La città vista da fuori

di GIANNI FIORENTINO.

Ad Avellino dovevi arrivarci. Erano salite, curve, manovre d’autobus ed erano alberi, era l’intrusione nell’intimità dei paesi, dei loro segreti, tra le facce assonnate della gente che interrogano la sola unica faccia che porti addosso tu, il passeggero. Per questo, Avellino era l’umidità del mattino alla fermata, i discorsi dei grandi (quelli sapienti, gli esperti) che calcolano vie e orari per il ritorno, indirizzi e insegne, e il pane giusto nelle buste bianche o nelle borse. Avellino era immensa. La città era tutta nei biglietti da custodire con cura, da annullare con rancore, e vecchie donne e anziani e bambini, la città erano gli odori della gente che si siede e aspetta Avellino all’orizzonte, che commenta San Mango, che scruta Chiusano, che si prepara già a Parolise, che fiuta Atripalda, impreca con forza all’ultimo ostacolo, quasi un check point, il passaggio a livello, e saluta alla fermata, sciama un intero paese nella città, svanisce tra i palazzi, in una galleria, sotto i portici, falce-martello. L’Unità.

DSCN8202Per noi che venivamo dalla provincia, dalla campagna, con quella faccia un pò così e quell’espressione un pò così, Avellino esisteva nel rito dei preparativi, e la facevi sì più grande di quella che era, te la figuravi di proposito tentacolare, volevi perderti già prima di arrivarci perché essa era per te “la Città”, l’esperienza, la giusta, cristiana ricompensa di cemento, vetrine e gente, per l’espiazione durata un viaggio intero. Avellino, dunque, era anche questo. E sentivi che essa sapeva già tutto di te, e ti stava aspettando, stava al tuo gioco paziente e già chiassosa. Col tuo circo di sensazioni e immagini, venivi inghiottito: scoprivi gli altri, evitavi il paesano se potevi, rimuginavi compiaciuto la scritta “Magazzini Americani”, tua madre ti teneva per mano nella fila ai “Coltivatori diretti”, ti accertavi che Roca fosse sempre là.

Dall’altra parte, il bar, il corso. E la Standa: bella, profumata e colorata, tutta di vetro, quaderni, carrelli, vestiti e roba e poi roba. Quando lasci Avellino hai la sensazione di un’emozione non conclusa, di una puntata da venire, di un episodio da raccontare ancora, sempre e poi sempre. E nel viaggio di ritorno, ognuno dei vecchi, a turno, narra una città diversa da quella vissuta dall’altro, e fa piacere vederli ritrovarsi di tanto in tanto agli incroci di questi discorsi. Tu ascolti, e sei felice perché sai che la tua Città Invisibile è ancora più grande.

Avellino arriva nelle televisioni avare delle nostre case di paese, tutta in bianco e nero: apprendi l’evidenza di Teleavellino con le sue mille repliche dello stesso film che manco su Sky, e ti scontri bambino col mistero (ancora attuale) del nome TeleLodo. Oggi, anche a vedere le tv locali piene di veline di paese che zompettano nottetempo e per ore intere tra gli scaffali dei negozi come in preda ad un bisogno di cui si ignorano le radici, ti chiedi se quella città che hai amato così tanto e desiderato, sia mai esistita: e sai bene che, naturalmente, la risposta è no.

Ma forse le città belle e immense, e grandi, autorevoli e accoglienti, esistono nella misura in cui le vogliamo, le cerchiamo, le costruiamo, forse anche con le parole.

DSCN8297Avellino, per noi della provincia, oggi che ne conosci gli angoli e le facce e la lingua così diversa, oggi che la evitiamo per scappare a Roma o a Napoli, Avellino è come un giocattolo dell’infanzia che ad un certo punto si è rotto. Di quello che avevi tra le mani improvvisamente vedi solo meccanismi, manovre e altri meccanismi e manovre: non ti piacciono, come forse avresti voluto che fosse. Un pazziariello rotto nell’immaginazione, non dalla sola e terribile terra. Il cielo sopra Avellino, quello stesso indicato dal dito di Juary nella sua folle danza, quello impastato da “raggionamendi” e politica alta, il cielo di una storia e di una cultura, a me pare diventato grigio. Un grigiore, una sorta di opacità nella quale scorgi a fatica le differenze, non trovi il senso. Proprio come il senso per strada, che non discerni, che cambia repentinamente, impazzito: una città che avesse un’idea di sé un pò più alta, non avrebbe accettato mai che si giocasse con i sensi e con le vie nella maniera in cui si è fatto negli ultimi anni. Cambiare senso alle strade di una città è come -immagino- toccare i nervi di un corpo vivente: come vive una comunità che accetta interventi continui di questo genere? Si sente ancora un corpo, un insieme armonico oppure è tutta in preda alla dispersione, alla frantumazione di sé, della sua identità?

Dove sta andando Avellino? La parola “rottura” si ripete nella politica e i giornali locali la replicano, come fosse una clava, sulla coscienza dell’Irpinia intera. La rottura (tout court, direi) sembra diventata l’obiettivo al quale consegnare la Città, il grande utero di cemento per noi provinciali, la grande madre che non fa più figli. Pare di veder andare tutti contromano lungo il Corso, aspettando che improvvisamente qualcuno, com’è sempre accaduto negli ultimi anni, cambi il senso. Ma quel qualcuno è lo stesso che è alla guida. E forse ancora non lo sa.