di UGO MORELLI.
Da casa Filette
“Amate l’esistenza delle cose,
più che le cose stesse”
(Osip Mandèlstam)
“Si la ‘mmiria fuss coglia tutt la tenesser scesa”, o in un’altra versione: “la ‘mmiria ha ‘nnat prim r lu Patatern”. (Se l’invidia fosse testicoli tutti li avrebbero cadenti; l’invidia è nata prima del Padreterno). L’invidia, inscritta dalla tradizione cattolica nei peccati capitali, è presente, nella nostra esperienza, sia in forma attiva che passiva, e come invidia nei confronti di un altro, e come invidia verso se stessi – cioè come autoinvidia -, che come invidia sociale. In certe realtà culturali e sociali sperimenta particolari rinforzi e allora diventa un vero e proprio regolatore delle relazioni e un vincolo consistente al cambiamento e all’innovazione. L’ipotesi di questo breve scritto è che questa cisposa e torva esperienza sia venuta a far parte dell’individuazione psichica e collettiva di intere comunità e svolga una funzione pervasiva nel tenere bloccate molte delle possibilità di sviluppo e innovazione nelle società dell’ Irpinia.
Tre storie
Il carro era di quelli malridotti, con le sponde in legno corrose dal trasporto delle pietre. Malridotto più del carro era il cavallo da tiro, rinsecchito più di Ronzinante e infastidito senza tregua e soluzione da mosche insistenti e persistenti. Ma forse, più di tutti, era affaticato e male in arnese Pietro, che, di nome e di fatto lavorava le pietre alle cave di Carpignano. Non solo le cavava, le pietre, ma le trasportava per consegnarle ai rari acquirenti, impolverato di bianco e con le mani e le unghie rose dal lavoro, come i suoi pantaloni bucati sulle ginocchia e più volte rammendati sul culo. I buchi sulle ginocchia disegnavano una geografia che mi faceva sempre pensare alle coste frastagliate di certi mari che lui non aveva mai visto. Erano slabbrate come quelle forme che sarebbero poi ironicamente divenute di moda negli anni a venire, catturate e riproposte da designer che di Pietro non conoscevano né la storia né la disperata fatica. Il carro, Pietro e il cavallo creavano una musica particolare ritmata dal suo incitamento e dallo scurriale con cui incitava l’animale che arrancava rassegnato in salita sulle strade sterrate dell’Irpinia della fine degli anni cinquanta del secolo scorso. “Invidia crepa” era la scritta sbiadita che campeggiava sulla sponda posteriore del carretto ed io non ne capivo il senso, né l’avrei capito nel tempo a venire, perché non mi era dato di comprendere cosa ci fosse da invidiare in quella vita di stenti.
Eppure avevo fatto i conti con l’invidia, un giorno, in seconda elementare, quando un mio compagno, uscendo sotto la pioggia dalla scuola di campagna, mi aveva strappato di mano la mia penna stilografica buttandola nel fango e pestandoci sopra con sdegno. Quella scuola, una casa rossa sotto una grande quercia, appena fuori dal piccolo villaggio, era raggiungibile per una strada, un tratturo di campagna, che diventava una teoria di pozzanghere col maltempo. Camminavamo imparando a cercare le pietre sporgenti, con una danza e saltelli che non sempre erano efficaci, infangandoci e sporcandoci fino alle ginocchia, tanto che chi poteva indossava pantaloni alla zuava. Tommaso, il mio compagno di scuola, che del leggere e scrivere sarebbe sempre stato nemico, si era convinto che i mie buoni voti nei compiti dipendessero da quella penna che avevo ricevuto in regalo dal mio bisnonno, che l’aveva comprata a Boston in uno dei suoi viaggi in America. Ho recuperato la penna e l’ho riportata a casa piangendo. La fine manualità di mio padre l’avrebbe rimessa a nuovo. Mentre ci lavorava, papà mi aveva spiegato che esiste l’invidia, che acceca chi la vive e fa male a chi la subisce.
Avevo allora dato una forma a quel sentimento, rappresentandomelo come un mostro che toglie non solo la vista, ma la capacità di ragionare e di comprendere le proprie e le altrui possibilità.
