Introduzione al libro di Claudio Bruno, Via Appia e Borghi
di UGO MORELLI.
Esistono storie che non esistono più, per colpa degli uomini.
Allo stesso tempo resistono storie che non esistono, perché gli uomini le hanno inventate e poi ci hanno creduto.
Così puoi essere un bambino che crede di percorrere un tratto della via Appia andando a scuola, anche perché legge quel nome sulle pietre miliari, ma nessuno gli dice che non è quella l’Appia antica. Lo imparerà da grande, insieme alle delusioni e alle amarezze per l’incuria dei luoghi, dei paesaggi e della memoria.

I posti esistono se divengono luoghi, diversamente smettono di esserlo. Sono gli esseri umani che con le loro azioni fanno di ogni posto un luogo. Quei luoghi non sono più se sono vittime dell’indifferenza e non ospitano più le voci che li narrano. Come scrive Lev Vygotskij: “Nella sfera dello sviluppo psicologico avviene qualcosa di simile a ciò che già da tempo è stabilito riguardo allo sviluppo organico. Come nel processo dello sviluppo storico l’uomo modifica non i propri organi naturali, ma i propri strumenti, così nel processo dello sviluppo psicologico l’uomo perfeziona il funzionamento del suo intelletto principalmente mediante lo sviluppo di particolari ‘mezzi ausiliari’ tecnici di pensiero e di comportamento”. [L. Vygotskij, A. Lurija, La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento, (1930) Mimesis, Milano 2020].
Da quando esiste l’uomo, esistono storie che non esistono.
Noi sapiens in realtà non siamo tali perché sapienti, ma soprattutto perché siamo capaci di “sospensione dell’incredulità” (di fronte alle storie).
Sappiamo esercitare il dubbio e utilizzare la razionalità, ma allo stesso tempo siamo in grado di ritenere credibile ciò che è palesemente non credibile e impossibile.
Per questa via finiamo per consegnarci alle notizie e alle storie false, alle false illusioni, alle tradizioni inventate, agli autoinganni, e crediamo possibile affidarci all’inaffidabile.
Siamo di fronte a questioni che oggi assumono caratteristiche di criticità elevatissima e ci espongono a rischi tali da mettere in discussione la convivenza e la democrazia.
Il rapporto con la storia e la memoria che, in particolare in alcune aree, si manifesta, mostra non solo la grave carenza di senso storico e di attenzione al valore delle tracce archeologiche e della memoria, ma risulta sostituito da rappresentazioni e convinzioni particolarmente distorte e fallaci.
Quella della via Appia antica, non solo è una memoria calpestata, che in buona misura non esiste più o è irriconoscibile, ma è reiventata in modi distorti e interessati, sia per scopi di piccolo cabotaggio turistico, sia per celebrarne occasionalmente l’esistenza, dopo averne depredato la sostanza.
Eppure, quella capacità di inventare ha permesso alla specie sapiens del genere homo di prevalere sugli altri uomini e certamente di divenire pervasiva e purtroppo distruttrice, non solo nei confronti del sistema vivente, ma anche della sua stessa memoria e delle sue stesse tracce.
Quella caratteristica unica della nostra specie non è semplicemente il linguaggio (tutti gli animali ne hanno uno), ma un linguaggio unico con cui abbiamo sviluppato (senza sapere ancora come, e perché) la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto. Per quanto ne sappiamo, solo i sapiens sono in grado di parlare di intere categorie di cose che non hanno mai visto, toccato o odorato. Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la rivoluzione cognitiva. In precedenza, molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attenzione! Un leone!”. Grazie alla Rivoluzione cognitiva, l’homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù”. Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio di homo sapiens. Chi passa ore a pregare inesistenti spiriti guardiani, non spreca tempo prezioso che sarebbe meglio dedicare a cercare cibo, a combattere o a fornicare? Ma la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente.

L’educazione e l’organizzazione della vita e degli spazi sono divenuti, da un certo momento in poi, soprattutto in alcuni luoghi dell’Italia e in particolare nelle comunità meridionali, materia indifferente. Con l’avvento del digitale, è come se quell’indifferenza si fosse aggravata, con una combinazione fra distrazione della memoria e sua riduzione a schegge improvvisate. Anche se sappiamo che dovremmo spostarci dalla ripetizione e promuovere tutto ciò che è esclusivamente umano, che non è alla portata di nessun computer, di fatto la consapevolezza dei luoghi e delle tracce sta subendo un’ulteriore consunzione. È lì che non trova la sua ragion d’essere e il suo scopo ogni azione formativa, ogni azione, cioè, che voglia mettere in forma il nuovo mondo nel quale già viviamo.
