di Ugo Morelli*
“Il sogno ad occhi aperti non è un vuoto mentale.
È piuttosto il dono di un’ora che conosce la pienezza dell’anima”
[Gaston Bachelard]
Creare può essere un modo almeno in parte speciale di essere presente nel momento in cui il senso di un evento o di una verità si rivelano, momento che in parte si scopre e in parte si crea. Creare è allora una risonanza inaudita e inedita emergente, colta nel rapporto con le manifestazioni del mondo.

In tempi di crisi del legame e della presenza esiste ancora una chance per il pensiero creativo? Possiamo solo curarci le nostre precarietà affettive con emozioni di seconda mano? Ci è dato solo di sopravvivere e vegetare, nella tendenza, tipica della tarda modernità iper-industriale e della società contabile, a trasformarci in risorse a disposizione di una mega-macchina globale che, grazie al profilare personalizzato e capillare dei comportamenti umani, non lascia più spazio per creare cambiamenti scelti e voluti?
È difficile osservare il momento e il tempo che si vive, nel loro farsi; non è facile prescindere dai vincoli di appartenenza a un contesto e, per così dire, “guardarsi dal di fuori”. Se questo è stato sempre vero, lo è particolarmente in questo nostro tempo, in cui svelare aspetti del presente vuol dire fare i conti con il fatto che i veli si propongono come la realtà stessa. Abitiamo, infatti, un immaginario saturo e colonizzato che esige un impegno e un investimento in eccedenza particolari, per riuscire ad esprimere comportamenti simbolici efficaci: capaci cioè di connettere e combinare realtà e rappresentazione dei fenomeni. Questo vale non solo per le scelte di consumo, ma anche per i nostri stessi modelli di vita e per il nostro linguaggio. Tendiamo a coincidere col nostro habit, come lo aveva definito William James e come è stato approfondito in una serie di studi recenti da Fausto Caruana e Italo Testa [F. Caruana e I. Testa (ed. by), 2020, Habits. Pragmatist Approaches from Cognitive Science, Neuroscience, and Social Theory, Cambridge University Press, Cambridge Mass.]. Qualora riuscissimo a comprendere meglio come si forma e afferma la forza dell’abitudine, avremmo elementi in più per affrontare le resistenze al cambiamento e il conformismo che vincolano creatività e innovazione.
Rivelare è sempre stato in parte svelare e in parte velare di nuovo, e la capacità di conoscere forse corrisponde al movimento tra questi due poli, al margine che in quel gioco emerge e si manifesta. Importante è allora domandarsi quale ampiezza abbia di volta in volta lo spazio di gioco e, quindi, quali e quante possibilità vi siano di evidenziare l’inedito, di generare quello che prima non c’era.
Sappiamo che non è vero sempre che ad uno spazio discrezionale di gioco molto ampio corrisponda una maggiore capacità creativa. Le condizioni della creatività appaiono più complesse e per loro stessa natura non determinabili. Hanno maggiormente a che fare col prepararsi, inteso come “disporsi a…”, che col preparare, inteso come “parare tutto prima”. Proprio sui vincoli e le possibilità del “disporsi a…” vorremmo concentrare l’attenzione di questo contributo, avvalendoci dei risultati di ricerche neuroscientifiche affettive e cognitive, che stanno cercando di illuminare almeno in parte il campo in buona misura inesplorato della creatività umana.
