Cara Avellino

di Antonella Cappuccio

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.

Ti ho lasciata a diciannove anni con grande sollievo. Ricordo come se fosse ieri il senso di

liberazione che provai dopo la maturità. Dopotutto salutavo senza gloria, con in tasca un titolo ottenuto con il minimo dei voti, un piccolo mondo difficile, asfittico, ottuso.

Sono tornata definitivamente a distanza di quasi vent’anni dopo un lungo peregrinare ma non ho trovato parafrasando Pavese qualcosa di mio nella gente, nelle piante, nella terra ad aspettarmi.

OLYMPUS DIGITAL CAMERACon il passare dei giorni mi sono resa conto di essermi cullata per anni in un pensiero romantico e consolatorio che ha poco a che fare con la realtà perché “la realtà vera” è diventata forse peggiore di quella che avevo lasciato e nella quale, a diciannove anni come a trentotto, non ritrovo nulla di mio. Non c’è nulla di mio in una città desertificata, lastricata, brutalizzata dall’asfalto e da imbarazzanti opere pubbliche senza senso alcuno, buone soltanto “a far comprare la Maserati” all’amico dell’amministratore di turno. Non c’è nulla di mio nella politica della “visione corta”, cortissima di oggi e di (quasi) sempre. Non c’è nulla di mio nello stanco ciondolare in corso Vittorio Emanuele, nel taglia e cuci della frustrazione e della noia, nel cartellone di cine-panettoni, nelle opere incompiute e abbandonate al degrado.

Un paese vuol dire non essere soli, scriveva Pavese.

Io credo che siano in tanti a sentirsi soli in questa piccola città dove il senso di comunità è oramai un concetto astratto, utile e suggestivo nelle campagne elettorali ma nella quotidianità soppiantato dal più facile e redditizio “l’un contro l’altro armato”. E forse cara Avellino, dovremmo cominciare a deporle le armi, per salvarci, per salvarti.

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Le foto sono di Antonella Cappuccio