di ANNIBALE COGLIANO.
La spagnola comincia a diffondersi agli inizi del 1918 e termina il suo ciclo nel 1920 (con punte massime concentrate in soli pochi mesi: dal settembre al dicembre 1918)[1]. La pandemia riceve nel maggio del 1918 il suo nome di battesimo, la spagnola, per calcolo politico dei paesi belligeranti: non deprimere i soldati in guerra e lo spirito pubblico della popolazione civile. Nell’innocente Spagna, duramente colpita dal contagio, ma neutrale nell’immane conflitto mondiale in corso, la stampa, non soggetta alla censura di guerra, si occupa ampiamente della malattia di cui il paese è vittima (in testa il suo re e i ministri, accompagnati nel giro di poche settimane da due terzi infettati della capitale): il parlarne e lo scriverne si traducono con facilità negli altri paesi belligeranti e nell’immaginario collettivo in malattia di lì proveniente e di lì originatasi (oggi diremmo fakes new). Nei paesi lontani dalla guerra, invece, inizialmente l’epidemia è denominata o con etnonimi che alludono a un paese vicino, ostile o oppressore, o con nomi di fantasia[2]. Solo alla fine della guerra il nome sarà per tutti e resterà per sempre spagnola: sono i paesi vincitori della guerra che lo impongono, come accade con la scrittura della storia più in generale.
Con una triplice ondata in una scansione triennale, nessun continente è escluso dalla pandemia. Se il termine globalizzazione è stato coniato agli inizi degli anni ’80 per indicare il nuovo processo di industrializzazione e di scambi commerciali mondiali, ulteriormente velocizzati e innervati dalle reti telematiche dell’informatica e sui computer, nonché per indicare le uniformità culturali crescenti nel globo, la mondializzazione della storia, in realtà, è più remota. Ha le sue origini nel contatto dell’Impero romano con l’Oriente, poi con la via della seta fra Roma e Cina, con le Crociate, con le repubbliche marinare – basti pensare alla peste nera del 1347, la prima pandemia intercontinentale portata dai genovesi dalla Crimea, che porta al decesso di un terzo della popolazione europea e resta endemica per i secoli successivi con intervalli di una decina d’anni. La mondializzazione della storia ha, infine, le sue accelerazioni nelle conquiste coloniali del Quattrocento e del Cinquecento da parte di alcuni paesi europei, come il Manifesto di Karl Marx ha efficacemente analizzato. Meglio: le stesse conquiste coloniali non avrebbero avuto la velocità conosciuta, o, forse, non sarebbero state possibili con pugni di uomini in Perù o in Messico, senza il concorso di microbi patogeni sterminatori per le popolazioni locali (circa il 90% della popolazione nativa) portati dalla Spagna e dal Portogallo. Di questo processo di mondializzazione della storia fa dunque parte anche la globalizzazione del vasto, variegato universo microbico, remoto (la sua comparsa risale a tre miliardi di anni, prima di quella delle piante e degli animali) e ancora oggi conosciuto in misura ridottissima (meno dell’1%)[3], che la devastazione ambientale, dell’habitat animale e della flora, prodotta dal capitalismo selvaggio fra Otto e Novecento, ha ulteriormente ampliato e alterato[4]. Il distinto patrimonio microbico di ciascuna cultura e continente, a un certo punto della nostra storia, è semplicemente scomparso per dar luogo a un’unica flora microbica.