L’anno dopo, sempre in quella scuola, eravamo in quarta elementare, è arrivata un’insegnante supplente, per sostituire il nostro maestro che era malato. Portava i tacchi alti, e il rossetto rosso carminio rendeva il suo viso dalla pelle scura particolarmente luminoso. Aveva denti bianchi e mani dalle dita lunghe e affusolate. Proprio con quelle mani, a metà di ogni mattina, prendeva pezzi di Buondì Motta dall’involucro che apriva con eleganza e li portava alla bocca, stando seduta sulla cattedra. Ho sognato ogni volta, di fronte a quei gesti, il sapore di quei bocconi. I granelli di zucchero sulla superficie del dolce stimolavano la fantasia e l’acquolina in bocca. Attendevo, come il cane di Pavlov, il momento in cui avrebbe aperto la borsetta per estrarre il dolce. Non ho mai capito se si rendesse conto di quello che provavano undici bambini, la maggior parte dei quali per merenda aveva pane duro di giorni fatto di farina di granturco, di fronte alla sua sfacciata merenda e, soprattutto, alla maniera libidinosa che aveva di mangiarla. Ne masticava i pezzi con calma, e mi perdevo affascinato nei suoi gesti invidiando, me ne sarei reso conto nel tempo, la sua fortuna. Che le cadesse almeno un granello di quello zucchero, se non un pezzetto di dolce da assaggiare, penso sia stato il sogno di tutti noi, ma non accadde mai. Quell’invidia è rimasta un sentimento irrisarcibile, in quanto i Buondì Motta che avrei poi assaggiato da grande non avrebbero mai potuto compensare l’inarrivabile rappresentazione di quel sapore immaginato.
Individuazione, conflitto e ordine condiviso in Irpinia.
Ognuno di noi è in grado di dire con una certa approssimazione che cos’è un ordine secondo il proprio punto di vista. E’ già più difficile descrivere un ordine dal punto di vista di un’altra persona. Si può tentare di farlo ricorrendo alla descrizione di comportamenti situati ma la differenza si impone subito con i suoi molteplici livelli di intensità. Che cos’è un ordine condiviso che tacitamente sostiene e coordina le azioni e le scelte collettive in un gruppo o in una società; in che modo può realizzarsi o essere pregiudicato o sparire, sono questioni molto difficili da definire e spiegare. In particolare sono i regolatori di quell’ordine e la loro dimensione tacita e palese a presentare difficoltà di individuazione, descrizione e verifica. A creare questa difficoltà è la stessa ragione che sta alla base della generazione dell’ordine: perché un ordine sociale emerga, alcuni o molti ne sono gli artefici nel complesso, continuo e circolare transito tra individualità, conflitto e cooperazione. Questo artificio è perciò inagibile senza farne parte; non si può costruire né tantomeno comprendere un ordine sociale per così dire, dal di fuori. Non si concorre a creare un ordine senza esserne parte. L’esserne parte vincola la possibilità di vedere quell’ordine e pone la questione della distanza come condizione del riconoscimento. Questa è forse la condanna di chi dall’Irpinia è emigrato: essere nella condizione di vedere e se vedendo parla di patire le reazioni di chi è restato e vivendo normalizza ciò che normale non è e non dovrebbe essere. Più emotivamente carico e coinvolgente è il fattore regolatore e generatore di ordine, più impegnativo è riconoscerlo e descriverlo. Una delle più coinvolgenti esperienze della vita, quella dell’amore primario, la prima esperienza di costruzione dell’ordine nel legame tra mondo interno e mondo esterno, vede il figlio nella posizione di dipendenza che gli consente di costruire la propria autonomia, rischiare di invidiare quelle stesse capacità materne da cui dipende, in quanto egli sente di non essere capace di esprimerle. Le ammira perché lo soddisfano e gli fanno bene, ma potrebbe invidiarle perché non ne dispone. La sua crescita dipende dalla elaborazione di questa dinamica tra evoluzione dell’ammirazione in riconoscimento e gratitudine, o in invidia. Quell’incessante “macchina” generatrice che è la rete inestricabile del legame sociale, seleziona, filtra, condensa e storicizza consuetudini, regole, norme, trasformandole a loro volta in “materiali di costruzione”; materiali vivi e non inerti, che “si muovono” e adattano ridefinendosi costantemente. Spiegazioni, organizzazione secondo certe regole, norme di comportamento verso i simili e norme di esclusione verso i diversi generano la società e la possibilità stessa di riconoscerla e riconoscersi in essa. Accade che