di ANNIBALE COGLIANO.
Se la spagnola è il nemico invisibile rispetto al quale si procede ciechi o a tentoni sul piano della profilassi e della terapia strettamente sanitaria, lo Stato, come abbiamo visto sinora, non è cieco rispetto ai problemi di ordine pubblico interno e alla necessità impellente di portare a termine la guerra con la vittoria, che l’epidemia rischia di compromettere. Come risponda la società civile in una provincia del Mezzogiorno interno e quale dialettica si apra negli ultimi mesi di guerra e nei primi del dopoguerra, è quanto cercheremo di affrontare nelle pagine a seguire; con l’avvertenza che solo altri studi in differenti realtà territoriali potranno dirci quanto sia rappresentativa l’Irpinia contadina, semianalfabeta, con un’agricoltura di autosussistenza, governata da un notabilato trasformista e prono al Governo centrale, al quale ha dovuto assicurare obbediente carne da cannone, pace interna nel crogiuolo feroce del carovita, della penuria di beni, del calmiere, delle requisizioni di grano e di bestiame, dei feriti e degli invalidi, degli orfani, della morte di massa, nonché pace repressiva per le rivolte che hanno punteggiato tanti comuni della provincia per tutto il 1917.
La documentazione conservata presso l’Archivio Centrale di Stato[1] non lascia dubbi: a) la spagnola infierisce su un tessuto sociale non solo povero e governato da un pugno di uomini tracotanti, quale che sia l’appartenenza politica, ma duramente e lungamene provato , senza tregua, da malattie che la precedono da decenni e la seguiranno per lungo tempo a venire: malaria, tifo, meningite cerebro-spinale, vaiolo, vaioloide, scarlattina[2]; b) fortissima è la resistenza all’isolamento sociale e alle terapie proposte dalle autorità sanitarie e politiche, poco o per nulla legittimate come agenti propositivi ed efficaci della salute collettiva.
Nella tradizione popolare, il lazzaretto e la contumacia (la quarantena) ad esso associata non sono strumenti validi e accettabili per guarire e per conservare la propria dignità o equilibrio mentale[3].Sulla profilassi e nella terapia laica dello Stato s’innesta sul piano antropologico una remota componente culturale religiosa, comune del resto alle tre grandi confessioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam). Sono il Levitico e i Numeri della Torah la fonte storica e normativa per i mali mortali e/o devastanti il corpo. È la lebbra (tzaarath in ebraico) la malattia infettiva per eccellenza della quale trattano i due testi sacri; malattia che ha flagellato il mondo occidentale sino al XIV secolo. La lebbra è un’impurità estremamente visibile sul corpo umano: «Quando uno ha sulla pelle del corpo un gonfiore o una pustola o una macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sia condotto dal sacerdote Aronne o da uno dei suoi discendenti. Il sacerdote esaminerà la parte malata […] allora dopo averlo esaminato dichiarerà quell’uomo impuro. […] L’uomo colpito da lebbra deve portare vestiti strappati, stare a capo scoperto e coprirsi la parte bassa del viso; egli deve gridare: “Impuro! Impuro!” Egli è impuro per tutto il tempo durante il quale è colpito dal suo male; per questo dovrà abitare fuori del campo»[4]. (Levitico 13, 1-3, 45-46). Dio ordina a Mosé: «Comanda agli Israeliti di mandar via dall’accampamento tutti quelli che si trovano in stato di impurità rituale, perché colpiti dalla lebbra o da un’infezione agli organi genitali o perché hanno toccato un cadavere. Dovrete tenerli separati, lontano da voi, siano uomini, siano donne, perché non sia contaminato l’accampamento, dove io sono presente in mezzo a voi» (Numeri 5, 1-3).
All’autorità divina, progressivamente, prima nel corso del Basso Medioevo e di tutta l’età moderna (mirabili i lavori di Michel Foucault, in particolare Sorvegliare e punire) e poi con la legislazione napoleonica, si accompagna o subentra nel tempo l’autorità laica (medica e politica) nel disciplinare la segnalazione del morbo (basti pensare all’obbligo della denuncia), la separazione, la distanza, l’esclusione, e infine lo stigma. Atti questi che fanno presto a scivolare da una legittima e doverosa profilassi, temporanea, vigilata e attenta a non ledere sentimenti e privacy, verso la ricerca di un nemico e di un capro espiatorio, o, ancora peggio, verso il controllo sociale e politico di parti o dell’intero corpo sociale.
Preziosa per ricostruire le dinamiche del tempo a proposito di isolamento sociale e profilassi in genere è una nota del direttore della “Rivista Internazionale di Clinica e Terapia” pubblicata a Napoli[5], indirizzata alla Direzione generale di sanità. La nota ha come punto riferimento un lavoro sul campo nel 1914, a Cervinara, comune irpino ai confini del beneventano e del casertano, dove, imperversa un’epidemia di scarlattina, e che poi nel 1918 sarà uno dei centri fra i più bersagliati dalla spagnola. Il comune è provvisto di lazzaretto, dove solitamente sono trasportati gli infermi poveri (i benestanti sono solitamente lasciati in casa). Non tutti i poveri però denunciano la propria infezione, per evitare l’isolamento e le condizioni di vita del lazzaretto. Nel caso della scarlattina, essendo i bambini i più colpiti, è ancora più frequente la mancata denuncia da parte dei genitori. Il direttore della “Rivista Internazionale” chiede allora l’intervento della Direzione generale della Sanità pubblica, affinché, in alternativa, disponga almeno la chiusura prolungata delle scuole per evitare il diffondersi ulteriore del contagio:
Le epidemie di scarlattina hanno questo di caratteristico che si sviluppano lentamente, presentando nel loro decorso ripetute remissioni ed esacerbazioni, e si estinguono lentamente, pur provocando ancora per un tempo lunghissimo casi isolati. Poiché sono i bambini i soggetti più disposti a contrarre la malattia, si comprende come le pubbliche scuole, gli asili infantili offrano principalmente occasione alla diffusione della scarlattina, e come le epidemie irraggiano principalmente da questi centri. Non è più in questione la possibilità di uno sviluppo autoctono della malattia: ogni caso proviene da un caso precedente, e sicuramente non si può dimostrare la via seguita dalla infezione. Bene, adunque, il Sindaco del Comune di Cervinara chiuse le scuole (sebbene con molto ritardo), ma occorre che tale chiusura si prolunghi di molto, e non di pochi giorni, perché in tal caso si verificherebbero esacerbazioni della malattia; è per questo che il sottoscritto si rivolge alla spettabile Direzione Generale, onde questa vorrà ordinare il prolungamento della chiusura delle scuole per lo meno fino a tutto il mese di marzo.
Non ce ne voglia il lettore se, per fare ulteriore luce sul lazzaretto e sulle reazioni popolari alle politiche delle pubbliche autorità, deroghiamo dalla documentazione ufficiale, riportando un episodio tratto da fonti orali della comunità di chi scrive, Gesualdo, centro rurale, di poco meno di 5.000 abitanti al censimento del 1911 e con 650-700 soldati sotto le armi ai tempi della spagnola. Il fatto accaduto circa due anni dopo l’epidemia di spagnola, ci consente di entrare ulteriormente nel vivo dei rapporti fra mondo popolare e autorità sanitaria e politica.