La spagnola è nient’altro che la diffusione su scala mondiale di uno dei tanti microbi patogeni per l’uomo. Tanti studi danno dai 50 ai 100 milioni di decessi, altri fra i 15 e i 20 milioni[5]: oscillazioni apparentemente troppo poco accettabili sul piano statistico, ma del tutto comprensibili, perché i censimenti più attendibili sono effettuati in Europa e nell’America del nord, mentre o sono lasciati fuori da ogni computo o sono molto approssimativi in Russia, nell’Est asiatico (nella popolatissima Cina con ostacoli pressoché insormontabili, perché non c’era anno che il paese non fosse scosso da epidemie letali di vario genere) e in Medio Oriente, dove la mortalità è di gran lunga maggiore. Se poi si passa al numero dei contagiati, anche qui le cifre, comunque elevatissime, sono oscillanti: fra i 500 e i 750 milioni. A fronte di una popolazione stimata di un miliardo e 800 milioni di persone, il tasso di mortalità sarebbe del 5% se assumessimo quella più alta, dall’1 al 2% se assumessimo quella più bassa (del 10% o del 15% se riferito ai contagiati, come è di prassi nelle scienze statistiche). Tassi che però non sono omogenei: nella baia di Bristol, in Alaska, il 40%; in alcune regioni del Sudafrica il 10%, nello stato di Gujarat in India il 6%, nello stato di New York lo 0,5%. In Italia l’1% secondo alcuni studi (la metà circa dei morti in guerra e un quarto dei morti in totale nel corso dell’ultimo anno di guerra) o il 2% secondo altri, per i quali la spagnola è la causa agglomerante finale e decisiva per i decessi in presenza di altre malattie polmonari o infettive[6].
In Italia e in altri paesi europei, la spagnola s’intreccia, nell’ultimo anno di guerra con le infezioni di milioni di individui che si spostano in massa, il dissesto sanitario, le gravi malattie e la denutrizione, sia fra soldati e prigionieri che nella popolazione civile. Analogamente alle guerre del passato, le vite falciate dal piombo dei fucili e delle granate (17 milioni circa) sono di gran lunga inferiori a quelli che oggi, con un eufemismo interessato, chiamiamo gli effetti collaterali.
La città senza mura: così Epicuro[7], nel IV secolo a. c., dava nome alla condizione umana e allo spazio invaso dalla morte, che riguarda senza distinzioni uomini, popoli e città diverse. Forte della lezione democritea, per Epicuro, non c’erano né gli dei né qualche colpa morale (Edipo parricida e incestuoso) a provocare la morte o le pestilenze, ma solo elementi fisici. Già Ippocrate, qualche secolo prima, aveva sostenuto che l’epidemia (dal greco ἐπί «sopra» e δῆμος «popolo», letteralmente sul popolo: è suo anche il conio del nome) avesse cause esclusivamente naturali (lo squilibrio nel rapporto fra i quattro umori costitutivi del corpo umano: bile nera, bile gialla, flegma e sangue). L’Italia del basso Medioevo è, invece, ambivalente: continua a credere alle pestilenze come punizione divina per il peccato degli uomini (credenza che, se pur minoritaria, resterà fra le masse popolari sino ai nostri giorni); conia il termine influenza, quella degli astri sulle cose della terra, per affrancarsi dalla tesi della punizione divina: influenza, per indicare qualsiasi alterazione della salute umana, animale, e sin anche della flora; infine, pur non potendolo dimostrare, ipotizza (la Serenissima di Venezia in prima fila) un nemico invisibile[8] all’occhio umano, ma reale e corporeo, portato dagli uomini in carne ed ossa, veicolato da animali e infiltrato fra gli oggetti della vita materiale. Nemico da tenere lontano dal porto e dalla città in quarantena, altro termine del mondo greco che indica l’isolamento forzato per un numero di 40 giorni, da cui si esce o morti o guariti e non contagiosi.
Contrariamente al nome, la spagnola ha il suo primo focolaio negli Stati Uniti[9], agli inizi di marzo del 1917, in una base militare di addestramento, Camp Funston, nello stato del Kansas, cui fanno seguito altri focolai in una dozzina di basi militari, nel carcere di San Quintino e in una fabbrica della Ford Motor Company. Non letale al suo primo apparire, è considerata come una delle tante influenze annuali; solo un anno dopo è colta come un’influenza grave (sintomi: mal di gola, febbre, mal di testa) in una infermeria di un’altra caserma di militari, destinati a prestare servizio in armi in Europa a fianco delle potenze dell’Intesa[10]. Prima di essere diagnosticata, già centinaia di migliaia di soldati sono partiti nell’autunno del 1917 per combattere nelle trincee del fronte occidentale franco-tedesco. E sono proprio i tedeschi, attraverso il responsabile sanitario della II armata, Richard Pfeiffer, nell’aprile del 1918, a dare il nome al presunto microbo contagioso (haemophilus influenzae è il suo nome scientifico), i cui sintomi più immediati sono il Blitzkatarrh (catarro fulmineo) di massa delle truppe[11]. Ma il bacillo Pfeiffer, pur trovandosi nella gola e provocando infezioni, non è riscontrato in tutti i malati affetti dal contagio, ragion per cui la medicina contemporanea, fatte le verifiche, continua a restare nell’incertezza per la diagnosi[12]. Bisognerà attendere il 1997 per avere conoscenza della composizione del virus (H1N1), grazie alle indagini (avviate già molti decenni prima dal ricercatore svedese Johan Hultin) eseguite dal team guidato da Jeffery Taubenberger su campioni di cadaveri di abitanti di un villaggio decimato dalla spagnola, sepolti nel permafrost dell’Alaska[13].