Le piattaforme digitali che noi oggi subiamo sono il complemento tecnico che costituisce l’unico tratto distintivo per definire la natura umana.
Vi è da sempre un fondamento antropologico della tecnica come quella della mutua dipendenza tra umani e piattaforme, con dinamiche di padronanza della tecnica da parte degli umani, di relativo equilibrio nell’uso, o di sudditanza, come ora accade per le piattaforme digitali.
La tecnica è comunque quel che distingue una specie come quella umana e ne è parte integrante, seppur spesso vissuta come esterna e come dominante. Quando la tecnica domina l’umano, è l’umano che si fa dominare.
Se il complemento tecnico è l’unico nostro tratto distintivo, tekne, che per i greci indicava l’arte e la capacità creativa umana in senso lato fino alla tecnologia, è la nostra effettiva distinzione e anche la nostra possibilità poietica.
Nonostante ciò, quello a cui assistiamo è una edulcorazione ulteriore della memoria e, nonostante le potenzialità tecnologiche, in alcuni luoghi la memoria archeologica, oltre che sotto le erbacce e l’incuria, rimane ulteriormente sepolta sotto l’indifferenza e la superficialità indotte dalla tecnologia digitale.
È l’educazione insomma, non la nascita, il fattore responsabile del divenire esponenti della specie umana e di esserne degni. Sono la creazione e invenzione di mezzi e strumenti tecnici ausiliari che fanno da amplificatori e estensori delle potenzialità puramente sensoriali dell’uomo, che trasformano le funzioni psichiche naturali in funzioni superiori mediate dal significato simbolico che assumono agendo nella storia dell’uomo.
“Insomma, io proclamo che tutta la città è la scuola della Grecia e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare ogni situazione”. [Pericle, nel discorso in occasione della celebrazione dei morti nella guerra del Peloponneso, 431 a.C.].
Tra giusta distanza dalla storia e dalla memoria, senso di colpa e coscienza autonoetica, lungo quella che fu la via Appia, oggi prevale l’indifferenza.
In Odissea, XVII, 300-302, leggiamo: «là giaceva il cane Argo, pieno di zecche. E allora, come sentì (ἐνόησεν) vicino Odisseo, mosse la coda». Poteva non muovere la coda, il cane Argo? Non ne sappiamo abbastanza per dire qualcosa di definitivo. Non è neppure vero che non ne sappiamo nulla. Giorgio Vallortigara, da par suo, ha investigato a fondo la questione in un libro godibile e rigoroso da un punto di vista neuroscientifico, La mente che scodinzola. Storie di animali e di cervelli, Mondadori Università, Milano 2011. I movimenti della coda dei cani esprimono una complessa articolazione comunicativa e un’amplissima varietà di messaggi. Fin da Omero l’osservazione del movimento della coda del cane diventa un atto comunicativo dal significato evidente. Il cane riconosce Ulisse, è cosciente della sua presenza.

E tuttavia quella coscienza noetica quanto è anche autonoetica? Argo avrebbe potuto fingere di non riconoscere Ulisse? Avrebbe potuto agire come Euriclea, fingendo di non sapere e di non aver riconosciuto Ulisse? La finzione, appunto; la mimesis, inoltre. In ogni caso si tratta di comportamenti che sembrano richiedere la disposizione di una coscienza autonoetica. Non solo sapere, quindi, ma sapere di sapere; non solo vivere e morire, ma sapere di vivere e morire; non solo essere un corpo, coincidendo con se stessi, ma avere un corpo e, quindi, una relazione estrinseca con la nostra vita, come la documenta e mostra Paolo Virno, [in Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri, Torino 2020]. Le forme figurali della letteratura, ad esempio, secondo Erich Auerbach, danno a vita a “rappresentazioni letterarie” o “imitazioni” in grado di simulare l’evoluzione delle idee che gli esseri umani hanno di se stessi nel corso della storia [E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956; 2 voll.]