In Gesualdo, centro fieristico regionale, in agosto, mese in cui il vaiolo, il tifo e la scarlattina bussavano alle porte di tante case in tutta la provincia, due ambulanti che portavano cocomeri su un carretto, provenienti da un lontano comune del salernitano, sono sospettati di spargere veleni dalle guardie comunali preposte a vigilare sull’andamento della fiera. Presto, le zelanti guardie, prima di sequestrare[6] i malcapitati, chiudono le porte del grande recinto rettangolare in cui si svolge la fiera. La folla, edotta da tanti arbitri passati, non dà credito ai sospetti e cerca di mettere in salvo i due ambulanti. Uno dei due malcapitati riesce a salvarsi arrampicandosi e saltando il muro di cinta; l’altro è afferrato e trascinato nel lazzaretto, distante poche centinaia di metri nei pressi del vecchio camposanto, dove resta prigioniero per due giorni[7]. In paese è tutto un mormorio di disapprovazione e di compianto: chi non ha avuto un congiunto malato nel lazzaretto? chi non ha portato cibo e medicine al familiare sperando e pregando per la sua guarigione? chi non ha avuto un parente o un conoscente morto in quel luogo? chi non ricorda lo stigma che ha accompagnato per tutta la vita chi da quel luogo è uscito vivo?

Stavolta si va oltre l’arbitrio del sospetto. Il lazzaretto, da luogo della separazione degli infettati o presunti tali, dai convalescenti e dai sani, da luogo della quarantena a tempo, si trasforma in tomba. Al terzo giorno il forestiero cessa di vivere: non di malattia, ma per una iniezione letale del locale ufficiale sanitario e medico, don Paolo Aldorasi, un notabile del paese, che quasi sicuramente avrà avuto il beneplacito del sindaco e dell’Amministrazione comunale. Quando l’ufficiale sanitario esce dal lazzaretto, alla domanda che un amministratore gli rivolge, «Si può salvare?», scuote la testa e risponde: «Ciò che è fatto è fatto!»
Una quindicina di giorni dopo i familiari, con alla testa il compagno di sventura salvatosi con la fuga, ignari dell’accaduto, arrivando in paese, chiedono notizie del congiunto e della sede del municipio per avere informazioni. Più voci pietose li dissuadono a non proseguire, inducendoli a tornare indietro fra urla disperate e rabbia sterile: le autorità potrebbero riservare loro la stessa sorte[8].
Non sembri l’accaduto solo un terribile atto di ferocia di una caccia fuori stagione a presunti untori. Non che non lo sia (magistrale la lezione Colonna infame di Manzoni nella ricostruzione della leggerezza e del cinismo dei magistrati di sanità milanesi), ma vi sono fattori ancora più gravi: l’ufficiale sanitario non è una figura professionale autonoma, non è come i tanti medici in servizio al fronte o fra la popolazione civile, che pagano spesso con la vita la fedeltà al giuramento di Ippocrate; egli dipende dal Ministero dell’Interno (Direzione generale di sanità pubblica), che attraverso il Prefetto può rimuoverlo qualora lo ritenga incapace o poco zelante. Le note della Prefettura inviate al Ministero dell’Interno sono sin troppo eloquenti per la rimozione frequente di ufficiali sanitari ritenuti poco solerti sia nelle disposizioni che nel controllo delle applicazioni profilattiche[9]. La loro efficienza si misura solo nella loro capacità di contenimento del contagio. Ne rispondono in prima istanza al prefetto, il quale a sua volta, può essere rimosso dalla sede e dalla funzione. Unitamente agli amministratori comunali, sono responsabili delle mancate denunce di infezione. Se non ci sono lazzaretti disponibili, debbono provvedere, di concerto con le autorità comunali, ad allestire locali di isolamento[10], o, nel caso di contadini infettati abitanti in case rurali sparse, sufficientemente distanti dall’abitato, debbono vigilare affinché non si muovano da casa affidando ai familiari la cura o, in alcuni casi, a personale infermieristico. Inoltre, accanto alla somministrazione di medicinali, debbono sempre provvedere alla disinfezione delle case[11], degli oggetti di uso quotidiano, delle strade, ecc. Non importa se la diagnosi è incerta, se i sintomi non chiari, e meno ancora se il malato muoia. L’importante è arrestare l’espansione dell’epidemia. La salvaguardia della propria immagine e del prosieguo della propria carriera professionale saranno probabilmente state prioritarie per il nostro ufficiale sanitario, così come lo sono state per il personale della Direzione generale di sanità pubblica al Ministero dell’Interno nell’affrontare la spagnola.
Dello scollamento fra le masse popolari e le autorità sanitarie e politiche, di cui abbiamo appena trattato, è testimonianza eloquente la vigilia della prima ondata della spagnola. Fra il 1916 e gli inizi del 1918 imperversano in tutta la provincia le malattie infettive più disparate, in particolare il morbillo e la più letale meningite-cerebro spinale, che colpiscono soprattutto i bambini[12]. Le autorità sanitarie tentano di isolare e curare gli infettati ricorrendo alle vaccinazioni di massa nelle scuole. Ma innestandosi la vaccinazione su un terreno segnato da requisizioni, penuria di beni alimentari e fame diffusa, che hanno già provocato rivolte per tutto il 1917, alimenta una nuova voce popolare di protesta, diffusa del resto in tutto il Mezzogiorno: il governo, per esigenze di guerra legate alla difficoltà di approvvigionamento alimentare, vuole con le vaccinazioni ridurre le bocche da sfamare uccidendo o riducendo l’appetito dei bambini. Specularmente e con ignoranza e cecità ancora più grassa, le autorità governative centrali, ispettive e sanitarie, danno al rifiuto della profilassi e della terapia in corso, un valore politico di attentato patriottico: propalazione di notizie volte a demoralizzare lo spirito pubblico (sarà solo con la seconda ondata della spagnola che cambierà il registro di lettura). Popolo ignorante e Stato cieco: è un doppio irrazionalismo, prodotto della delegittimazione dello Stato liberale che ha imposto la guerra. Agli inizi dell’epidemia, ai primi casi di infezione, fa ancora testo per la Prefettura e i gruppi dirigenti irpini la circolare del ministro dell’Interno Orlando del 24 aprile 917:
Già con precedenti circolari ho avuto occasione di richiamare l’attenzione delle SS. VV. sulla diffusione di notizie allarmanti, deprimenti lo spirito pubblico e sulla necessità di una rigorosa ed assidua vigilanza per sorprendere e denunciarne gli autori, a’ sensi dell’art. 2 del D. L. 20 giugno1915, n. 885. […] Le notizie più disparate circolano ovunque, nelle città come nelle campagne, accennanti in particolar modo, ad una imminente invasione del nostro paese da parte degli eserciti nemici con il conseguente ordine, già emanato dalle Autorità, di evacuazione della popolazione dai territori minacciati, a combattimenti con elevate perdite pel nostro esercito, all’affondamento di nostre navi da guerra, facendone risalire la responsabilità all’imperizia ed alla impreparazione dei Comandi.
Anche sulle condizioni interne dell’ordine pubblico si diffondono voci infondate di moti insurrezionali scoppiati in diverse regioni e di repressioni sanguinose. In qualche piccolo centro si è giunti persino ad insinuare che le Autorità cercano di sopprimere i fanciulli con iniezioni e con la distribuzione di sostanze venefiche, mancando i mezzi per alimentare la popolazione. Naturalmente tutte queste voci fantastiche che per la loro persistenza finiscono talvolta per trovar credito anche presso le classi meno incolte, non possono che ingenerare un diffuso stato di inquietudine, di malessere e di panico, che si ripercuote dannosamente sull’ordine pubblico e sulla economia nazionale e viene ad insidiare la resistenza mirabile di cui ha dato finora prova il nostro paese. Si rende, pertanto, indispensabile che le Autorità esplichino un’azione attivissima ed illuminata per combattere l’insana propaganda, procedendo con tutto il rigore della legge, senza riguardi di persona, contro tutti coloro che per leggerezza, incoscienza o per fini meno confessabili, concorrono a questa opera di demoralizzazione e di disgregamento. […][13].

Da un lato, il famigerato decreto Sacchi che colpisce con l’arresto, la prigione e multe salatissime indistintamente chiunque parli di guerra o esprima desideri di pace; dall’altro la sindrome di Caporetto per un possibile cedimento del fronte interno portano all’assurdo, al surreale.