Dire di no
Parlando di creatività umana è importante domandarsi se esiste creatività in un’altra specie o nelle altre specie. Non ci riferiamo agli antecedenti evolutivi, che con ogni evidenza esistono, nè a manifestazioni che siano esplicitamente classificabili come creative, che pure sono verificate da molteplici ricerche. Stiamo cercando solo di definire qualche tratto distintivo della creatività specificamente umana. Siamo la specie che, in ragione del linguaggio verbale articolato e del pensiero simbolico, non coincide mai con se stessa e ha una relazione estrinseca con la propria vita, come la chiama Paolo Virno [Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri, Torino 2020; in particolare pp. 28 e segg.]. Se ci orientiamo a segnare una distinzione con gli altri animali, ciò implica assumerci la responsabilità di un tentativo di definizione della creatività o, perlomeno, evitando eccessive pretese, di indicare in che senso parliamo di creatività in questo contributo. Alla luce di alcuni anni di ricerca dedicati al tema, possiamo intendere per creatività la disposizione specie specifica di noi esseri umani a comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori disponibili del mondo, a inventare repertori non ancora esistenti, a coglierne il significato e a tramandarli, in modo da aumentare la nostra capacità creativa. In particolare la distinzione della creatività umana sta forse nell’invenzione dell’inutile, cioè del non immediatamente strumentale e pratico e, quindi, nella creatività artistica e scientifica. [Morelli U., 2018, Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma; Morelli U., 2010, Mente e bellezza, Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino].
Assumendo un riferimento sufficientemente restrittivo di creatività, come pare necessario, dobbiamo ricavarne che l’accesso a quell’esperienza sia distintivo degli esseri umani. Lavorando a una teoria della personalità fondata sull’idea che i nostri sistemi emotivi di base debbano essere compresi in chiave neuroevolutiva, Jaak Panksepp e Kenneth L. Davis sostengono che “gli esseri umani sono una specie profondamente affettiva. I nostri affetti costituiscono una lingua propria, non una lingua verbale, parlata, ma una lingua non verbale, sentita. È forse la lingua più antica della coscienza, la fonte originaria delle informazioni vitali che sperimentiamo come parte del vivere” [J. Panksepp e K. L. Davis, 2020, I fondamenti emotivi della personalità, Raffaello Cortina Editore, Milano; p. 325; si veda anche J. Panksepp, L. Biven, 2014, Archeologia della mente, Raffaello Cortina Editore, Milano]. La creatività si associa principalmente alle dinamiche affettive ed emozionali e successivamente a quelle cognitive. Non è una eccezione riservata a pochi esseri umani, ma una distinzione della nostra specie, e la sua origine è integrata nel cervello e nel corpo, pur emergendo nella risonanza incarnata con gli altri, nelle dinamiche complesse della nostra naturale intersoggettività [V. Gallese, Corpo e azione nell’esperienza estetica. Una prospettiva neuroscientifica, in U. Morelli, Mente e bellezza, op. cit., 2010].
Studiando gli scimpanzè in un’ampia serie di ricerche sul campo, le primatologhe hanno verificato come essi dispongano di un ampio set di vocalizzazioni differenti, circa una ventina, per reagire alla comparsa di oggetti o all’accadere di eventi nel loro ambiente. Una certa vocalizzazione segnala la presenza di un serpente tra le sterpaglie, un’altra la scoperta di una fonte di cibo, un’altra ancora, manifesta interesse sessuale per un potenziale partner [Slocombe K. E., Zuberbuhler K., 2005, Functionally referential communication in a chimpanzee, in Current Biology, 15, pp. 1779 – 1784; Goodall J., 1986, The Chimpanzees of Gombe: Patterns of Behavior, Belknap Press, Cambridge, MA-London]. Tra gli esseri umani le cose vanno in modo diverso. Il decoupling tra significante e significato che si propone come vero e proprio punto di svolta della rivoluzione simbolica, e l’esternalizzazione dei segni attraverso dispositivi per salvarli e documentarli, dalla pietra, alla carta alle memorie digitali, hanno generato per Homo sapiens le condizioni per accedere alla creatività. Si è prodotta in quella circolarità “l’autonomizzazione e la ricombinazione pressoché