di ANNA RITA AMBROSONE.
Come lo scolaro attardato
-né più dalla minaccia della porta
sbarrata fiori e ali lo divagano –
io lo seguo, sono nella sua ombra.
Un disincantato soldato.
Uno spaurito scolaro.
Il grande amico, da Gli strumenti umani, 1965
Io una spaurita scolara, Vittorio Sereni un grande amico, un faro che ha illuminato parte del mio cammino quando la tempesta sembrava incessante e perturbante.

Come scrisse Pier Vincenzo Mengaldo, Vittorio Sereni era un uomo che «si lasciava intuire», autore di una poesia nella quale ciascun lettore può riconoscersi e sentirsi al sicuro.
Non è scontato riconoscersi nelle parole e nei sentimenti – da esse evocati – di qualcun altro.
Con Vittorio Sereni tutto questo è possibile: sin da subito il lettore prova empatia per il dolore del poeta, ma soprattutto per il complesso tentativo che egli ha fatto nell’elaborarlo.
Si scorge nella sua poesia prima l’uomo e poi, solo in un secondo momento, il poeta.
Vittorio Sereni nacque a Luino nel 1913. Dopo essersi laureato a Milano nel 1939 con una tesi su Gozzano – scatenando peraltro forte agitazione nella commissione accademica – ricopre la cattedra di italiano e latino in un liceo modenese e pubblica la sua prima raccolta poetica Frontiera (1941).
Nel 1942 viene richiamato al fronte come ufficiale di completamento nella Divisione Pistoia e da quel momento vive una vicenda bellica che lo segnerà dolorosamente per il succedersi di spostamenti incongrui: dapprima destinato in Africa, verrà trasferito in Grecia e poi fatto rientrare in Sicilia a fronteggiare lo sbarco alleato; infine, catturato, viene trasferito in Africa dove vive la sua prigionia fino al luglio del 1945.
Tale prigionia costituì per Sereni un limbo, una vera e propria parentesi esistenziale nella storia, in quanto non gli permise di partecipare a quegli eventi che portarono il paese alla Liberazione, alla caduta del regime fascista in Italia.
Questo avevo da dire
questo groppo da sciogliere
nell’ultimo sussulto di gioventù
questo rospo da sputare,
ma a te fortuna e buon viaggio
borbotta borbotta la pentola familiare.
Il male d’Africa, da Il Diario d’Algeria, 1947
Vittorio Sereni ha perso l’occasione di partecipare alla Resistenza, di agire nella storia e, in questo modo, costruirne una propria.
Per tentare di ricucire questo strappo, Vittorio Sereni cerca di aggrapparsi alla poesia che diventa una vera e propria variante auto-terapeutica.
Per circa vent’anni ha cercato di trovare una risposta a due domande perché e per chi si scrive?
Successivamente alla Seconda Guerra Mondiale e, in particolare, alla Shoah, i poeti hanno vissuto un momento di straniamento, per la difficoltà che avevano nell’elaborare i fatti cruenti e disumani avvenuti nella realtà circostante.
La poesia – la letteratura in generale – non poteva estrarre la Storia dai suoi contenuti, piuttosto avrebbe dovuto farsi portavoce di quel vento di morte e strazio che – direttamente o indirettamente – aveva toccato le vite di ognuno.
Dunque, è per impostare in termini nuovi il rapporto tra il soggetto e la collettività che Vittorio Sereni impiegherà quasi vent’anni.
Il poeta non si sente più in sintonia con ciò che dava origine alla poesia, ossia il passato, la nostalgia, il lirismo.
La poesia è costretta a parlare, stratificando situazioni e fatti reali, dai quali il poeta attinge per ricercare la propria identità.
È chiaro che questo cambiamento non sarebbe stato possibile senza l’umiliazione subita da Vittorio Sereni. L’uscita dalla storia ha spinto il poeta a ragionare sulla realtà soggettiva e collettiva, elaborando e testimoniando un dolore che riguarda l’io e il mondo insieme.
Il prodotto di questo processo è Gli strumenti umani, raccolta edita nel 1965 da Einaudi.

Si tratta di una raccolta poetica – suddivisa in cinque sezioni – che riprende i caratteri di un vero e proprio organismo contrassegnato da pulsazioni che testimoniano il complesso rapporto che l’io instaura con la propria esperienza.
Vittorio Sereni si cala completamente nella realtà circostante per trovare un senso e un significato degli eventi nel presente.
Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: – Non torneranno più -.
Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.
La spiaggia, da Gli strumenti umani
Si chiude così la raccolta suddetta, con una poesia che traccia la conclusione dello straniamento vissuto da Vittorio Sereni e, in cuor suo, da ciascun lettore.
Il passato si fa presenza; coloro che ci hanno lasciato ci parleranno ancora, attraverso altre forme, invisibili agli occhi ma essenziali per il cuore.
L’inesistenza diventa possibilità di espressione, perciò Sereni non vuole che si rinneghi il passato, dimenticandolo. Bisogna dare al passato e, insieme, al dolore, la possibilità di far parte del nostro presente perché soltanto così l’uomo può migliorare, inaugurando così un nuovo percorso di vita.
È qui che inizia il ricominciamento.
Vittorio Sereni morirà improvvisamente il 10 febbraio del 1983, in seguito ad un aneurisma.
