di Claudio Piersanti
Una riflessione sulla stagione politica complessa e anche violenta degli anni ’70 non è ancora stata fatta, se non per analizzarne aspetti particolari e frammentari. La schiacciante invadenza del terrorismo ha in fondo avuto come prima vittima proprio i movimenti e le organizzazioni di estrema sinistra. Tra queste la più importante è certamente Lotta Continua, da cui ha origine anche questo aspetto specifico legato al conflitto sociale all’interno delle caserme: i Proletari In Divisa, i PID, alla cui vicenda è dedicato il libro “S’avanza uno strano soldato” di Deborah Grissini, Sergio Sinigaglia e Giorgio Sacchetti (Derive Approdi editore, pagg. 192, euro 18).

Un conflitto del tutto naturale. Essendo la leva ancora obbligatoria l’esercito si è trovato a ospitare giovani più riottosi, rispetto al recente passato, che non potevano convivere facilmente con regolamenti e costumi esplicitamente fascisti. Del clima in rapido tramonto c’è testimonianza nel cinema leggero italiano: Gianni Morandi che parte soldato. Aggirando così, con qualche furbizia, il da tutti temuto periodo di naja. Insensato, inutile, pericoloso, ma fino a quel momento da affrontare per poi dimenticare in fretta. Quel mondo ingenuo e silente è il mondo pre-sessantotto. Poi Woodstock e il ‘68 dilagarono in mille sfumature nelle caserme. Fino a quel momento (inizi anni ’70) la protesta contro il servizio militare obbligatorio era ristretta all’eroica pattuglia radicale capeggiata da Roberto Cicciomessere, ora all’improvviso vestono la divisa ragazzi infuriati per l’abbondante capigliatura perduta e abituati a protestare per molto meno, nelle scuole e nelle università. Molti di loro erano quasi dei rivoluzionari di professione. Ma erano tanti i girovaghi e simil-hippy finiti anche loro nella rete, spesso nei controlli di frontiera. Non erano più (preziose) mosche bianche come i radicali o come piccoli gruppi religiosi come i Testimoni di Geova (che noi sovversivi chiamavamo: di Genova), spediti dritti a Gaeta. I tribunali militari cominciarono a lavorare a pieno regime: il codice penale militare risaliva al 1941, ed era firmato dal Re e da Benito Mussolini. Per dare una scansione temporale possiamo dire che la vicenda dei PID va dal 1970 al 1977, raggiungendo nel ’75 l’apice della sua capacità di mobilitazione. “Ma come, dicono i nuovi soldati, siamo stati a Londra, abbiamo passeggiato per King’s Road con i capelli lunghi fino alle spalle e adesso ci rapano a zero, ci fanno indossare una divisa grigia e informe, noi che eravamo abituati ai fiori, alle giacche di raso rosso, alle sciarpe colorate, ai pantaloni a zampa d’elefante” (C. Sannucci, citato nel libro).
La protesta si estende lentamente anche a sottufficiali e giovani ufficiali. I motivi sono infiniti e ben elencati nei volantini di protesta distribuiti clandestinamente in caserma: vitto scarso e insano (numerosi i casi di intossicazione alimentare), altrettanti i focolai di meningite, condizioni igieniche spaventose, sottomissione a ordini ridicoli dati da fanatici che messi in un film si definirebbero stereotipi un po’ banali. Ma banali non erano il carcere e le punizioni: che allungavano all’infinito i tempi della naja.
Anche con l’appoggio del settimanale Lotta Continua e di alcuni suoi militanti delegati (il più noto e ricordato nel libro Franco Travaglini) i PID organizzarono decine di proteste all’interno delle caserme, ma non solo: a un certo punto i soldati, in divisa e con i volti coperti, partecipavano alle manifestazioni nazionali a ranghi serrati, sempre accolti con esultanza dalla piazza. Citerò uno solo dei numerosi episodi relativi al primo periodo dei PID: le proteste seguite alla morte di sette alpini in Val Venosta, finiti sotto una valanga il 12 febbraio 1972. Partecipavano a una esercitazione assurda: per il maltempo era sconsigliata qualunque uscita in montagna ma i loro ufficiali se ne erano fregati. Lo slogan più scritto sui muri in quel periodo era certamente: “Di naja si muore!”. Molto interessante seguire la ricostruzione storica del movimento scritta da Deborah Gressani. Particolarmente attuale e toccante il capitolo in cui si raccontano i momenti più tragici del terremoto in Friuli del 1976: il lavoro quasi spontaneo dei soldati, l’incredibile stop dato dal comando per partecipare a inutili giochi di guerra. Il paese con il più alto numero di generali del mondo occidentale è stato un osso duro per il Proletari in divisa.
Il libro è ancora più coinvolgente quando si raccontano le storie di alcuni protagonisti, utili anche per capire che direzione hanno preso tante vite dedicate fino al ’77 alla militanza. L’animo dei PID (e anche di Lotta Continua) era ribelle e tendenzialmente rivoluzionario, ma nei volantini e nelle testimonianze non c’è traccia di militarismo, tipo: trasformare la naja in formazione militare rivoluzionaria. La parola più usata è, non paradossalmente, “democrazia”. Il movimento si batte per la democratizzazione delle Forze Armate italiane. C’erano allora scopertamente parti dello Stato italiano in perfetta continuità con il fascismo, uomini di comando e intere istituzioni. Battaglioni e reparti composti esclusivamente da personale di aperte simpatie nazi-fasciste. Stragi, prove generali di colpi di stato.
Dicevo dei ritratti che compongono la parte centrale del libro. Persone che avevano passato lunghi periodi nel carcere militare di Peschiera del Garda, come Gabriele Giunchi, uno dei più noti e amati attivisti dei PID. Cos’ha fatto dopo gli anni di militanza? Ha vinto il concorso come bidello di una scuola media e lì ha lavorato fino alla morte, causata da un incidente di montagna. Nel suo paese lo ricordano ancora, i ragazzi, perché quando si creava una turbolenza tra gli studenti o tra studenti e insegnati lui interveniva con il suo violino, e riusciva a calmare gli animi. Un’altra figura che appare ovunque nel libro, impegnato anche lui nei primi PID: Alexander Langer, dirigente di Lotta Continua ma molte altre cose, uomo di grande sensibilità e di grandi intuizioni. I suoi interventi (è stato sin dall’inizio tra gli ispiratori del movimento ambientalista italiano) sono ancora tutti attuali. Molti ex militanti di quel periodo, scrive Sinigaglia, hanno sentito il fascino delle filosofie orientali, dopo la politica. Il loro impegno politico si è spesso trasformato in impegno a favore dell’ambiente. Come il già citato Franco Travaglini, il più impegnato nei PID tra i dirigenti di Lotta Continua. Tutte queste (secondo me ottime) persone interagivano con la realtà, certo in modo conflittuale, ma non preparavano passi di lato o azioni da élite militari. Erano rivoluzionari, ma non stupidi.
La fine stessa di Lotta Continua, è forse la più decorosa tra le conclusioni possibili: è il frutto di una scelta politica, che non fu di Adriano Sofri soltanto. Un movimento che ha scritto le sue origini e anche le sue conclusioni. Che non sono necessariamente depressive, stile: aimé la rivoluzione è fallita. Di solito in queste vite che ci vengono raccontate, sia pure nel solco di un periodo particolare, non c’è traccia di abiura o di pentimento. C’è la prosecuzione dello stesso impegno in modo diverso, forse con meno vincoli identitari, forse anche con meno certezze.