arbitraria dei significanti, a prescindere dall’effettiva realtà o presenza del significato” [M. Mandrioli, M. Portera, 2013, La genesi delle forme biologiche. Creatività nei vincoli, in A. Pinotti, S. Tedesco, Estetica e scienze della vita, Raffaello Cortina Editore, Milano; pp. 267 – 288]. Sequenziando l’ambiente che ci circonda in elementi distinti e separati, noi umani associamo a ciascuno un nome, cioè un simbolo mentale astratto e combiniamo e ricombiniamo quei simboli per creare realtà immaginarie e forme alternative di mondi. Secondo il paleoantropologo Ian Tattersall l’immaginazione e la capacità creativa sono i tratti distintivi che ci hanno resi umani e padroni del pianeta [I. Tattersall, 2012, Masters of the Planet: The Search for Our Human Origins, Palgrave Macmillan, London]. Tattersall parla di trascendimento evolutivo da un pensiero semplice a un pensiero astratto e simbolico. Attribuisce questa caratteristica evolutiva solo a homo sapiens, anche se scoperte più recenti hanno consentito di verificare che anche Homo Neanderthal, finché è esistito prima di estinguersi, ha prodotto rappresentazioni simboliche [P. Greco, 2020, Homo. Arte e scienza, Di Renzo Editore, Roma; pp. 32 – 33]. Secondo il biologo Edward O. Wilson, la sorgente della creatività umana si situa al punto di giunzione fra evoluzione biologica e evoluzione culturale: “La creatività è il carattere distintivo della nostra specie e ha come fine ultimo la comprensione di noi stessi” [E. O. Wilson, 2018, Le origini della creatività, Raffaello Cortina Editore, Milano]. La capacità riflessiva e la considerazione di sé nella relazione con gli altri configura un’autoelevazione semantica che, portando alla distinzione, ci rende capaci di concepire la discontinuità, di sottrarci al dominio dell’appartenenza tacita a una catena di routine. Ancora il decoupling in ragione del quale siamo in grado di “dire di no”, di negazione, cioè, dell’ordine costituito, concependo e immaginando allo stesso tempo delle possibili alternative. Tra la negazione e il vuoto che essa genera può situarsi il breakdown creativo.
Creatività, errori ed ecologia dello spirito
Nel gioco del riconoscere noi stessi, di giungere ad avere accesso a noi stessi, noi prendiamo una certa distanza da noi e, di fatto, ci creiamo nel momento in cui siamo riconosciuti da un altro. Come ha mostrato recentemente Stefano Micali, noi ci individuiamo nel gioco tra l’altro e se stessi [S. Micali, Tra l’altro e se stessi. Studi sull’identità, Mimesis, Milano – Udine 2020]. Siamo, per quel che ne sappiamo finora, l’unica specie che mentre è, riconosce di avere un corpo, un linguaggio verbale, una coscienza che diviene così di second’ordine rispetto a quella degli altri animali. In quella distanza tra il corpo che siamo, la nostra continua individuazione e il mondo, si apre lo spazio creativo, in ragione del quale siamo stati e siamo in grado ci creare un’opera d’arte, un dono, la bomba termonucleare e sofisticate forme di tortura.
Se la negazione è la capacità specie specifica di dire di no, la discontinuità che essa istituisce è connessa anche alla distinzione generativa di manifestazioni e artefatti prima inesistenti.
Il conformismo emergente, a fronte della pretesa delle tecnoscienze contemporanee di privarci della possibilità dell’errore, di fare a meno di ogni teoria e di anticipare così, nel calcolo pressoché istantaneo di cui sono capaci, le proiezioni immaginarie che ci costituiscono in quanto desideranti, è fonte di rischio per l’immaginazione e la creatività, proprio in quanto attacca la discrezionalità e la discontinuità. Contro questa situazione perversa, un filosofo come Bernard Stiegler ha rivendicato l’esigenza di riguadagnare il tempo necessario a pensare quello che i nostri strumenti fanno di noi [B. Stiegler, La società automatica, vol. 1, Meltemi, Milano 2020]. Emerge ed è riconosciuta la necessità di elaborare una vera e propria “ecologia dello spirito” – una riflessione approfondita sulle condizioni creative che permettono al pensiero di sorgere, anche quando tutto sembra lavorare per renderlo improbabile, privandoci della possibilità di accedere al non-ordinario: di fare di quello che sembra un ineluttabile “stato di fatto”, un vero e proprio spazio di esercizio del dubbio e di creatività possibile.