Un telegramma del prefetto Pietro Frigerio, inviato al Ministero dell’Interno il 21 febbraio 1918, così descrive l’Alta Irpinia:
In alcuni comuni del circondario di S. Angelo dei Lombardi, si è sparsa notizia che bambini sarebbero stati sottoposti ad iniezioni debilitanti per ottenere minore consumo generi alimentari. Notizia determinò allarme nelle famiglie, onde madri in massa recaronsi alla scuola per ritirare bambini. Mercé pronto intervento autorità, funzionari di P.S., Arma RR. Carabinieri e persone influenti calma poté ovunque ristabilirsi. Soltanto a Volturara, circondario di Avellino, ore 10 del 18 corrente, improvvisamente riunironsi adiacenze scuole circa 100 persone, reclamando consegna bambini, nonostante protesta ed opposizione insegnanti che spiegavano assurdità voce, dovuta evidentemente a qualche nemico della Patria (corsivo nostro). In tale occasione Arma procedette arresto 2 donne ed un uomo risultanti promotori assembramento[14]. Ordine pubblico ristabilitosi prontamente ed attualmente è ovunque perfetto. Ad impedire ulteriore divulgazione notizia e conseguenti ingiustificate agitazioni, ho interessato telegraficamente Arma, Sindaci, Parroci ed altre persone influenti smentire insensata malvagia notizia, facendo rilevare che a tutela salute infanzia Governo raccomanda e favorisce ovunque istituzione refezione scolastica[15].
Il giorno successivo, il 22 febbraio, la divisione dei Regi Carabinieri di Avellino dà ulteriori informazioni sui comuni di Montella, Paternopoli, Castelvetere, in cui, fra l’8 e il 15, «dato il momento attuale, madri forsennate si recarono a rilevare i bambini dalle scuole temendo che effettivamente si volessero sottoporre ad iniezioni debilitanti.» Ma, per quanto sollecite siano le indagini, l’Arma e il funzionario prefettizio di P.S. comunicano come non sia stato possibile individuare i propalatori di notizie allarmanti. Né – aggiungiamo noi – ve n’erano effettivamente: la diceria sulle iniezioni debilitanti ha a che fare con uno stato d’animo di disagio e sofferenza diffusa, che la caccia agli untori non può cogliere. L’area dei propalatori – in una nota prefettizia successiva – si allarga a 27 comuni. Atripalda[16], centro commerciale prossimo ad Avellino (unitamente a Montella), è individuata come centro diffusore, e, a pagarne le spese, sono due giovani donne e un cinquantenne, incriminati e arrestati sulla scorta del decreto Sacchi del 4 ottobre 1917.
Il 23 febbraio, il provveditore agli studi, Vincenzo Spaziante, massone del Grande Oriente, dotto in teoremi di complotto, invia una circolare (Per la difesa della scuola), agli ispettori e agli insegnanti della provincia, affinché sventino la diceria e denuncino i “propalatori” locali. Con una aggiunta xenofoba, se non razzista, che si commenta da sé: il complotto è ordito da mentori tedeschi e austriaci: «È da rilevare che la fonte di tale voce non può essere che quella dei nemici della Patria e che, com’è evidente, la manovra di costoro è diretta allo scopo di ottenere che i fanciulli disertino le scuole, nelle quali ora si va svolgendo tanta efficace opera di propaganda patriottica.» Chi sono i manovratori tedeschi e austriaci? I profughi delle zone di guerra presenti in provincia: è la fantasmagorica risposta del Provveditore: «Siate pure preparati a combattere altre azioni antipatriottiche dei nostri nemici; poiché è da aspettarsi che essi, abusando della cortese ospitalità che godono nella nostra Provincia, potranno ricorrere ad altri mezzi che credono atti a dirimere e a far rallentare la mirabile resistenza interna»[17].
L’eco è nazionale. Il Direttore generale di Pubblica Sicurezza, il 7 marzo, così relaziona al Ministro dell’Interno:
Nella terza decade dello scorso febbraio, le condizioni dell’ordine pubblico sono rimaste soddisfacenti, benché qua e là siano continuate, in special modo nelle provincie meridionali, manifestazioni per l’applicazione della tessera per la macinazione dei cereali o per protestare contro la deficienza dei generi di prima necessità. […] In alcuni comuni del circondario di S. Angelo dei Lombardi (Montella, Castelvetere, Paternopoli, Volturara, Atripalda) si è invece avuto una serie di agitazioni determinate dalla sciocca, malvagia notizia che i bambini dovevano essere sottoposti ad iniezioni producenti deperimento del loro organismo allo scopo di ottenere un minor consumo di generi alimentari. Le donne, allarmate, e molto eccitate, corsero alle scuole elementari reclamando i loro ragazzi. Pare che l’allarme sia da attribuirsi a una circolare sulla profilassi delle malattie infettive. Ad ogni modo le Autorità, oltre a svolgere opera persuasiva per far comprendere alle popolazioni tutta l’assurdità di tale voce, hanno iniziato indagini per rintracciare i responsabili della propalazione e difatti, si è già proceduto ad arresti[18].
Gli arresti e le azioni delle autorità provinciali non fermano né possono fermare i nemici della Patria. Tutte le prigioni del Regno non basterebbero: agli inizi di marzo, lo stesso fenomeno si registra in tanti altri comuni irpini, nonché del beneventano e del casertano.
Di questa impossibilità è prova un processo che vorrebbe essere esemplare, celebrato in Avellino e approdato in appello a Napoli[19]. Il primo nemico della Patria è Federico Verrusio, che avrebbe propalato la diceria di iniezioni letali in Montesarchio e Rotondi, comuni rispettivamente della provincia di Benevento e di Avellino. Arrestato dopo una breve latitanza, è condannato a 46 giorni di carcere (anche per resistenza e minacce a pubblico ufficiale, ossia alle maestre in servizio, obbligate, con reiterati insulti, al rilascio del figlio a scuola) e a lire 160 di multa[20]. Verrusio, di anni 50, è un ramaio e stagnino di Montesarchio, 4 volte condannato per lesioni personali; analfabeta, è padre di 6 figli, due dei quali in guerra. Verrusio non negherà gli addebiti mossi, ma dirà in istruttoria e in dibattimento che una sua figliolina era morta a seguito di iniezioni. A Montesarchio altri nemici della Patria sono tre contadini analfabeti (due donne e un uomo), poi assolti per insufficienza di prove o per inesistenza di reato. I reati imputati: violazione del Decreto luogotenenziale, art. 1, del 4 ottobre 1917, n. 1561, (decreto Sacchi), artt. 195 e 68 del Codice penale, e del D. L. del 23 maggio 1915, n. 674 (notizie false e tendenziose che attentano all’ordine pubblico).
Ad essere colpito dal pugno di ferro della magistratura è soltanto Verrusio. La gran parte dei nemici della patria resta fuori dalle incriminazioni: oltre un centinaio di mamme, secondo le dichiarazioni delle maestre, sono entrate a scuola per ritirare i propri figli e hanno invitato gli altri genitori a fare altrettanto per impedire che fossero sottoposti ad azioni venefiche.