Quale che sia il tempo della scoperta del ceppo virale, ritornando al tempo della sua diffusione, con lo spostamento delle truppe e il rientro a casa dei soldati in licenza, il bacillo Pfeiffer, si diffonde nel resto d’Europa e in Russia. Dopo la Spagna il bacillo si sposta nel Nordafrica, poi in India e nel resto del continente asiatico, sino a giungere in Australia.
È la prima ondata dell’invasione del virus, non letale come le altre due successive ondate – vocabolo simmetrico al linguaggio militare per indicare gli assalti frontali –, ma comunque debilitante tanto da rendere combattenti sulla carta in buona parte gli eserciti che si fronteggiano in Europa: gli ultimi mesi di guerra vedono moltissime unità delle truppe francesi, inglesi e tedesche letteralmente paralizzate sino ad oltre la metà dei loro effettivi[14]. Gli effetti sul morale delle truppe e della popolazione civile non sono gli stessi nei due fronti, benché il ritiro definitivo della Russia dalla guerra (trattato di Brest-Litvosk) abbia liberato le armate tedesche e austro-ungariche dal fronte orientale. È la fame e l’inverno delle rape in Germania che fanno la differenza. La propaganda di guerra dell’Intesa ha buon gioco nel contribuire potentemente a deprimere il morale delle truppe e della popolazione civile tedesca, terribilmente affamata dal blocco navale inglese e dalla scarsità di raccolto delle patate del precedente anno: «Dite le vostre preghiere, perché fra due mesi sarete nostri. Vi daremo carne buona e pancetta, e l’influenza vi lascerà in pace», si legge in un volantino lanciato dagli aerei al fronte e sul suolo tedesco.
Ma se Atene piange, Sparta non ride: è l’antico detto che può adattarsi allo scorcio finale della guerra, da agosto a dicembre, quando non è più possibile localizzare il virus nella Germania o demonizzare le armate tedesche sul fronte occidentale. Il virus ritorna più forte, pervasivo e, soprattutto, letale, non più scambiabile per la solita influenza stagionale. Il corpo è straziato: polmonite batterica galoppante e difficoltà respiratorie, che portano alla morte in pochi giorni (in tempi brevissimi, come l’incubazione che va da 1 a 4 giorni), deliri, perdita dell’udito e dell’olfatto, tinte variopinte sulla pelle, sanguinamenti al naso e alla bocca, caduta di capelli e di denti, aborti e parti prematuri fra le donne incinte. «La cosa più terrificante della malattia era il modo in cui si presentava: in silenzio, senza avvertire. Una caratteristica dell’influenza è che il periodo di maggiore infettività precede l’insorgere dei sintomi. Per almeno un giorno, e a volte anche più a lungo, le persone sembrano stare bene anche se in realtà sono malate e contagiose»[15]. Più micidiale delle armi tedesche, corre per i paesi già colpiti precedentemente e raggiunge in modo massiccio gli Stati Uniti[16], la Svizzera neutrale, l’Italia delle retrovie sino alle regioni del Mezzogiorno. Veicoli sono le navi che attraversano gli oceani, tanto ad ovest che ad est, i soldati che rientrano, i prigionieri invalidi o sani scambiati da entrambi i fronti, quelli in transito nella Svizzera neutrale che li ha accolti in attesa dello scambio, internandoli nei lager delle Alpi. La fine della guerra riproduce scenari d’ancien régime: alle processioni e ai Te Deum di un tempo che fu, subentrano i festeggiamenti di massa per la pace ritrovata, rinnovando i fasti di morte del passato. Le autorità, sia quelle legittimate dalla vittoria, sia quelle nuove in cerca di legittimazione, pur non ignare del pericolo mortale, non osano intervenire con misure restrittive per impedire addensamenti di popolazione: sarebbe antipatriottico o non favorirebbe il cambio di direzione politica. Fenomeni questi di festeggiamenti mortali che si verificano anche in paesi che hanno vissuto la guerra da lontano (Kenya, Perù).