Accessibilità
La contingenza, proprietà distintiva dei sistemi viventi, ci rende figli e allo stesso tempo prigionieri della circolarità ricorsiva. È nella contingenza del movimento che viviamo la sensazione di “continuare ad esistere”, come sostiene D. Winnicott [Il bambino e il mondo esterno, Giunti-Barbera, Firenze 1971]. La relazione a sua volta è il luogo dove la vita si esprime, dove la vitalità emerge e si riconosce, con i suoi vincoli e le sue possibilità. È così che si strutturano gli habit, che ci contengono e limitano.
La resistenza ad accogliere il valore scientifico delle emozioni, della relazione, del linguaggio e del significato, fattori fondativi quando si tratta di sistemi e comportamenti umani, induce gli approcci conoscitivi a non riconoscere che non si può comprendere, valutare e misurare, né tanto meno cambiare, un sistema vivente e un sistema umano senza farne parte. Ne deriva non solo l’ineliminabile circolarità tra osservatore e sistema osservato, ma, ancor più importante, che è proprio quella circolarità la condizione generativa della conoscenza possibile. E proprio in quella circolarità si possono generare le provvisorie sospensioni di senso che danno vita ad atti creativi.
Quale sarà mai la soglia che consente o ostacola la creatività? Quale discrimine verso la discontinuità e il break-down del sentimento di sé nel mondo? La circolarità regola anche le modalità del social learning [A. Pennisi, A. Falzone, 2010, Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, Il Mulino, Bologna] e ostacola, per certi aspetti, il dubbio della coscienza razionale su se stessa. Le caratteristiche incarnate, situate ed estese (EEEE: Embodied, Embedded, Extended, Emergent) della mente relazionale umana generano allo stesso tempo vincoli e possibilità di accessibilità alla distanza da sé e al concepimento della creatività.
La giustificazione paleoantropologica e neurobiologica della tensione oltre l’esistente o “tensione rinviante” [U. Morelli, Mente e bellezza, op. cit.] come tratto distintivo specie specifico della nostra specie è sempre più ampia. Le stesse condizioni evolutive che hanno lasciato emergere l’autoelevazione semantica e l’avvento della competenza simbolica sono quelle che ci hanno reso e rendono contingentemente vincolati in un dominio di senso che noi stessi concorriamo a generare ma allo stesso tempo reifichiamo.
Abbiamo tuttavia la capacità di generare movimenti inauditi e di svolgere percorsi verso la creatività possibile.
L’analisi degli ambiti più propriamente creativi e vitali della natura umana, sostiene Zeki [S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello, Bollati Boringhieri 2010], può offrire inaspettate rivelazioni sui processi mentali che permettono di produrre conoscenza e di formare idee sul mondo. Un cambio di prospettiva inedito che smonterà molti preconcetti scientifici.
“Le arti temporali”, secondo D. Stern, – “musica, danza, teatro e cinema – ci coinvolgono grazie alle manifestazioni vitali che risuonano in noi” [D. Stern, Forms of Vitality: Exploring Dynamic Experience in Psychology, the Arts, Psychotherapy, and Development, Oxford University Press; ed. it., 2011, Le Forme Vitali, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010; p. 5]. La vitalità, per Stern, non appartiene a nessun ambito specifico, appare piuttosto come una “coloritura” di ogni esperienza umana. Stern sostiene che “uno studio moderno della vitalità dovrà iniziare a considerarla come una creazione mentale, un prodotto dell’integrazione di diversi avvenimenti interni ed esterni” [ivi, 6]. Se gli avvenimenti rilevanti sono interni ed esterni allo stesso tempo, è probabile che si debba ritenere quella creazione come generata dalla mente relazionale in ragione di una dinamica che connette: tensione – sospensione – mancanza – scelta – progetto.