Più che la ricostruzione della propalazione della sciocca, malvagia notizia e degli esiti processuali[21], interessa riportare, attraverso la sentenza del Tribunale di Avellino e gli atti istruttori, l‘interpretazione del decreto Sacchi sul disfattismo. Non vi sono internati o profughi fra i mentori occulti, come vorrebbe il Provveditore agli studi e come escludono i testi chiamati a deporre, ma la diceria è di massa. I giudici si sentono obbligati a reprimere, ma, pur riconoscendo che Verrusio non è l’autore della diceria, non solo non tenendo conto dell’estrazione sociale e del livello di alfabetizzazione degli imputati e pur a fronte del ritiro della querela da parte delle insegnanti offese; obbligati perché tenuti a sottoporre in visione gli atti processuali al Procuratore del re presso la Corte di Appello di Napoli, che si attiene rigidamente alla lettera e allo spirito del decreto Sacchi, uniformandosi alla giurisprudenza del Comando militare supremo:
Il decreto Sacchi punisce il fatto volontario che abbia l’attitudine a deprimere lo spirito pubblico, indipendentemente dall’essersi verificato l’effetto dannoso. Tale decreto è nel suo costrutto così intuitivo da non far sorgere malintesi. […] Fino a che il Verrusio si fosse limitato a palesare con qualcuno il suo timore, si sarebbe potuto forse dubitare della sua responsabilità, ma invece egli volle senza alcun plausibile motivo, fare una vera propaganda in un paese forestiero. È vano perciò giustificarne l’operato con testimoni ed invocare questo o quel vizio di mente; egli volle violare palesemente la norma punitiva in esame e deve subirne le conseguenze. […] Il decreto Sacchi in parola non mira a reprimere il disfattismo bene organizzato e sistemato, onde annientare col più deplorevole intento la resistenza della Nazione, ma vuole colpire un disfattismo di più minute proporzioni, quello per così dire da marciapiedi o da caffè, come ben rilevava la sentenza del Tribunale Supremo di guerra. […][22].
Siamo semplicemente e tragicamente di fronte ad un’aberrazione giuridica, figlia a sua volta di un’aberrazione politica, governativa e istituzionale a monte: repressione non degli effetti di un’azione, ma, nella psicosi delle autorità, di ciò a cui essa potrebbe indurre: la depressione dello spirito pubblico e la diminuzione della resistenza interna.
È in questo clima che la prima ondata della spagnola[23] fa la sua comparsa in Irpinia a fine primavera 1918, benigna nel suo decorso, non di massa, portata dai militari in licenza. La nuova infezione si scioglie quasi nelle altre gravi in corso, quando è riconosciuta diversa da esse, passa come una banale influenza stagionale di lieve entità.
Solo con l’estate avanzata, la nuova epidemia spagnola mostra il suo volto maligno, riconosciuta come spagnola dalle autorità e senza che possa essere minimizzata. Agli inizi di settembre la Prefettura comunica al Ministero dell’Interno che essa è prepotentemente presente da diversi giorni fra la popolazione civile nel comune capoluogo e che nelle carceri giudiziarie vi sono 37 detenuti e 8 guardie infette. Allarmante anche il quadro di altri comuni della provincia, fra i quali, con oltre un quarto della popolazione infettata, svetta Altavilla, centro minerario con 700-800 maestranze, provenienti sia dalla cittadina che da altre località, dove la Prefettura ha già inviato tre medici militari per integrare il servizio di assistenza sanitaria.
La giunta comunale di Ariano, presieduta dal sindaco Silvio Nicoletti, suona l’allarme; il 30 settembre con una delibera ad hoc chiede provvedimenti sanitari drastici: che l’Ufficiale sanitario faccia voti al Ministero dell’Interno affinché dichiari Avellino capoluogo zona infetta. La richiesta implicita è che sia istituito un cordone sanitario intorno al capoluogo. Duplice la motivazione, una di ordine locale e una di ordine più generale: a) la città (17.000 abitanti, la seconda della provincia per popolazione, sede di sottoprefettura) dove da mesi e mesi imperversa la scarlattina, non ancora debellata [24], non può caricarsi di un’altra epidemia. Inoltre, su 5 medici, 2 soltanto sono in servizio attivo, uno è infermo, gli altri due sono anziani (l’Ufficiale sanitario del luogo sarà rimosso di lì a qualche giorno); b) Ariano, benché distante da Avellino una sessantina di chilometri, «è in contatto giornaliero con il capoluogo per passeggeri, movimenti di merci e materiale vario». Da secoli, infatti, Ariano è il centro nevralgico di transito delle merci e dei beni primari dalla Puglia a Napoli.
Il Ministero non accoglie la richiesta e Avellino città provvede da sé come può e sa. La diffusione del contagio è rapidissima e l’Amministrazione comunale prende i soliti provvedimenti in uso da anni: pulizia delle strade, disinfezione dei locali pubblici, proibizione di lavaggio della biancheria lungo le vie dell’abitato (la città è sviluppata urbanisticamente lungo la retta che congiunge la porta orientale e quella occidentale, Porta Puglia e Porta Napoli, dove transitano uomini e merci), cibo e medicinali ai poveri. Dopo neanche due settimane dalla diffusione del contagio, molti medici sono fuori uso e non resta che invocare al corpo d’armata di Napoli medici militari da destinare al servizio civile.
Il prefetto, Pietro Frigerio, il 19 settembre, chiede (e ottiene con sollecitudine) al Ministero dell’Interno di poter sospendere il pellegrinaggio a Montevergine (da secoli meta di pellegrini provenienti da ogni parte della Campania sino a metà ottobre), per evitare «l’affollamento di gente sudicia sui treni e durante il pernottamento al santuario».
Intanto il Ministero dell’interno ha nominato un Ispettore medico per le province meridionali e ha inviato farmaci, prodotti alimentari – ovviamente ben poca cosa per fronteggiare l’epidemia. Nel giro di una quindicina di giorni, a metà di settembre, su 129 comuni irpini, almeno il 40% ha medici militari di supporto per profilassi e terapia, che il Prefetto – poi censurato – è riuscito ad ottenere rivolgendosi direttamente al corpo d’armata di Napoli (successivamente giungeranno anche medici del corpo d’armata di Ancona), scavalcando la Direzione generale di sanità pubblica.
Nei vari comuni i decessi si moltiplicano ad horas, le carceri giudiziarie sono allo tremo per contagi e decessi, molti medici e farmacisti si ammalano e muoiono come tutti, nel giro di pochi giorni. Numerosi i comuni che resteranno per tutta la seconda ondata privi di personale sanitario. Il bollettino sanitario settimanale della Prefettura è tragicamente ripetitivo.
Il picco dei contagi, agli inizi dell’ondata epidemica, è a macchia di leopardo: oltre al capoluogo e ad Altavilla, il contagio interessa i comuni confinanti con le province contigue (Accadia, Monteleone, Greci, Calitri, Lacedonia con la Capitanata; Marzano di Nola, Avella, Lauro, Baiano, Sperone con Napoli; Cervinara, S. Martino V. C., Rotondi con Benevento e Caserta); poi, verso la metà di settembre è la volta dei centri interni alla provincia, senza che alcuno sia risparmiato. Nel mese di ottobre si contano a centinaia le denunce per infezione e pure a centinaia e le segnalazioni dei decessi da parte di ogni singolo comune[25]. E a centinaia si moltiplicano le richieste di aiuti alimentari (latte, carne, zucchero), alle quali cerca di provvedere con la generosità possibile la Croce Rossa americana.
Non c’è profilassi che tenga: la pulizia e l’igiene (calce nei cortili, disinfezione delle strade, disinfettanti vari), da un lato, i rimedi praticati e le medicine di solito somministrate (chinino in particolare) per altre malattie infettive, dall’altro, non riducono – non possono ridurre – contagi e decessi. Anzi, in taluni casi, specialmente i salassi, che incautamente sono praticati, peggiorano lo stato di salute. Inutile dire che la spagnola è anche una infezione di classe che, in una popolazione in gran parte denutrita, con un’alimentazione povera di proteine e vitamine, già debilitata da altre malattie endemiche, trova terreno fertile per infierire, non solo su classi d’età più forti e giovanili (per la tempesta immunitaria che aggrava l’aggressione della spagnola, come abbiamo visto precedentemente), ma su tutte le fasce d’età e, soprattutto, sugli strati sociali più poveri e più deboli[26].