Da aggiungere che i paesi vincitori, al finire della guerra, non rilasciano in tempi brevi, i prigionieri nemici. E ciò non tanto per spirito di rappresaglia o di vendetta, ma per ragioni economiche di puro sfruttamento di manodopera a costo zero o ridotto. Ed è così che per tutto il 1919 e parte del 1920, i prigionieri non liberati, soggetti a lavori coatti nelle zone devastate dalla guerra (edilizia, strade, agricoltura, ferrovie, industria, ecc.)[17], debilitati e denutriti, danno alla spagnola ulteriore terreno di coltura. Va da sé che la spagnola non viaggia mai sola: a tenerle compagnia sono il vaiolo, il tifo, la meningite, la follia. In Russia con la guerra civile che si protrae sino al 1920, la spagnola s’inoltra per le vie della Transiberiana a est, per le vie carrozzabili verso la Persia a sud, e poi si muove nuovamente per l’India e la Cina a sud-est. Nessuno e tutti sono responsabili: in questo via vai di uomini per circa due anni, ciascun paese non trova di meglio che riversare sull’altro le colpe dell’ingresso del virus nel proprio.
La terza ondata, inattesa e mortale, si ha agli inizi del 1919, cogliendo di sorpresa sia gli Stati Uniti (picco a New York alla fine di gennaio) che la Francia, non lasciando immuni molti delegati negoziatori di pace. Ondata che investe anche la lontana Australia, che, dopo essere stata forse l’unica prodiga ad adottare misure restrittive di isolamento fisico-sociale e di quarantena, ha abbassato la guardia, ritenendo che la bufera sia alle spalle. In Cile la spagnola non è riconosciuta come tale ed è scambiata per tifo, tanto che le autorità sanitarie della capitale obbligano con la forza gli operai, culpables de la miseria, al trattamento protocollare in uso nel paese (messa a nudo del contagiato, lavaggio di tutto il corpo e rasatura) e in moltissimi quartieri procedono ad appiccare il fuoco alle loro case. La pandemia non termina comunque con il 1919: colpi di coda ancora nel 1920 in Giappone e in Perù.
La pandemia è nient’altro che l’incontro infelice di un uomo con un microrganismo monocellulare o pluricellulare parassita, che ha bisogno del primo, l’ospite, per riprodursi e vivere. Il virus, «incapace di riprodursi autonomamente, deve invadere una cellula ospite e appropriarsi del suo apparato riproduttivo. In seguito, la discendenza del virus deve abbandonare l’ospite e infettarne uno nuovo. Se non ci riesce, il virus muore insieme all’ospite originario e l’influenza finisce. Così come la sopravvivenza dei nostri antenati dipendeva dalla loro capacità di passare da un albero all’altro, quella dell’influenza dipende dalla sua capacità di passare da un ospite all’altro. Ed è qui che la sua storia si fa interessante: essendo il virus un parassita, la sua sopravvivenza dipende tanto dal suo comportamento quanto da quello dell’organismo ospite»[18]. Il virus della spagnola, simile a tanti altri virus, si trasmette per via aerea con la respirazione, lo starnuto, la tosse, che producono goccioline di muco infettanti (di qui la raccomandazione di tenere una distanza di qualche metro nella inevitabile contiguità fisica fra le persone). Quanto alla sua origine, non si hanno certezze, si seleziona e vive nel mondo animale (stando alle teorie più accreditate), per poi passare all’uomo con un salto di specie, per usare una metafora entrata nel lessico comune (zoonosi è il termine scientifico). A differenza di altre epidemie, il virus della spagnola ha una specificità nella selezione delle sue vittime: colpisce in prevalenza non le persone più deboli o anziane, ma i maschi adulti fra i 20 e i 30 anni, perché il loro organismo produce una eccessiva difesa immunitaria (nel linguaggio medico, una tempesta di citochine) che ha effetti letali sui polmoni.
