diffusamente in Inghilterra, ma non in Italia. Celati sosteneva che tutti dovrebbero cimentarsi con la lettura a voce alta, specie per la poesia, non solo perché le parole sono “volatili” come amava dire, ma perché in questa forma si esprime il segno della comunità e ci si orienta all’ascolto dell’altro, al suo tono, ai tempi, le pause, il respiro. Ricordo che lesse alcuni testi. La sua voce era dolcissima e bassa, ma al tempo stesso incisiva. Le sue mani sottili, come doveva essere stata la sua figura giovanile, si muovevano mentre leggeva come a governare il suono delle parole e le pause della punteggiatura. Fu una vera lezione di lettura e un ascolto mistico quanto un buon concerto di musica classica. Ricordo anche che invitò alcuni a provare al suo posto ed in particolare chiese alla moglie di Franco di leggere alcune pagine.
Poi andammo tutti a cena a casa Arminio. Gianni si offrì subito di collaborare ai preparativi e mi chiese di aiutarlo ad apparecchiare la tavola, così con semplicità. Indossava un maglione grigio su una camicia beige che ho riconosciuto in una foto pubblicata da Franco proprio in questi giorni. In quella foto lui e Celati sono vicini e tagliano una torta. Quasi certamente è un momento della sera del mio incontro con lui. Le foto, le parole, i viaggi, le cose semplici e apparentemente insignificanti, quel “niente che non corrisponde a niente, il niente del cielo e dell’universo, o il niente che hanno gli altri che non hanno niente”, come scrive a chiusura di Avventure in Africa (Feltrinelli 1998) sono la sintesi di ciò che contava per lui. In ogni suo testo si può trovare traccia dell’importanza che dava a ciò che lo circondava “un’intensa osservazione del mondo esterno ci rende meno apatici (più pazzi o più soavi, più allegri o più disperati)” perché i viaggi sono “l’attraversamento d’una specie di deserto di solitudine, che però è anche la vita normale di tutti i giorni”, Verso la foce (Feltrinelli, 1989).

Era una persona informale e geniale che riservava al suo interlocutore un elevato grado di attenzione nell’ascolto. D’altra parte aveva rinunciato alla cattedra di letteratura americana all’Università di Bologna dichiarando che voleva “guadagnarsi il pane onestamente”, cioè ribellandosi ai compromessi dei ruoli accademici, ma senza rinunciare alla passione per la letteratura fatta di attenzione estrema alle parole e ai dettagli. Memorabili restano le sue traduzioni di testi importanti e significativi proprio in relazione a ciò che gli interessava (Ulisse di Joice, Linea d’ombra di Conrad, Barthes di Roland Barthes, Bartleby lo scrivano di Melville ed altre). Persino dai titoli di alcuni suoi libri si intuisce che siamo di fronte ad un letterato raffinato che tende a “sfumare i contorni” (Quattro novelle sulle apparenze; Verso la foce; Lunario del Paradiso). E proprio nella novella I lettori di libri sono sempre più falsi c’è tutta la sua critica al mondo letterario/universitario/librario, al ruolo formale ed istituzionale dello scrittore e della scrittura: “Tutto ciò che si scrive è già polvere nel momento stesso in cui viene scritto, ed è giusto che vada a disperdersi con le altre polveri e ceneri del mondo. Scrivere è un modo di consumare il tempo, rendendogli l’omaggio che gli è dovuto: lui dà e toglie, e quello che dà è solo quello che toglie, così la sua somma è sempre lo zero, l’insostanziale. Noi chiediamo di poter celebrare questo insostanziale, e il vuoto, l’ombra, l’erba secca, le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo”.
Dunque Celati privilegiava l’ascolto; e che cos’è la traduzione se non l’ascolto? Che cos’è la lettura se non l’ascolto? In quel periodo mi stavo occupando proprio della lettura, sia del rapporto scrittura/lettura (ne avevo scritto per una rivista curata da Franco edita dal Centro Guido Dorso), sia delle statistiche di quella giovanile. Avevo appena pubblicato Preferisco leggere (Ed. Dante & Descartes, 1999), il monitoraggio di un progetto di lettura nella scuola media “Leonardo da Vinci” di Avellino, realizzato in applicazione di un progetto del 1995 del Ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Berlinguer. Cominciavo anche a sviluppare gli esiti di un questionario sottoposto a bambini e ragazzi della circoscrizione scolastica di Avellino, commissionata dall’Assessore alla Cultura cittadina, Generoso Picone, diventato poi il testo La lettura invisibile (Ed. Dante & Descartes, 2000). Mi confrontai con lui su questi argomenti ed era curioso di conoscere il livello di attenzione dei nostri giovanissimi alla lettura, anche perché in quei giorni presentavano ad Angri (Sa) un volume a cura di Enrico De Vivo, Racconti impensati di ragazzini, Feltrinelli 1999 con una sua presentazione dal titolo Leggere e scrivere.

Di quell’incontro ho sempre serbato un bellissimo ricordo riaffiorato in una circostanza così triste. Sono stati quelli in Irpinia anni di scambi, condivisioni, progetti e di gioia per le passioni condivise, sebbene nei diversi orientamenti. Come Celati anche io ritengo che la lettura sia più importante di certa scrittura. Della letteratura bisogna “ubriacarsi” al punto che poi te ne devi liberare per accedere a quella leggerezza che te la rende vicina. Ecco se dovessi definire l’incontro con Celati direi che è stato come percepire un soffio, come il vento che muove una tenda leggera. Capisci che lui conteneva tutto e restituiva quella “polvere delle parole”, quelle pianure infinite in cui puoi immaginare cose.