alcune regole assumano la connotazione di redarguire o sanzionare certe emozioni, così come di premiarne altre, in certe situazioni e in determinati periodi storici. Se poi le emozioni hanno già di per sé una connotazione intrinseca che le candida a essere celate piuttosto che a essere manifestate, prende piede un corto circuito mente-cultura, affettività-socialità, che tratta quelle emozioni con la negazione, l’inammissibilità, la vergogna e la colpa. Non per questo smetteranno di essere dei regolatori costitutivi e allo stesso tempo delle proprietà emergenti delle relazioni e delle soggettività e, quindi creatrici di ordine, ma carsica sarà la loro azione, prevalentemente, e difficile la loro descrizione e il loro riconoscimento. Sembra questo il caso dell’invidia, nelle sue diverse forme: quando riguarda la disposizione o capacità a mettere in pratica un progetto individuale per l’angoscia di non farcela e la possibile conseguente rinuncia (autoinvidia); o nei casi in cui ha a che fare con l’incapacità di vedere e ammettere le ragioni del successo di un altro giungendo alla negazione delle sue capacità o all’impegno per il loro dileggio o la loro distruzione (invidia); quando riguarda, infine, l’impegno a investire le proprie energie e risorse per impedire che l’altro realizzi qualcosa, un progetto o un’innovazione, invece che impegnarsi direttamente a realizzarlo o di essergli grato per aver investito e aver iniziato un processo, cercando di fare, magari, meglio di lui.
Bellezza insopportabile, sguardi corrosivi. Uno sguardo obliquo dentro gli occhi di chi guarda.
Vincolati insieme in uno spazio irrisolto, le donne e gli uomini, figli del desiderio e delle relazioni che ne emergono, possono sentire insopportabile la bellezza dell’altro, le sue capacità o, viceversa, possono vivere nei suoi confronti sentimenti di gratitudine e riconoscenza. Quella che è prevalsa e purtroppo tende a prevalere tutt’oggi in Irpinia è la prima via. In quel conflitto emergono variegate modulazioni. Essere invidiabili è socialmente riconosciuto come gratificante. Essere invidiati è accettato e raccontato come un fatto comunque positivo. Essere invidiosi è socialmente redarguito e ritenuto spesso spregevole. Solo in base a questo semplice esame di realtà ci ritroviamo nell’ambiguità e nella complessità di una proprietà costitutiva delle relazioni sociali, allo stesso tempo generante e generata. Perché qualcuno sia invidiabile o invidiato è necessario un invidiante o un invidioso: il primo è associato a un valore positivo; il secondo al disprezzo. Il primo alla manifestazione apprezzata e premiata socialmente, il secondo alla vergogna e alla colpa, collettivamente redarguite. In ogni modo siamo messi in condizione di riconoscere l’invidia come una proprietà del legame e delle relazioni sociali, prima ancora che un sentimento repellente o moralmente ammesso. Scopriamo anche che uno degli ostacoli principali a comprenderne la natura è proprio la pesante coltre moralistica con la quale l’invidia viene considerata in alcuni contesti socio-culturali. Le dinamiche che essa comporta non riguardano del resto solo la ricchezza e il possesso dei beni, ma anche la bellezza, del paesaggio non sempre tutelato e curato, ad esempio, il successo in un’iniziativa, l’autorealizzazione individuale, la riuscita in un’impresa, l’essere amati. Il ruolo che l’invidia gioca come proprietà diffusa e caratteristica delle relazioni e del legame sociale risulta in ogni modo difficile da definire e le ricerche che se ne occupano, a livello psicologico, sociale e culturale, non sono molte. Comprendere i modi e le forme con cui l’invidia emerge e la sua incidenza nell’analisi del legame sociale, può essere utile anche per l’intervento con gli individui, i gruppi e le istituzioni per cercare di generare cambiamento e innovazione. Riconoscere che l’invidia, lungi dall’essere un’eccezione, è un regolatore costitutivo delle relazioni, può contribuire a creare un’immagine più verosimile della socialità umana e dei vincoli e delle possibilità che si generano in ogni processo di individuazione e socializzazione.
Ce la faremo a far prevalere la gratitudine come regolatore dell’ordine sociale in Irpinia, e ad agire in base ad un’invidia per così dire buona, che può portarci a desiderare di fare meglio di un altro che sta facendo bene, a impegnarci a farlo effettivamente, e non ad ostacolarlo e a impegnarci per impedirgli di fare bene?