Paradossale però che al grande flagello della città senza mura degli albori del XX secolo sia stata presto apposto il silenziatore, sia dai governanti che dalla società civile e, non meno sorprendentemente dalla storiografia (eccezion fatta per gli storici della medicina e degli epidemiologi), che solo negli ultimi tempi ha invertito il trend, quasi che una mortalità così diffusa ed elevata fosse una questione del tutto privata, e non una questione che investe l’intera società sul piano economico, sociale e politico; e quasi che da essa non si debbano trarre informazioni e insegnamenti di ogni sorta per il futuro. Storia necessaria, invece, quella di una pandemia da non relegare nello specialismo accademico, ma da riversare all’attenzione e alla riflessione costante della società civile, e dello Stato: assistenza sanitaria pubblica e universale o privata per pochi abbienti? ruolo repressivo dello Stato attraverso misure sociali restrittive (isolamento coatto, cordoni sanitari) in nome del bene comune, o misure restrittive concordate democraticamente[19]? limitazione dei diritti civili e dell’habeas corpus in nome del bene comune, e con quale intensità, o libertà individualistica irresponsabile e mortifera? solidarietà o chiusura corporativa? priorità alla salute comune o all’economia dell’impresa e della finanza? risorse ambientali da depredare o da amministrare con oculatezza per il futuro e per la salvaguardia della stessa salute?
Misure di contenimento del contagio e ricezione fra la popolazione –
Le misure di contenimento del contagio variano da paese a paese, così come varia l’applicazione delle norme imposte o suggerite dalle autorità politiche e sanitarie[20], nonché la durata delle misure stesse. Ma pur nella eterogeneità dei casi, alcune misure adottate da paesi diversi per cultura e storia presentano similitudini e analogie, quali ad esempio il distanziamento sociale e, in alternativa o in aggiunta, il ricorso al divino; identica cosa per i comportamenti di massa. Le variabili in gioco, che s’intrecciano fra loro: i livelli di industrializzazione e di secolarizzazione nei paesi occidentali; la censura e il silenziatore sulla malattia in corso per proseguire la guerra ad ogni costo, sino alla vittoria finale, per i paesi belligeranti; le confessioni religiose e i relativi codici di comportamento; i livelli di scolarità e di istruzione superiore, sia nelle società occidentali più sviluppate dal punto di vista economico e tecnologico, dove è egemone, ma non unica, la razionalità scientifica di matrice rinascimentale e illuministica, sia in quelle sottosviluppate, dove prevalgono tradizioni millenarie e superstizioni; la polarizzazione estrema di classi sociali o la presenza di un ceto medio quantitativamente numeroso, che strutturano il rapporto società civile e stato.
La misura più comune nelle società occidentali (non però in tutte le ondate della comparsa della spagnola) è il complesso di misure che va sotto il nome di distanziamento sociale: chiusura di scuole, teatri, luoghi di culto, proibizione dei raduni di massa (processioni, funerali, messe, feste, fiere, mercati), limitazioni dei trasporti pubblici, quarantena, trasferimento e separazione fisica negli ospedali fra pazienti infetti e altri tipi di malati; uso del fazzoletto quando si starnutisce, uso di mascherine (in testa il Giappone, che agli inizi ‘900 può considerarsi ampiamente occidentalizzato) per impedire che il muco nasale e la saliva, emulsionati in mille goccioline, siano veicolo di contagio. La più grande resistenza al distanziamento sociale proviene dal cristianesimo, che predica e pratica carità e solidarietà con la famiglia e il prossimo sofferente (valori comuni del resto alle altre due grandi religioni monoteiste, l’Islam e l’ebraismo, maggiormente diffuse in altre aree geografiche). Si può soffrire da soli senza l’aiuto di chi è accanto, familiare o estraneo che sia? Si può parlare da lontano senza guardarsi negli occhi, si può stare in quarantena o in un lazzaretto, un ospizio, una stanza di casa senza contatto alcuno? Si può ricevere cibo e medicinali a distanza? Il morente in quarantena, in ospedale o in un lazzaretto – ancora più inaccettabile – può lasciare il mondo senza una mano che si protende affettuosa e sollecita a stringergli la sua, senza uno sguardo che lo avvolga con tenerezza? E chi resta può accettare che il suo congiunto possa partire per sempre, senza accompagnarlo nell’ultimo viaggio, saperlo semmai in una fossa comune o in una tomba anonima? E chi resta può accettare che debba piangerlo muto e non meno solo? Può accettare che il suo dolore non riceva il conforto di chi vuole essergli vicino?