La finzione, l’illusione, la simulazione, l’umorismo, fino alla produzione artistica e tecnologica, sono manifestazioni di quella che forse è una distinzione evolutiva di homo sapiens sapiens. Implicano tutte, quelle manifestazioni, una capacità di presa di distanza contemporanea a una particolare forma di coinvolgimento: un coinvolgimento sensibile e distaccato allo stesso tempo. Avvicinarsi e allontanarsi, del resto, sono movimenti di particolare importanza nei processi affettivi e cognitivi dell’esperienza umana.
La distanza è, forse, appannaggio, e può emergere nella concezione, solo di chi dispone di una distinzione autonoetica riflessiva, solo di chi ha coscienza di avere coscienza di se stesso, di chi ri-flette, si flette due volte su se stesso, de-finisce una distanza dal con-testo in cui è immerso. “Essere” allo stesso tempo parte di un textum condiviso (cum), e poter sentire di “avere” quel contesto osservandolo come da fuori, è una questione di particolare complessità.
Vivere nell’acqua per un pesce è quello che è, punto. Non ci è dato di sapere e sentire cosa significa essere un pesce. Possiamo però osservare e studiare il suo comportamento. Ne ricaviamo indicazioni sulla sua appartenenza tacita, immediata e pratica al contesto in cui vive.
Il linguaggio verbale articolato, proprio dell’animale loquace, come ci definisce Paolo Virno, quel linguaggio che ci fa emergere dalla dimensione tacita di appartenenza, è certamente implicato nell’emergere e nel manifestarsi della nostra distinzione di specie nel lignaggio evolutivo. Muovendo da una verità fondamentale: l’animale umano non coincide mai del tutto con l’insieme di facoltà, disposizioni ed esperienze che possiede, e che lo distinguono dagli altri viventi.
L’animale umano vive la condizione di essere e avere, e mentre ha si rende conto di essere in una presa di distanza da se stesso che rende distintiva la presenza e l’esperienza. Quest’ultima non è mai del tutto immediata e pratica e le cose non sono mai soltanto le cose in sé, ma esistano da una relazione e da un processo di coinvolgimento e distacco.
Noi naturalizziamo l’esperienza e rendiamo tacita l’appartenenza, certo, ma siamo capaci di accorgerci, considerare, distinguerci e distanziarci dall’immediato, tacito e pratico appartenere a. C’è gioco tra noi e noi stessi, tra noi e gli altri e tra noi e le cose: uno spazio vuoto nel quale si generano il senso e il significato mediante cui accediamo alla conoscenza [Joseph LeDoux, Lunga storia di noi stessi. Come il cervello diventa cosciente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020; in particolare pp. 451-459].

A proposito della coscienza autonoetica riflessiva e l’uso che ne facciamo, è però utile domandarsi: quella distanza è sempre giusta?
Noi siamo capaci di fingere. Con il sostegno collettivo. A parte pochi sensibili e altrettanti eletti. Tale finzione ha portato al superamento della cosiddetta “quota 150”: una volta varcata questa cifra in un gruppo, cioè, diventa impossibile per la “guida” continuare a essere leader di quella “collettività” nello stesso modo. In altre parole, avere il controllo su 1500 individui o su un milione e mezzo di persone non può essere uguale a “governare” un gruppo di un centinaio di consimili. Allora, come ha fatto homo sapiens ad attraversare questa soglia critica, arrivando a fondare città con decine di migliaia di abitanti e poi imperi che governavano e governano centinaia di milioni di persone? Il segreto sta probabilmente nella comparsa della finzione. Grandi numeri di estranei riescono a cooperare con successo attraverso la credenza in miti comuni. Basti pensare che questi miti, questa finzione, questa fascinazione sono giunti quasi intatti sino a noi, come nel caso delle grandi epopee, dei miti della creazione, della Bibbia, ma anche dell’Iliade e dell’Odissea. Paiono indistruttibili nella loro infondatezza: fondamenta invisibili danno alla costruzione maggiore vigore, perché la costruzione stessa non esiste, non è dunque costrizione, piuttosto espansione, una espansione che è sociale, psicologica, corale. Abbiamo insomma creato due mondi, quello della realtà oggettiva e quello della realtà immaginata, estremamente funzionali e interdipendenti, ed è quanto sostiene Bianca Sorrentino nel suo Pensare come Ulisse [Il Saggiatore, 2021]: «questo nostro stare sulla soglia dell’eterno ci permette così di frequentare due mondi, di coglierne il dialogo silenzioso e duraturo, di rintracciare anche ferite e memorie nei luoghi delle nostre modernissime e vive inquietudini».