Sul finire della prima decade di ottobre, l’epidemia è del tutto fuori controllo: molti i sindaci e gli amministratori comunali che, se non sono ammalati o deceduti, sono latitanti[27]; i conforti religiosi sono impossibili per l’elevato numero dei moribondi; molti gli ammalati che muoiono soli e abbandonati; molti i cadaveri lasciati per giorni nelle case. Regge la sola profilassi di divieto di funerali e messe in chiesa, più per paura di contagio che per convinta obbedienza, accompagnata dalla tragica solitudine del morente, dall’allentamento o dalla perdita di ogni vincolo familiare e sociale, di cui il mancato seppellimento dei cadaveri è la massima espressione.

A titolo di esempio, prendiamo alcune note prefettizie. Il 12 ottobre, il Prefetto comunica al Ministro dell’Interno:
In Lacedonia ove epidemia ha assunto larghissima diffusione con notevole mortalità, accentuata da fondo malarico occorre integrare servizio risanamento disinfezioni con urgente invio almeno sei militi sanità. Prego codesto Ministero interessarne subito quello Guerra. Prego inoltre disporre invio scorta chinino giusta anche precedente richiesta fatta con telegramma 4 corrente. Ringrazio[28].
Il 13 ottobre, il quadro sanitario è ancora più fosco: il Prefetto comunica che nella gran parte dei comuni non è più possibile formare sul posto squadre per la disinfezione e il seppellimento dei cadaveri, per cui occorrono numerosi militi.
Il 25 ottobre, a seguito della visita nei comuni di Nusco, Calitri, Bisacci e Lacedonia, il Prefetto scrive:
In Nusco epidemia influenza sembra abbia raggiunto sua acme con mortalità almeno finora relativamente limitata. Assistenza medici e farmaceutica sufficienti. Ho promosso costituzione comitato locale per contribuire autorità municipale nell’organizzazione servizi profilattici. Ho inviato sufficiente scorta disinfettanti ed una certa quantità di latte condensato che ho ottenuto da locale sezione Croce Rossa Americana.
In Bisaccia numero casi influenza va giornalmente diminuendo, ma mortalità continua ad essere abbastanza elevata, perché morbo miete numerose vittime tra bambini convalescenti morbillo e tra infermi malarici cronici cui numero è assai rilevante. Parimenti al fondo malarico devesi attribuire elevata percentuale morbilità per influenza in Lacedonia e Calitri.
Agli inizi di novembre, nella gran parte dei comuni la mortalità decresce, mentre in altri è al suo picco (Volturara, Zungoli, Mugnano del Cardinale, Baiano). Bisognerà attendere la fine di dicembre e compiutamente la fine di gennaio perché la spagnola arresti il suo corso di contagi e decessi.
Sul vissuto popolare non possiamo che dare la parola ai vinti e ai sopravvissuti di quel tempo[29].
1° ottobre –
Da Torella dei Lombardi, Peppino a Elena Rubino, in New York:
Torella è tutta impestata, muoiono gente e gente al giorno.
7 ottobre 1918 –
Da Bisaccia, Francesca La Penna a Giuseppe La Penna, in Cincinnati (Ohio):
Il guaio è che a Bisaccia ci sta una grande mortalità e ne muoiono 10 o 12 al giorno, perché infuria una brutta malattia chiamata febbre gialla o spagnola.
Da Fontanarosa, Carmela Di Prizio a Giuseppe Frattolino, in Lynn, (Massachusetts):
Sta il paese tutto ammalato e ne muoiono molti, vecchi, ragazzi e giovani e li portano a terrare appena spirati, a diritto al camposanto non so dirtelo questo dolore, quanto è grande di fare questa morte così crudele.
Da Cervinara, Marcaldo Giovanni a Giovannina Marcaldo, in New York:
È proprio uno spavento! Incominciano dal mattino e finiscono alle nove di sera per trasportare i morti al cimitero. A Cervinara 9 o 10 al giorno ne muoiono, nella città oltrepassano centocinquanta al giorno, con questa fulminea malattia si muore in due giorni.
14 ottobre –
Da Orsara di Puglia, Sallo Leonardo a Sallo Rocco in Rosende Ave [sic]:
Qui corre la febbre spagnola e muoiono 5 0 6 al giorno, questa febbre si prende alla sera e alla mattina non si trova più, questa è una brutta malattia.
Da Monteforte Irpino, Criscitiello Antonietta a Santulli Giovanni, in Matsburg (Marlbourugh, Connecticut.):
Caro figlio qui in Italia corrono molte malattie, le febbri spagnole ed altre e a Monteforte ne muoiono 6 e 7 al giorno a pure le tue sorelle sono state ammalate… e questa è una malattia che non si può andare a trovare nessuno se no subito si infetta.
15 ottobre –
Da S. Stefano del Sole, Pietro Pisapio a Emilio Pisapio, in Canadà:
Caro figlio ti fo sapere che qui ci sta una malattia infettiva chiamata febbre spagnola e nella città di Avellino ne muoiono 25 o 30 al giorno.
Da Avellino, Costantina Millo a Pellegrino Millo, in Bridgeport (Connecticut):
Vi sono stati circa due terzi della città attaccati, con mortalità di oltre il due per mille. Immagina si vede ogni poco il carro, e non era possibile curarsi mancandoci tutto, fin’anco le medicine. Chi ha fatto molto è stata la Croce Rossa americana che ha aiutato tutti in tutti i modi, anche con la somministrazione di oltre mille litri di latte al giorno.
16 ottobre –
Da Avellino, Natale Mappa a Raffaele Mappa, in Paterson (New Jersey):
Nel mese di settembre tutta Avellino è rimasta a letto che il caldo ha portato la febbre chiamata spagnola che la gente sta bene in un momento muore tu non puoi immaginare che squallore un po’ la guerra e un po’ la malattia non c’è rimasto nessuno.
Da Gesualdo, Giuseppina Solomita a Luigi Mannetta, in Port Chester (New York):
Siamo stati tutti ammalati con la febbre spagnola che ha impestato tutto il mondo. A Gesualdo ne muoiono 7 o 8 al giorno, certe famiglie hanno fatto case chiuse.
Da Cervinara, Filomena Cioffi a Michele Cioffi, in New York:
A Cervinara ne sono morti parecchi, più di 200 tra donne, giovani e ragazzi.
18 ottobre –
Da Avella, Olimpia Barca ad A. Alvino, in Boston (Massachusettes):
Un’aria infetta ha infettato tutto il mondo, in Avella sono morti 13 o 14 al giorno e muoiono ancora e questa malattia si chiama febbre spagnola.
20 ottobre –
Mirabella Eclano, da B. Cappuccio ad Antonio Petrillo, in Quincy, (Massachusettes):
Caro nipote con queste febbri infettive che corrono a Mirabella è una vera strage, muore la gente che fa spavento, le famiglie intere, si sono chiuse le porte, tanti sono morti che non li portano nemmeno al paese, si portano traversando i campi.
La morte di una profuga di guerra:
Il giorno 20 muore Cappello Venanza di anni 24, nata in Palmezzo ed a causa di una possibile invasione nemica in questa guerra italo-austriaca, il Governo d’Italia l’ha mandata qui profuga, insieme alla di lei famiglia. Questa signora è morta in grembo di Santa Chiesa, in casa altrui, in contrada Fornace. Travolta dal furore epidemico, niuno dei domestici invitò il sacerdote per darle i conforti della Chiesa[30].
22 ottobre –
Da Atripalda, Di Benedetto Luigi a Di Benedetto Sabino, in Boston (Massachusetts):
Ti fò sapere che qui è comparsa una malattia che ha distrutto un buon terzo del paese e la maggior parte tutti ammalati.
29 ottobre –
Da Bisaccia (Avellino), L. Notillo a Giovanni Notillo, in Newark (New Jersey):
Qui vi è una moria terribile che si muore tutti i giorni e non manca mai di morire 5 o 6 al giorno e vi sono stati giorni che ne sono morti fino a 12.
15 novembre –
Da Caposele, Concetta Gatta ad Antonio Mignone, in New York:
Ci è stata una peste terribile che ne sono morti 8 e 10 al giorno, chiamata febbre spagnola, neppure alla Chiesa l’hanno portati e senza sonar le campane direttamente al cimitero le portavano e noi per non prendere quell’aria infetta non siamo usciti neanche la porta, sono morte più di 30 mogli di soldati.