Una particolare spiegazione sul mettersi in gioco disobbedendo alle norme imposte sino al sacrificio proviene dalla psicanalisi: aiutare, sapendo di esporsi alla morte, è un’altra forma di egoismo, simile a quella di tanti animali che, in caso di necessità, si spogliano della loro individualità e si sacrificano per solidarietà di gruppo. Se la calamità fosse un terremoto, un’alluvione, un campo di battaglia disseminato di feriti, anche nemici, essere solidali sarebbe, senza ombra di dubbio, altruismo. In una grave epidemia, il distanziamento sociale può essere accettato solo in nome di un sacro egoismo di specie per conservare la propria e l’altrui vita, preservandola dal contagio. Per il singolo vale il principio che può salvarsi solo se sa essere egoista.
Ma l’oscurità irrisolvibile di tale rapporto fra la morte e la vita, fra la pietas del singolo e la norma del gruppo e dello Stato, può forse solo trovare qualche raggio di luce pensando alla tragicità cantata in teatro da Sofloce ed Eurupide. O forse potremmo avere qualche lume pensando ai tanti medici e operatori della Croce Rossa del tempo di guerra; tanti disertano o s’imboscano per usare un linguaggio militare del tempo, ma la stragrande maggioranza di loro non scappa e resta al proprio posto, mettendo in conto la malattia e anche la morte. E lumi forse maggiori potremmo avere pensando ai tanti volontari (giovani ragazze, laiche e cristiane in Occidente, ma anche in Giappone con assistenza ai fuori casta inclusi), cappellani, sacerdoti, suore che curano amorevolmente i contagiati, come vedremo fra poco nel nostro lavoro.
Nell’Occidente belligerante, le misure di contenimento del contagio, quando sono prese, sono per lo più tardive: i gruppi dirigenti antepongono alla salvaguardia della salute le ragioni della guerra e della resistenza interna, unitamente a quelle economiche della produzione e dell’approvvigionamento intimamente collegate alle prime. E anche quando le misure sopraggiungono si aprono contraddizioni non meno gravi: chi governa non ha la determinazione necessaria per le varie opzioni in campo, alternando repressione, lassismo e deroghe. Laddove poi, come nel caso italiano, la grande differenziazione di classe, di sviluppo territoriale, di storia politica, rendono poco o per niente legittimato il potere statale, grandi sono le resistenze dei ceti più poveri ed emarginati della popolazione, che percepisce estranea o come sopruso qualsiasi norma o restrizione. Se poi si fa il ricorso alla violenza da parte dello Stato, lo scarto fra misure di contenimento e ribellione o resistenza passiva cresce[21].