La qualità dei mondi in cui ci capita di vivere dipende strettamente dalla nostra capacità di tenere alta la tensione del dialogo tra il mondo della realtà oggettiva e il mondo della realtà immaginata. Quando questo dialogo viene in meno la realtà immaginata si sposta in immaginari posticci come sono ad esempio quelli tipici di una società iper-consumistica basata su una modernizzazione senza sviluppo, qual è quella di buona parte delle aree delle regioni meridionali italiane, e la memoria e il valore dei luoghi si dileguano lasciando sul terreno solo simulacri abbandonati che si configurano come imposture, non del destino, ma delle scelte degli esseri umani.
La cultura è futuro. Ci può essere un popolo disposto al dialogo e al confronto, sui temi della libertà e della responsabilità, della storia e della vivibilità: un respiro culturale e civile nei luoghi della vita, piccoli e grandi, fatti di storie semplici e della grande storia, come la via Appia. Quando si dice la cultura, ne vanno considerati i piccoli e i grandi eventi, purché capaci di dialogare tra luoghi e mondo, tra micro e macro, tra società, forme di vita, presente e futuro. Alcune cose, la cultura che voglia innalzare il livello della sensibilità e della civiltà non tollera: il posticcio e il sovrapposto, l’improvvisato e il populismo, la mera subordinazione alla logica degli incassi, del cosiddetto indotto e della cosiddetta ricaduta. Esiste in ogni luogo un tessuto culturale che si produce nel tempo e viene a far parte di quelle comunità, di quei territori, di quelle sensibilità, con progressive innovazioni e anche con forti cambiamenti. Purché si rispettino le trame di un progetto e di una storia come basi per le trasformazioni. Una realtà come quella della via Appia è distintiva e caratterizzante e identificata anche a livello internazionale. Non nei luoghi in cui esiste. Una fitta rete di azioni culturali riguardante le singole comunità potrebbe contribuire a creare un tessuto di cura e miglioramento, anche in direzione di un turismo capace di un nuovo racconto all’insegna della sostenibilità. Un impegno in tal senso richiederebbe attenzione a fare rete fra diverse risorse disponibili per arricchire l’offerta, rimboccandosi le maniche per una effettiva e necessaria integrazione, laddove spesso ognuno canta la propria canzone e le stonature non mancano, facendo un uso purchessia del territorio stesso. Se poi, per caso, si vuole considerare il valore culturale degli eventi, allora quello che non si comprende è il disegno che collega eventi una tantum di impatto impegnativo e imprevedibile a un progetto culturale e di sviluppo degno di tale nome.

Viviamo ancora tra l’horror pleni e l’horror vacui, nella mancanza della mancanza come angoscia di saturazione e di vuoto.
A circa due anni dall’inizio della nuova era, segnata dalla pandemia, abbiamo imparato qualcosa? La risposta è purtroppo molto semplice: quasi nulla.
Ad aver imparato, e a continuare rapidamente ad imparare, è il virus. Noi, con la nostra presunzione di possedere la macchina biologica più portentosa che si conosca in natura, il cervello umano, spesso definita meravigliosa, mostriamo di apprendere meno di un essere vivente senza cervello come il virus.
Dobbiamo ammettere, per quanto ci possa dare fastidio attaccando il nostro narcisismo e la nostra presunzione, che l’apprendimento tacito che caratterizza ogni sistema vivente, quella capacità implicita nella vita stessa, non solo di riprodursi ma di adattarsi evolvendo e sfruttando le interazioni col resto del sistema vivente per selezionare le opportunità e affermare la propria continuità e la propria espansione, vede in questo momento il virus in netto vantaggio su di noi. Questo significa che stiamo facendo un pessimo uso, o che addirittura non stiamo usando, la nostra capacità di imparare ad imparare, di apprendere ad apprendere.