Giovanni Abruzzese, sopravvissuto, di Montefalcione, nato nel 1902, 60 anni dopo, racconterà così il suo rapporto con la spagnola a Fausto Baldassarre:
Io con altre quattro persone prendevo i morti, li portavo sulle spalle per andare a seppellirli. Ci davano 2 lire per compenso. Mamma non voleva. Diceva che in quel modo sarei stato contagiato, che avrei portato la malattia in casa. Parecchi morirono, uno dopo l’altro. Non si suonava più neanche la campana per accompagnare i morti. Sul defunto gettavamo un po’ di terra e dicevamo: “prega per noi”. In paese morivano di più, in campagna meno. Agli, vino: così si combatteva la spagnola[31].
12 novembre –
Da Mugnano del Cardinale, A. Ferrara a Gelsomina Ippolito, in New York:
Ti fo sapere che in tutti i paesi della provincia di Avellino esiste una malattia chiamata il morbo che ha fatto una straggia di giovane e giovani cosa a non credere, nel nostro paese ne sono morti al di là di 60, si prendevano come tanti cani, non si suonavano neppure le campane a morto, non ti dico a Monteforte che ne ha fatto grande strage 10 e 15 al giorno non ti dico in altri paesi quanti ne sono morti si mangia tutto a caro prezzo la carne L. 14 al chilo le uova fino ad una lira ognuna, la verdura non ti dico le paste L. 2,60 al chilo, il vino L. 1,50 al litro, dobbiamo morire per forza di fame.
Da Mirabella Eclano, Gilda a Michele Limoli, in New York:
A Mirabella alcune famiglie sono state completamente distrutte e pare impossibile i morti sono rimasti soli perché neanche i parenti più intimi sono andati a visitarli per paura del contagio. Sono stati quei poveri morti trasportati al cimitero avvolti con lenzuoli, senza cassa funebre sulla barella. Grazie a Dio fino ad oggi in nessuna famiglia civile del nostro paese vi è stato decesso per questa orribile malattia, sebbene in forma benigna, chi più grave, chi più lieve l’abbiamo avuta tutti, motivi per cui i villani dicono che è colpa nostra e che la gettiamo noi per far morire la gente povera.
Da Pietrastornina, Antonio D’Alessio a S. Gioffreda, in Porto Reidinca [sic]:
Al nostro paese ne sono morti 260 cioè circa 20 al giorno che non si trovava chi portarli al cimitero. Durante la malattia al nostro paese sono venuti i soldati a far servizio assieme con i medici che c’erano delle famiglie che non avevano chi porgerli un bicchiere d’acqua.
5 dicembre 1918 –
Da Frigento, Martone Lucia a Martone Tomaso, in Katerburg ([Canterbuty?] Connecticut.):
Speriamo che finisce questa guerra così te ne rimpatri, poi in Italia vi è molte malattie che in due giorni si muore e si chiama la febbre spagnola e per questo che non si hanno ancora aperte le scuole, per il troppo caldo è venuta questa malattia e dopo due mesi è piovuto e speriamo che adesso è rinfrescata l’aria si fermasse.
Da Cesinali, Pasquale Carrino ad Amante Urciuoli, in Stonghton (Massachusettes):
La figlia Rosina pure è stata malata con malattie nuove che sono uscite adesso, febbre chiamata spagnola, febbre rossa e muoiono la gente come arena, tutta la gioventù sette, otto al giorno, è venuto il distruggimento delle persone, un po la guerra un po la morte nel paese non c’è nessuno, si possono giocare con le palle.
Anche Luisella con figlie sono state malate con bronchite e non si può trovare nulla. Maccheroni una volta al mese e non sono buoni, la carne a dieci lire e mezza, l’olio che puzza otto lire e nove, e delle volte ci andiamo a coricare allo scuro e non c’è pane non posso dispiegartelo 12 soldi al chilo e dobbiamo morire per forza ci arranciamo vicino alle patate che pure vanno care e vicino ai fagioli che vanno a 5 lire alla misura.
13 dicembre 1918 –
Da Bisaccia, Rugillo Serafino a Vincenzo Castelluccio, in New York:
Questa malattia che a Bisaccia à fatto strage che ne morevano da 15 a 20 al giorno, ma era uno scandalo a vedere un terrore e il governo fece venire 20 soldati per fare seppellire i cadaveri.
Da Teora, Miruccia Luciani a Maria Luciani, in Port au Prince (Haiti):
La insidiosa spagnola anche qui ha fatto le sue vittime, come altrove, adesso pare sia già scomparsa… Prima dicevi che a guerra finita certamente saresti rimpatriata! Aggiungevi anche che se Antonio restava disertore tu saresti venuta lo stesso con Carmela, ora quella tua certezza la metti in dubbio, che cosa succede? Dai tuoi detti s’intravede che Antonio non ha intenzione di ritirarsi….
Da Cervinara, Carlotta Cincotti a Federico Cincotti, in New York:
Ora in Cervinara il mese di Settembre e Ottobre e Novembre corre questo morbo e ne morivano al giorno 15 e 16, figurati lo spavento della nostra famiglia.
2 febbraio 1919 –
Da S. Angelo dei Lombardi, Cardone Vincenzo a Generoso Cardone, in Brooklyn:
Sono dispiacente che Francesca è stata colpita dalla spagnola, grazie a Dio si è salvata così vi posso assicurare di me. Nel paese tutti malati; qualche famiglia completamente distrutta, e dei paesi distrutti che hanno mandato a chiamare l’aiuto dei soldati per seppellire i morti.
Su una popolazione provinciale di poco meno di 400.000 abitanti (396.581 unità al censimento del 1915 e 402.425 a quello del 1921)[32], fra morti (4.575) e dispersi (886), i caduti ufficiali, ammontano a 5461[33]. Pur in assenza di dati disaggregati per provincia dei deceduti nel 1918, secondo le nostre stime, muoiono di spagnola circa 5.800 persone, di cui poco meno di 4.900 fra la popolazione civile e 900 fra i militari dell’esercito operante e territoriale (54.000 unità[34]).
Non ci resta, per chiudere il nostro lavoro, che accennare fugacemente alla coda della spagnola, che, per le classi popolari, sarà lunga e breve allo stesso tempo, non tanto per i lutti da elaborare, ma quanto per i risvolti sanitari e socio-politici del dopoguerra: lunga, per le malattie infettive classiche sempre in agguato, che, se pure in misura minore rispetto alla spagnola, porteranno di nuovo morte dappertutto; lunga per i dissesti finanziari dei comuni, che si affanneranno per anni a chiedere sussidi al Ministero dell’Interno per le spese passate e per i nuovi focolari epidemici; breve, per il ripristino immediato dei rapporti di sudditanza: ogni deputato (collegio uninominale) si farà depositario e intercessore dei bisogni di sempre e dei nuovi, indotti dalla nuova e non meno micidiale crisi socio-economica, ritessendo la ragnatela della clientela elettorale con sindaci e amministratori ricomparsi sulla scena dopo essere stati in gran parte latitanti nel corso la spagnola.
[1] Quella dell’Archivio di Stato provinciale è quasi inesistente, salvo la documentazione preziosa dei Tribunali penali di Avellino e Sant’Angelo dei Lombardi; la stampa del tempo è invece del tutto inutilizzabile, per la censura e l’autocensura sia per la spagnola che per le altre malattie epidemiche o potenzialmente epidemiche.