Misure razziali sono adottate in alcuni paesi, quali l’Argentina, che vara un programma per espellere dalle città la popolazione di origine africana, ritenendo che sia refrattaria per sua natura alle misure di contenimento del contagio. Anche il Brasile è tentato di adottarle, ma presto abbandona il proposito: la maggioranza della popolazione è di origine africana
Altra è la cultura di contenimento della pandemia nei paesi islamici. Abbiamo sufficienti informazioni sulla Persia (Islam nella variante scita). Nel paese, poverissimo e di recente sotto l’esclusiva occupazione inglese (antemurale contro il nemico turco e stato cuscinetto per salvaguardare il possesso coloniale dell’India), le misure sanitarie tentate dal centro (quarantena e sepolture ad hoc dei deceduti: profondità e copertura con calce viva per impedire esalazioni) lasciano il tempo che trovano per le resistenze inglesi, interessate al prosieguo della guerra. Drammatica, in particolare, la situazione della città santa di Mashhad, centro di pellegrinaggio del paese, dove il contagio giunge tramite un soldato russo. La città, già duramente provata da altre malattie di massa che hanno devastato indigeni e pellegrini, affronta il nuovo nemico con la cultura rimasta invariata dal X secolo: contenimento delle entrate e delle uscite: chi è dentro la città non può uscirne, chi è fuori ed è sano non può entrarvi. La misura è comunque presa sotto l’egida religiosa: l’epidemia è un martirio salvifico per i musulmani e una punizione per gli infedeli. Come curare un contagiato? I medici ai quali ci si rivolge sono gli erboristi, gli hakim, fra i quali vi è la credenza che un jinn (spirito, genio maligno) sia entrato nel corpo del malato, ragion per cui la cura consiste nel legare ad un braccio con una cinghia un foglietto con una preghiera per scacciare lo spirito. Misura che si accompagna con una variante ancora più antica, deroga parziale al credo religioso: cambio di dieta per riequilibrare gli umori, secondo la cultura medica galenica. Non sappiamo quanti siano stati i deceduti su due terzi della popolazione colpiti (45.000 abitanti), ma sappiamo che il contagio si diffonde indisturbato: le misure di isolamento sono disattese e dalla città santa, mercanti, pellegrini e soldati lo diffondono in tutte le direzioni.
Vaccinazione – La vaccinazione è una misura profilattica praticata da decenni prima della spagnola, che per tante malattie ha avuto successo, anche se mai se ne è conosciuto il microbo infettante (celebre il caso di Pasteur che ha prodotto in passato un vaccino contro la rabbia, pur senza sapere nulla dell’agente infettante). Analoga e ambivalente sorte ha in alcuni stati in cui si produce in grandi quantità il vaccino contro il bacillo Pfeiffer, ritenendo che possa impedire la compromissione grave delle vie respiratorie. Il vaccino (da non intendere come misura preventiva, ma come inoculazione con la malattia in corso), in realtà, blocca sì le infezioni batteriche polmonari, ma solo quelle già presenti nel malato, non il virus della spagnola, tanto che la morte subentra inattesa in tanti vaccinati. Che la sua portata sia limitata alle malattie concomitanti è cosa ignorata dalla scienza medica del tempo, ma il successo che ha in tanti casi promuove la sua applicazione.
Cura– Nell’assenza di farmaci antivirali (i primi sono degli anni ’60 del XX secolo), di vaccini (tranne, in alcuni stati, quello di Pfeiffer appena citato) e antibiotici (diffusi dal secondo dopoguerra in avanti), la cura prevalente, almeno nei paesi occidentali, è quella di dosi massicce di aspirina, i cui effetti (abbassamento della febbre e diminuzione di dolore) danno l’apparenza di miglioramento della malattia, e di chinino, che usato per la malaria si muta in speranza di panacea, che invece aumenta le disfunzioni in tutto il corpo (vomito, vertigini, ronzio negli orecchi, perdita dell’udito, sangue nelle urine). Seguono le medicine e le pratiche antiche: i preparati di arsenico (effetti analgesici), l’olio canforato per l’affanno, il salasso (l’idea di espellere il sangue infetto), il mercurio, persino l’alcol. In altri paesi non occidentali e non industrializzati: erbe, riti religiosi, moschee, pratiche sciamaniche, bagni pubblici.
Da non sottovalutare l’effetto placebo di tanti rimedi proposti, sia nel mondo occidentale che altrove: le aspettative di guarigione hanno effetti salutari quando si investe nell’offerta materiale di presunti medicinali o nell’offerta di pratiche miracolose. E da non sottovalutare anche l’effetto nocebo per l’aggravamento indotto da rimedi controproducenti oltre che inutili.
[1] Per una bibliografia essenziale, cfr. E. Tognotti, La “Spagnola” in Italia, Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-1919), Franco Angeli, Milano 1982; J. M. Barry, The great influenze – The Epic Story of the Deadliest Plague in History, Penguin Group (USA), New York 2004, passim; L. Spinney, 1918 – L’influenza spagnola – La pandemia che cambiò il mondo, Marsilio Nodi, Venezia 2018 (ed. digitale), pp. 38-40; S. Sabbatini-S. Florino, La pandemia influenzale “Spagnola”, in “Le infezioni nella storia delle medicina”, n. 4, 2007, pp. 272-285.