Se nel corso del tempo siamo andati fieri, fino ad autocollocarci sopra le parti nel sistema vivente, della nostra capacità non solo di agire ma di pensare l’agire, non solo di sapere ma di sapere di sapere, oggi dobbiamo riconoscere che quella capacità distintiva della nostra specie non è scontata e non si attiva in modo spontaneo, ma esige un investimento continuo e soprattutto un investimento in eccedenza, in grado di andare oltre la forza dell’abitudine. Le varianti evolutive con cui il virus si sta esprimendo sono una prova tangibile ed evidente della prevalenza delle capacità di apprendimento e adattamento del virus sulle nostre capacità di imparare dall’esperienza che stiamo vivendo. Basterebbe considerare i lamenti e le proteste per la chiusura degli impianti sciistici, che fanno venire in mente purtroppo la scelta di offrire il bonus vacanza in vista dell’estate del 2020. Se si poteva in quella circostanza chiamare in causa l’effetto sorpresa, l’assenza di esperienza e la cosiddetta imprevedibilità del virus, in questa circostanza, quella della riapertura degli impianti di risalita per lo sci da discesa, quella giustificazione non è più sostenibile e non dovrebbe essere praticabile.
Anche perché l’imprevedibilità del virus non è mai stata sostenibile: avevamo indicazioni precise del rischio che una pandemia con le caratteristiche di quella attuale potesse verificarsi, ma non ne abbiamo tenuto conto, ancora una volta non imparando ad imparare dai segnali anticipatori, ma vincolati e conformati all’interno dell’habitus e delle cornici dominanti.
Se si poteva inoltre esibire come si fece in quella circostanza le ragioni economiche per sostenere le vacanze a favore del settore turistico, oggi abbiamo la verifica evidente, e per certi aspetti disarmante per la sua chiarezza indubitabile, che procedendo a fisarmonica con chiusure ed aperture scriteriate, non solo non si sostiene l’economia , ma si ritarda lentamente la possibilità di uscire dai vincoli della pandemia, producendo un procrastinarsi della crisi che rischia di diventare distruttiva per il tessuto economico e per il tessuto sociale.
Una delle caratteristiche, antropologiche e psicologiche allo stesso tempo, che hanno caratterizzato l’azione, le relazioni e la storia della specie umana, è stata ed è la capacità di apprendere dall’ esperienza. Non sempre siamo stati capaci di utilizzare efficacemente questa nostra capacità, come mostrano le situazioni di collasso di intere civiltà o di crisi e scomparsa di forme organizzative economiche e sociali che si sono prodotte nel corso della storia. La domanda fondamentale che dobbiamo farci è da cosa dipende il buon uso della nostra capacità di apprendere dall’esperienza. Una domanda immediatamente successiva riguarda l’efficacia dell’apprendimento dall’ esperienza e la sua validità in ogni situazione. Se si considera la capacità di apprendere dall’ esperienza è opportuno chiamare in causa almeno due fattori che ne determinano l’efficacia. Il primo è senz’altro il tempo, in quanto il nostro sistema corpo-cervello-mente ha bisogno di tempi appropriati per poter sviluppare la propria capacità ti apprendere e cambiare. Il secondo fattore fondamentale ha più a che fare con il rapporto tra esseri umani e spazi di vita, ha una caratteristica maggiormente connessa agli aspetti antropologici e alle forme degli insediamenti antropici e quindi riguarda il nostro rapporto con l’estensione nello spazio . Combinando questi due fattori emerge chiaramente che noi siamo particolarmente caratterizzati dalla capacità di fare i conti, con l’apprendimento, con quelle cose che accadono nella contingenza della nostra esperienza, qui ed ora, e il nostro orientamento prevalente riguarda le cose che ci accadono vicino, che ci sono prossime, che percepiamo come immediatamente incidenti sulla nostra esperienza immediata e pratica. Mostriamo tuttora non poche difficoltà, inoltre, con tutto ciò che è immateriale conservando, come retaggio filogenetico e culturale una particolare propensione ad essere attenti alle dimensioni materiali dei fenomeni: ciò che non vediamo ad occhio nudo continua per noi a rappresentare una fonte impegnativa di apprendimento e di conoscenza e soprattutto una fonte difficile da praticare quando siamo di fronte alla necessità del cambiamento. Se si considera allora il ruolo del tempo e del nostro rapporto con il tempo, il ruolo dello spazio e quello dell’immaterialità, non