[2] Cfr. ACS, Min. Int., DGSP, Atti amministrativi 1910-1920, bb.. 178. 190, 204, 204 bis. Non è questa la sede per ricostruire la permanenza e le forme di diffusione di tali malattie, che nell’Europa occidentale hanno attraversato tutta l’età moderna, per spingersi agli albori del ‘900, protraendosi ancor più nel Mezzogiorno sottosviluppato. Qui sarà sufficiente richiamare, a titolo indicativo, la semplice organizzazione e la struttura archivistica del Ministero dell’Interno sino all’avvento del fascismo: le prefetture sono tenute a bollettini sanitari quindicinali o settimanali, a dar conto dei successi o degli insuccessi della profilassi; il Ministero dell’Interno ordina per province la documentazione relativa ad ogni singola malattia potenzialmente o realmente epidemica, elargisce su richiesta contributi ai comuni meritevoli (a dire il vero, sempre molto al di sotto delle spese effettive e a geometria variabile, non per la gravità dell’infezione estirpata, ma per il peso dei notabili che fanno da intermediari).
Nel caso irpino, le malattie censite dal 1914 al 1918, che insorgono con maggiore frequenza, in ordine decrescente sono: la scarlattina (bambini), vaiolo, meningite cerebro spinale (mortale senza appello), tifo esantematico, morbillo.
I comuni più esposti ad ogni tipo di contagio sono quelli di confine con le province contermini, verso cui partono a decine di migliaia i contadini poveri per lavori stagionali. Durante la guerra, sono i soldati in licenza i diffusori delle malattie sopracitate.
Per il tifo esantematico, merita essere riportata una nota della Prefettura dell’aprile 1920: «La malattia colpisce a preferenza i poveri, i vagabondi, i mendicanti e in genere quelli che non curano la nettezza personale ed è più frequente negli uomini che nelle donne, più negli adulti che nei bambini, diffondendosi specialmente nelle collettività ed agglomerati umani, come nei penitenziari, negli asili di mendicità, negli ospedali, ecc.» Cfr. Min. Int., DGSP, b. 204 bis.
[3] In una relazione del giugno 1920, del dottore Giuseppe d’Urso, ufficiale sanitario di eccezione per professionalità, generosità e onestà intellettuale, operante nel comune di Orsara di Puglia, scrive intorno al lazzaretto: «Il suo nome è ancora legato nel pubblico diffidente a lontani ricordi di paure, di sofferenze, di cattivi trattamenti! […] Le difficoltà per la denunzia obbligatoria sono maggiori! Molte famiglie s’industriano a tener celati gli infermi o per la ripugnanza del lazzaretto o per l’estrema ignoranza che fa credere nella denunzia un pericolo imminente per l’infermo più grave dello stesso vaiuolo». Cfr. ACS, Min. Int., DGSP 1910-1920, Atti amministrativi, b. 204.
[4] Impuro significa non stare in comunione con Javeh; la lebbra, una delle cause di impurità, è rimuovibile solo attraverso un rito di purificazione.
I passi riportati del Levitico e dei Numeri sono nella versione della Bibbia edita dalla ELLE DI CI, Torino, traduzione interconfessionale.
[5] Il testo è in ACS, Min. Int., DGSP 1910-1920, Atti amministrativi, b. 204, cit.
[6] È il termine che si usava nell’ancien régime per la cattura, cui seguiva il passaggio nel lazzaretto, di contagiati o presunti tali.
[7] Merita essere riportata una pagina disincantata di Ludovico Antonio Muratori sulla degenerazione dei lazzaretti (da Lazzaro, santo protettore dei lezzeri, ossia dei lebbrosi,) e su quella della quarantena (detta contumacia): «L’invenzione de’ lazzaretti e sequestri [infettati o presunti tali presi con la forza] apre l’adito a mille ingiustizie, oppressioni e rubamenti, mentre quando non si possa convenevolmente provvedere al bisogno degl’infermi e sequestrati, è cagione che molti periscano di fame, di fetore, di doglia di cuore e disperazione, essendo i lazzaretti d’ordinario mal tenuti e mal provvisionati, e bene spesso serviti da gente empia e ladra. Il solo timore d’essere condotto colà o di essere sequestrato, fa che molti ascondano il male e conversino con gli altri; e senza medicarsi, e quel che è peggio, senza sacramenti, se ne muoiano e facciano morir altri che alla buona hanno praticato con esso loro. Certo è che la maggior parte naturalmente abborrisce l’esser strascinato sul carro e il venir consegnato a gente non conosciuta e inumana, fra i puzzori e le schifezze di tanto ammorbati. Che se vengono nelle loro case sequestrati, niuno talora ardisce di dar loro mangiare e di medicarli, morendo perciò alcuni abbandonati e disperati, anche per mali non pestilenti, perché né pure i parenti osano entrare in casa di quei meschini, per non essere poi anch’eglino sequestrati o condotti al lazzaretto. E poi, chi è d’animo sì forte che non si atterrisse e non cadesse in qualche o disperazione o passione straordinaria d’animo al vedersi per ogni piccolo motivo di male, che talvolta né pure è di peste, levato e rapito improvvisamente, e con rigori e violenze, dal proprio letto e casa, o dalle braccia de’ suoi più cari, con pericolo ancora o perdita di tutte le robe sue (come tuttavia succede in qualche paese d’Europa) e al mirarsi portato in massa con altri ammorbati in que’ lazzaretti, che pur sono come tante beccherie, e luoghi regolati e serviti per lo più da gente di poca o niuna carità, la quale non aiuta né consola, e se pur si risolve a soccorrere, il fa colla punta d’una lunga picca, e con roba che non solleva, ma accresce la miseria?
E per conto degli altri usi e rigori, egli è troppo facile l’avvilirsi e il morire di spavento al vedere o sentire i ministri de’ lazzaretti e i beccamorti andare attorno con facce orribili, abiti stravaganti e voci spaventevoli, e portar via infermi e sani, vivi e morti, purché vi sia da rubacchiare». Cfr. L. A. Muratori, Annali d’Italia ed altre opere varie, Milano, Tipografia de’ fratelli Ubicini, 1838, vol. V, Trattato del governo della peste, p. 1110 (pubblicato a Modena nel 1714).
[8] Debbo queste note all’amico Dario D’Adamo, che ha annotato con dovizia di particolari i racconti a lui fatti da tante persone anziane, che hanno conservato sino alla loro morte l’orrore del lazzaretto e l’esecrazione degli uomini che se ne occupavano.
[9] Cfr. ACS, Min. Int., DGSP, Atti Amministrativi 1910-1920, b. 204, passim. Da aggiungere che, in taluni casi, sono esautorati anche gli ufficiali sanitari del Consiglio provinciale di sanità.
[10] Dalla nota della Prefettura del 19 febbraio 1914, inoltrata al Ministero dell’Interno (DGSP): «Tali locali, in massima parte, sono mal garentiti contro le intemperie e contro il freddo, sono lontani dalle diverse frazioni dei comuni e tali da non permettere l’isolamento individuale necessario onde prevenire il sorgere e l’aggravarsi delle complicazioni tanto temibili nella malattia di cui trattasi. Ho però sempre curato che gli scarlattinosi venissero isolati a domicilio col possibile rigore, che fossero eseguite energiche disinfezioni delle abitazioni infette e degli oggetti venuti a contatto degl’infermi». Cfr. ACS, Min. Int., DGSP, Atti amministrativi 1910-1920, b. 204.
[11] Scrive ancora d’Urso nella relazione citata che la disinfezione delle case è costosa, perché comporta la distruzione di oggetti e beni vari, risarcimento danni, ed è anche di difficile attuazione perché manca il personale specializzato (Min. Int., DGSP, b. 204, cit.).
[12] Cfr. Min. Int., DGSP 1910-1920, b. 204, cit.
[13] Cfr. ACS, A5G, Direzione generale Pubblica Sicurezza (d’ora in avanti DGPS), Affari generali e riservati, b. 65, fasc.lo 128.
[14] Il Procuratore generale del re presso la Corte di Appello di Napoli, il 16 marzo, riferirà della buona fede degli arrestati e si pronuncerà per la concessione della libertà provvisoria. Cfr. ACS, A5G, DGPS, b. 66, fasc.lo 128
[15] Ivi.