Appare evidente come sia l’accessibilità a forme di sospensione provvisoria della circolarità a generare creatività e contatto con il senso del possibile, mediante l’elaborazione di vincoli interni, vincoli relazionali, vincoli gruppali e vincoli istituzionali.
Creare ha molto a che fare con disimparare
La creatività ha molto a che fare con il disimparare, con la grande difficoltà della mente umana a uscire dal seminato, ovvero a agire contro se stessa e la propria predominante disposizione a conservare l’esistente, per istituire discontinuità. A quali condizioni la mente umana accede a un breakdown creativo; quanta difficoltà incontra ad agire in conflitto con se stessa per riuscire a mettere in discussione l’ordine, essendo prevalentemente vocata a costruire ordine, a mantenere ordine e a preservare ordine?
In quanto capace di abbassare le difese del mondo interno aprendo orizzonti inauditi di possibilità, la creatività espande la scena del teatro interno e aumenta le possibilità di “vedere e vivere”, come l’etimologia stessa di “teatro” suggerisce: da “theastai”, ovvero “vedere”.
Per aprire ad una nuova forma è decisivo disimparare la precedente: quello che si configura come dialogo, come conflitto, tra personaggi del mondo interno, tra parti del teatro interno, implica la messa in discussione di una parte da parte dell’altra. La creatività può aprire ad una zona franca del sentire e del pensare, diventando la scena di un conflitto drammatico: una delle poche possibilità di vedere il mondo con altri occhi agendo un’innovazione inedita e diversamente inconcepibile e inaccessibile. Anche in questo caso l’etimologia è molto significativa; “dramma” deriva dal greco “drào”, ovvero “agisco”, e richiama l’azione di colui che risponde: l’agonista, l’attore, che seconda la storia, fu introdotto per prima nel teatro greco dal poeta Arione di Lesbo, nel 620 a.c., allorquando l’ypocritès (colui che risponde, appunto) iniziò a reagire, rispondendo, al coro. Seguì a lui l’introduzione dell’antagonista a creare il “conflitto drammatico” del teatro greco e a rappresentare il conflitto del teatro interno a ciascuno di noi. Quel conflitto è espressione del conflitto estetico, cioè della dinamica interminabile tra autonomia e dipendenza che fin dalla nascita e per tutta la vita caratterizza l’esistenza di ognuno di noi.
Incertezza e inaspettato: margini di creatività
Soprattutto in un’epoca come la nostra, si tratta più che mai di traguardare e trascendere quello che semplicemente accade, in direzione di qualcosa di sempre improbabile – pena, altrimenti, il predominio del conformismo contro la forza “neghentropica” (vale a dire, creativa e organizzatrice) del genere umano. Persino imparando ad imparare dagli errori, come condizione per creare l’inedito. Emerge nel gioco del possibile il valore del margine, come spazio per la creatività.
L’elaborazione del margine è, infatti, un esercizio atto a mettere in forma la vita intera. Il termine giapponese Yohaku significa letteralmente margine, spazio vuoto (yo: resto; haku: bianco), qualcosa che ha raggiunto la riduzione all’essenziale. La stessa dimensione i greci la definivano àskesis, indicando un esercizio e un’esperienza attraverso cui la vita intera prende forma. Il margine, lo spazio agibile, luogo del vuoto e del possibile è perciò la struttura che collega, il luogo del gioco, del rischio del baratro e di ogni possibilità.