è difficile riconoscere un triangolo, per così dire, antropologico e psicologico, cioè affettivo e cognitivo, in cui ci troviamo a vivere affrontando la pandemia. Quel triangolo presenta ai vertici dei fenomeni profondamente cambiati, che sono, forse, per come tendono a combinarsi, la fonte dell’origine di una nuova era: quella che potremmo chiamare l’era del primo anno dopo covid. La combinazione fra la pervasività delle tecnologie dell’informazione la loro velocità nella circolazione delle informazioni e delle conoscenze; la neutralizzazione dello spazio terrestre dovuta alla globalizzazione , ad esempio per quello che riguarda la circolazione delle merci, dei processi finanziari e della stessa informazione, ma naturalmente anche la circolazione delle persone; la prevalenza netta della dimensione immateriale dei fenomeni in ogni campo, noi ci troviamo di fronte ad un gap antropologico, affettivo e cognitivo che rende particolarmente difficile la disposizione ad apprendere ad apprendere. Per farlo dovremmo essere capaci di collocarci almeno in certa misura in una posizione eccedente rispetto all’habitus tradizionale, rispetto alla forza dell’abitudine, rispetto al problem solving, cioè a quella disposizione a cercare la soluzione all’interno della cornice dell’ordine precedente, in quanto si tratterebbe principalmente di concentrarsi su noi stessi e su come apprendiamo, sulle resistenze ad apprendere e sulle resistenze a cambiare. Per questa via potremmo accedere, per così dire, ad occhi nuovi nella considerazione dei processi, nell’osservazione dei fenomeni, nell’analisi delle situazioni e in generale nel nostro rapporto col mondo in cui viviamo. Questo ci consentirebbe probabilmente di vedere che il mondo così come l’abbiamo conosciuto fino ad ora e l’ordine vitale che abbiamo costruito fino ad ora sono falliti. Un esame di realtà simile potrebbe essere la base per imparare ad imparare e, in questo caso, per imparare a competere con il virus, con tutte le sue evoluzioni e le sue varianti, e con gli altri problemi globali e controversi che si affacciano all’orizzonte che sembrano caratterizzare da qui in poi la vita del genere umano sul pianeta terra.
Viviamo un tempo di stupore e di disagio. Stupore per le sollecitazioni che il presente riesce a generare in noi; disagio per lo spiazzamento che reputo necessario in questo nostro tempo, essendo la via richiesta per accedere al possibile necessario. L’appartenenza al sistema vivente e il superamento del dualismo natura-cultura, dove natura sarebbero gli altri animali e cultura saremmo noi, è un processo complesso. Non si tratta di divenire come i ragni, cosa peraltro impossibile, né di considerare i ragni come noi, cosa non corrispondente ad ogni evidenza. Divenire finalmente terrestri non penso significhi dismettere le distinzioni, ma farle convivere e risuonare in modo vicendevole. Le metafore possono molto aiutarci. Dai ragni, ai vermi, alle drosofile, ai falchi, alle balene, alle tigri, alle piante e ai minerali, abbiamo da imparare da tutti. Non dimenticando però che la nostra responsabilità consiste nel valorizzare la nostra distinzione: quella di essere capaci di imparare ad imparare. Questo possiamo fare, per noi e per gli altri viventi, ed è forse la nostra principale responsabilità. Si tratta allora di divenire leggeri, finalmente. Di riconoscere che di meno è meglio.
“In viaggio, come d’altronde nella vita, il meno è quasi sempre il meglio”, dice William Hurt, nel film di Lawrence Kasdan, Turista per caso. Minimo non è meno, non è poco, eppure entrambi hanno a che fare con l’arte del togliere. Togliere è liberare dall’eccedente, eliminare quel che è eccessivo. Di tutto l’umano cercare, forse una delle arti più difficili e sublimi. Un’arte che avvicina all’essenziale, sapendo che apre una direzione e non definisce una meta, in quanto se il minimo essenziale è tale, lo è perché è irraggiungibile. La sua importanza sta nel cercarlo sapendo di non poterlo raggiungere mai. Una sfida alla nostra tensione desiderante, che sceglie la via della ricerca per selezione, verso la leggerezza e la valorizzazione del lavoro della luce che, a ben vedere, fa la parte della grande scultrice nel prender forma delle cose. Divenire scultori della nostra terrestrità è il compito che dovrebbe impegnarci prioritariamente, a partire dalla valorizzazione dei luoghi e della memoria, come la via Appia e i suoi paesaggi.