[16] Una nota del 14 marzo del 1918, redatta dal segretario generale nazionale dell’Unione Generale degli Insegnanti e diretta al ministero dell’Interno, recita: «Roma – A questa Presidenza generale viene riferito che il 22 febbraio u.s. in Atripalda (Avellino) all’ora in cui alle scuole elementari erano appena cominciate le lezioni, una folla di madri s’è riversata nelle classi, reclamando fra urli e imprecazioni, il rilascio dei propri figli, onde sottrarli, com’esse dicevano, alla inoculazione di liquidi mortiferi che il Governo avrebbe ordinato di fare a tutti i fanciulli per ammazzarli, o almeno togliere loro l’appetito, non disponendo di viveri sufficienti per alimentarli tutti. […].» Ivi.
[17] Ivi.
[18] ACS, A5G, prima guerra mondiale (conflagrazione europea 1914-1918) (d’ora in avanti, A5G), b. 3, fasc.lo 7, “Condizioni dello spirito pubblico nel Regno”, dalla relazione del Direttore generale di Pubblica Sicurezza, Giuseppe Sorge, del 7 marzo 1918.
[19] Cfr. ASAv, Tribunale di Avellino, fascicoli penali, b. 2428, fasc.lo 1063.
[20] Ivi, nota prefettizia del 21 giugno 1918. Altri tre propalatori di Apollosa (Benevento) saranno arrestati e condannati, con sentenza del 30 aprile, a oltre due mesi di detenzione.
[21] Dal rapporto dei Carabinieri di Montesarchio (7.000 abitanti), confermato dalle due maestre aggredite: i reati sono stati commessi l’8 marzo 1918; circa 200 donne e alcuni uomini hanno ritirato i propri figli da scuola; Verrusio ha ritirato i propri figli entrando a scuola con un martello in mano e insultando le maestre (insulti volgari pure da parte degli altri imputati).
Verrusio si è reso latitante (sarà arrestato il 25 marzo) e ha fatto opera di propaganda presso le scuole di Rotondi.
Interessante annotazione di un teste a discarico (Assunta Russo): non solo gli incriminati, giudicati alcolizzati e non del tutto sani di mente e spesso derisi dalla gente comune, ma molti in paese credevano alle iniezioni mortifere, fra cui anche un medico e l’ufficiale postale. Né è da ritenere – secondo dichiarazione di altri testi – che le dicerie fossero propalate da parte degli internati o profughi.
Il PM chiede 4 mesi di reclusione e 300 lire di multa per Verrusio e l’assoluzione per gli altri imputati, perché il fatto non sussiste. La difesa chiede l’assoluzione per tutti per inesistenza di reato e subordinatamente l’insufficienza di prove.
Il Tribunale (Gesué Vincenzo, Cirino Loffredo, Telesca Giustiniano) – sentenza del 4 maggio 1918 – condanna Verrusio a giorni 46 di reclusione e lire 160 di multa, oltre il risarcimento delle persone offese e il pagamento delle spese processuali; non conferma che egli sia l’autore della propalazione della diceria, ma sentenzia che ne sia solo veicolo. Ivi.
[22] Ivi, sentenza del 4 maggio 1918.
[23] Cfr. ACS, DGSP 11910-1920, Atti amministrativi, b. 204 bis (fonte primaria per la provincia e, salvo diversa indicazione, per le citazioni successive).
Da segnalare: F. Baldassarre, Montefalcione: le grandi epidemie agli inizi del secolo, in “Il Ponte”, novembre 1986; Carmelina Morlando, L’Irpinia durante la prima guerra mondiale, tesi di laurea di Istituto Universitario Orientale di Napoli, anno accademico 1993-94, capitolo V, “L’epidemia di spagnola”, prezioso lavoro pioneristico, ad ampio raggio, per documentazione e area territoriale investigata.
[24] Cfr. nello stesso faldone di riferimento, 204 bis, “Avellino – Tifo”, nota prefettizia del 16 settembre.
[25] Al 5 ottobre, nel solo comune di Accadia, oltre 1000 i contagiati e 50 i decessi per complicazioni polmonari, per lo più lavoratori stagionali reduci dalla Puglia per lavori agricoli. Il 7 ottobre, il Prefetto annota che gravissimo è il contagio nei comuni ai confini del salernitano: Montoro Superiore e Montoro Inferiore, Solofra con metà della popolazione ammalata.
[26] Sarebbe augurabile uno studio su alcuni comuni campione, oggi impossibile dato lo stato disastroso in cui versano gli archivi comunali.
[27] Da segnalare come rilevante eccezione il comune di Rocchetta S. Antonio, dove grazie all’opera di assistenza e profilassi del segretario comunale, Francesco d’Urso, e del fratello, dottore Giuseppe d’Urso, coadiuvati da un ufficiale medico e da un farmacista provenienti dall’esercito, malgrado l’alto numero dei contagiati, i decessi, in comparazione con altri comuni vicini, sono di gran lunga inferiori.
[28] Il 27 ottobre, il Prefetto comunicherà che nel comune sono stati inviati un commissario, due medici militari, 3 militi sanità e 10 soldati per il seppellimento dei cadaveri.
[29] Per tutti gli estratti a seguire delle lettere censurate (lasciamo inalterato l’aspetto grafico, morfologico e sintattico, la cui data si riferisce a quella del rapporto dell’agente addetto alla censura dell’Ufficio militare di Genova, che segue di qualche giorno le missive), cfr., ACS, DGSP 1910-1920, b. 178. Sola eccezione sono due note, tratte da altre rispettive fonti, che saranno citate.
[30] Cfr. F. Baldassarre, Montefalcione: le grandi epidemie agli inizi del secolo, cit., p. 6; Morlando, L’Irpinia durante la prima guerra mondiale, cit., p. 141.
[31] Cfr. F. Baldassarre, Montefalcione: le grandi epidemie…, cit., p. 5.
[32] Cfr. Censimento della Popolazione del regno d’Italia al 1° dicembre 1921, XIX, Relazione generale, Stabilimento Poligrafico per l’Amministrazione dello Stato, 1928, anno VI, p. 37.
[33] In tutta Italia, secondo l’Albo d’oro dei Militari caduti nella Guerra nazionale 1915-1918, a cura del Ministero della Difesa, in 28 volumi (il primo è del 1926), i caduti ammontano a 677.705, secondo i dati del giugno 1926 (relativo alle pensioni di guerra – le fonti fiscali sono le più attendibili), che includono circa 100.000 morti nei campi di prigionia. I mobilitati sono poco meno di 6 milioni (5.903.000 per l’esattezza): il 49% provenienti dall’Italia settentrionale, il 23% dall’Italia centrale, il 28% dall’Italia meridionale e dalle isole. L’esercito operane è di circa 4.200.000. Quanto alle classi di età, il 32,5% appartiene alle classi 1874-1885, il 47,7%% alle classi 1886-1895, il 26, 7% alle classi 1896-1900.
Per l’Irpinia, cfr. Albo d’oro degli irpini, Caduti, dispersi, feriti e decorati nella IV guerra di redenzione, MCMXV – MCMXVIII, 1928, X annuale della vittoria, a c. della Provincia di Avellino.
[34] Per esercito operante s’intende quello in zona di guerra, distinto dalla milizia territoriale e dai corpi d’armata delle retrovie e dai militari impiegati negli uffici. La stima dell’esercito operante (di fatto, la fanteria composta per la quasi totalità da contadini) è basata su un dato fiscale: 32.000 le famiglie sussidiate per i congiunti in guerra. Ipotizzando molte famiglie che hanno 2 o più figli sotto le armi, che una minoranza di benestanti non accede al contributo, e detraendo i renitenti alla leva residenti all’estero alle classi d’età virtualmente abili alle armi, si può avanzare la stima suddetta.