Nella creazione in ogni campo, ma anche nella ricerca di forme di vita sostenibili, il margine è, oggi, uno dei principali luoghi da analizzare e a cui guardare. Gestire l’evoluzione del conflitto in modo generativo vuol dire “darsi margine”. Il margine è il luogo del divenire, dell’inizio dell’altrove e in questo senso vale il gotico marka quando indica la frontiera. L’origine della parola ne segnala sia il genere maschile che femminile, la sua capacità di costituire un contenuto e di essere luogo germinale di contenimento, mentre può essere luogo di emarginazione. In queste sue potenzialità sta il più alto rischio ma risiedono anche le opportunità più elevate. Quando si cerca di realizzare un processo di cambiamento in una situazione che riguardi l’esperienza individuale, quella di un gruppo o di un’istituzione, ci si rende presto conto che proprio le cose lievi bisognerebbe perseguire: quelle in grado di facilitare l’evoluzione. Ci si rende anche conto che perseguirle non è però facile poiché per il fatto stesso di perseguirle esse tendono a strutturarsi e a divenire impegnative, costose e vincolanti. La nostra stessa ricerca di consistenza nell’azione, il nostro stesso desiderio di lasciare una traccia, concorrono a questo rischio e non sempre ci riesce di disporci ad attendere attivamente e in forme leggere la loro manifestazione imprevista, o raramente prevedibile. E’ al margine della caoticità che si genera l’incertezza e la possibilità della vita nell’infinitamente piccolo, mentre le dinamiche dell’“infinitamente grande”, come i sistemi sociali e i processi sociali in genere, tendono ad avere almeno in parte gli stessi andamenti. Il senso del margine sta, quindi, nel suo valore generativo di creatività possibile; se il margine non è una linea né un confine, contiene, per la stessa ragione della generatività, il rischio della perdita. Tra conformità e difformità emerge lo spazio del “quasi-conforme”: quello spazio può portare all’esclusione o può generare una trasformazione emancipativa. Può generare aggressione ed emarginazione o capacità di riflessione e “corteggiamento”. Se il margine riesce a essere valorizzato come spazio e tempo di gioco può divenire il passo da fare per spostarsi dalle posizioni centrali di certezza e accedere alla plasticità delle zone temporanee ed evolutive, agli spazi del possibile dove dalla buona elaborazione del conflitto estetico può emergere la creatività e il senso del futuro. L’accesso al margine nasce sempre dalla messa in discussione o dalla negazione di un ordine. Dire di no a quell’ordine o a un aspetto di esso, apre a un vuoto, a una dimensione concava, che è sia vulnerabile che generativa, anzi: che è generativa perché vulnerabile. Quando del concavo, che può esaurirsi in ansia e vertigine da vuoto, si dà elaborazione feconda, può sgorgarne un atto creativo.
*Ugo Morelli, psicologo, studioso di scienze cognitive e scrittore, oggi insegna Scienze Cognitive applicate al paesaggio e alla vivibilità al DIARC, Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli; è Direttore Scientifico del Corso Executive di alta formazione, Modelli di Business per la Sostenibilità Ambientale, presso CUOA Business School, Altavilla Vicentina. Già professore presso le Università degli Studi di Venezia e di Bergamo, è autore di un ampio numero di pubblicazioni, tra le quali: Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2013; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014; Noi, infanti planetari, Meltemi, Milano 2017; Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma 2018; Noi siamo un dialogo, Città Nuova Editrice, Roma 2020; I paesaggi della nostra vita, Silvana Editoriale, Milano 2020; Il grande esperimento. In virus veritas, Kappa Vu, Udine 2020; Empatie ritrovate. Entro il limite per un mondo nuovo, Edizioni S. Paolo, Milano 2020. Collabora stabilmente con doppiozero, Animazione Sociale, Persone & Conoscenza, Sviluppo & Organizzazione, i dorsi del Corriere della Sera del Trentino, dell’Alto Adige, del Veneto e di Bologna, e con Il Mattino di Napoli.