La letteratura intercetta un mutamento, che insieme alla narrazione orale e alle tracce della memoria, configurano una rivoluzione cognitiva. Siamo i sopravvissuti perché abbiamo una memoria condivisa, le sue tracce e una letteratura. L’Appia è fonte dell’attualità del mito, ma lo è per chi quel mito sa riconoscere, vivere e coltivare.
A proposito della attualità del mito, Sorrentino sostiene convintamente, tra i molti riferimenti, che «Il richiamo perturbante del satiro Pan ci ricorda che non è possibile pretendere di detenere il dominio assoluto sulla realtà: la natura ci invita ad ascoltare e assecondare la sua forza istintuale, ad abbracciare l’esistenza nella sua totalità, fatta anche di demoni, incubi e paure. Forse conoscere o tenere viva la memoria di questo segreto legame potrebbe configurarsi come un possibile scampo alla solitudine che ci attanaglia».
La memoria, se coltivata, corrobora l’esistenza e ci consente di affrontare la solitudine.
Nella memoria e nel mito possiamo riconoscerci, proiettando noi oltre noi stessi.
Ad esempio, seguendo Sorrentino: «Calipso era la “nasconditrice” per antonomasia, Antigone recava in sé la traccia di un “contrasto” atavico, Prometeo era colui che “imparava prima” degli altri, soprattutto prima di suo fratello Epimeteo, che proprio a causa della sua tendenza a “comprendere le cose in ritardo” accolse nella sua casa Pandora, la creatura che aveva ricevuto dagli dèi “tutti i doni”»: questi sono «i piccoli, magici incantesimi racchiusi negli appellativi e nei gesti».
Sorrentino accosta con levità il racconto omerico alla poesia contemporanea, al cinema, alla rete, allo sport, a ogni singolo aspetto della nostra contemporaneità. Si accorge, ad esempio, che «Anche prodotti commerciali come le serie tv, che si rivolgono a un’ampia audience, si fondano su archetipi antichi, che attingono a un patrimonio consolidato nei millenni, ma che ugualmente sollevano questioni urgenti del nostro tempo: la sete di potere, i pericoli della demagogia, l’ossessione per la violenza, i tentativi spesso vani di elaborazione del dolore». Ma c’è, a saperlo riconoscere, soprattutto, il patrimonio consolidato, in questo caso non nei millenni, ma nei secoli certamente: il patrimonio archeologico e artistico, come via per vivere il presente e concepire un avvenire possibile.
Le storie, sia che non avvennero mai sia che avvennero, sono sempre. E su quella finzione suprema rappresentata dalla letteratura e dalla pittura si fonda la convinzione che la finzione sia, se non reale, almeno possibile. Per quella via, tra memoria e funzione, si fonda il possibile.
Perché in fondo siamo noi che confondiamo ciò che è vero dall’inganno. Non ci è permesso rimanere innocenti. Del mito delle sirene non sappiamo niente, qualcuno ipotizzò persino che il loro fosse un canto muto, una sorta di premonizione dei silenzi di un certo tipo di musica contemporanea. A noi sono sempre apparse splendide, inarrivabili, ma potrebbero essere state tremende, di un bellissimo e incantevole orrore. Quando, di fronte alla bellezza delle tracce della memoria, pare accadere il tentativo di ritorno all’epos, possiamo tornare a un racconto, un nuovo, inedito racconto di noi stessi. Può sembrarci di volare anziché inabissarsi nell’oblio e nella volgarità.

La poesia dei luoghi, come la via Appia, non è guardare dall’alto, non è sguardo panoramico, piuttosto “vita dei dettagli”, cioè scavo, disseppellimento, ricerca. Ulisse non vola, piuttosto si nasconde, finisce in mare, scaraventato nelle grotte. Pensare come il mito significa pensare come abisso, come pensa il caos. Pensare come Ulisse è pensare come incerto, forse per questo davvero il mito ancora oggi ci dice, oggi che è un tempo ancora informe nella sua velocità. Il mito ci sprofonda dentro l’incerta certezza per cui «La verità resiste in quanto tale solo se non la si tormenta», come scrive il grande scrittore Frederich Dürrenmatt. Allora l’amore per i luoghi della memoria come la via Appia, potrebbero diventare la via per transitare dal caos a un ordine vivibile, a una capacità di pensare lontano, a una mente e a una mentalità connettive, come quelle di chi l’Appia creò, che, forse, proprio a causa del disprezzo della storia e della memoria, non si riescono a creare.