[2] Chiamata febbre di Parma in Francia, febbre bolscevica in Polonia, febbre di Bombay in Ceylon, febbre delle Fiandre o febbre delle trincee in Inghilterra. Paradossalmente, in Spagna, alla quale i paesi belligeranti deliberatamente non hanno voluto dare notizie della malattia in corso, quando esplode la pandemia, il nome dato è il soldato napoletano, da una canzone popolare molto orecchiabile dello spettacolo più accorsato a Madrid, La canción del olvido. Così, un inesistente soldato napoletano di passaggio per Madrid diventa il comodo untore di turno per tutta la Spagna.
Segnaliamo al lettore che, per impedire fake news o, peggio, attribuzioni colpose o dolose per l’insorgere di qualsiasi influenza epidemica, l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità), nel 2015, ha dato direttive per impedire che i nomi alle epidemie si riferissero a paesi, persone, animali, cibo, stabilendo che i nomi dovessero contenere informazioni strettamente scientifiche sulla composizione molecolare e sull’anno e serie della comparsa del virus. Cfr. World Health Best Practices for the Naming of New Human Infectious Diseases, OMS, Ginevra maggio 2015.
[3] Cfr. G. Scotto, Globalizzazione e malattie infettive tra passato e presente, in “Infezioni in Medicina”, n. 1, 2011, p. 56 (breve e divulgativo saggio che ricostruisce nella storia dell’homo sapiens il rapporto fra agenti patogeni e forme di produzione e convivenza).
[4] Solo a titolo esemplificativo: l’innalzamento delle temperature che favorisce la moltiplicazione in tempi più rapidi degli insetti patogeni; la catena alimentare e la catena del freddo con i loro deficit sanitari e intossicazioni alimentari; l’allevamento intensivo industriale di animali; l’uso di piante transgeniche che con i loro genomi neutralizzano gli effetti degli antibiotici nell’uomo; lo scioglimento dei ghiacciai con il rischio del rilascio di virus antichissimi, lì conservati, le infezioni nosocomiali legate non solo ad attrezzature non sterilizzate, ma anche a batteri resistenti selezionati negli ambienti ospedalieri, come ha mostrato la Lombardia nel 2020 nel caso del Corona-Virus.
[5] È il batteriologo americano Edwin Jordan che, nel 1920, stima in 21 milioni e mezzo il numero dei morti, cifra che sarà considerata attendibile sino agli anni ’90 del XX secolo, quando sarà messa in discussione (anche qui da americani: David Patterson e Gerald Pyle) con nuovi dati desunti dalla seconda ondata della pandemia, proponendo la cifra di 30 milioni. Poi, a fine anni 90, vi è di nuovo un innalzamento della soglia: lo storico tedesco Jurgen Muller e lo storico e geografo australiano, Niall Johnson, ipotizzano, comunque approssimando per difetto, la cifra di 50 milioni, 30 dei quali solo in Asia, con una probabile sottostima del 100%, da cui appunto l’oscillazione sino a 100 milioni. Cfr. Spinney, 1918…, cit. pp. 159-161; N. Johnson- J. Muller, Updating the accounts: global mortality of the 1981-1920, “Spanish” influenza pandemic, in “Bulletin of the History of Medicine”, n. 76, 2002; Bertoletto N. – Silvano G. (a c di), Croce Rossa Italiana e welfare dal 1914 al 1927 – Esperienze di interventismo umanitario, Edizioni ETS, Pisa 2018 (per questi studiosi i contagiati sarebbero addirittura un miliardo).
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[6] Cfr. G. Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Laterza 1925, cap. VI.
[7] «Da ogni altra cosa è possibile metterci al sicuro, ma rispetto alla morte noi tutti abitiamo una città senza mura»: da un frammento di Metrodoro di Lampsaco, allievo di Epicuro e uno dei maggiori esponenti e depositari dell’epicureismo.
[8] D’obbligo il riferimento al classico A. Cipolla, Contro un nemico invisibile,1986.
[9] Il primo focolaio significa che l’origine della spagnola sia da rinvenire negli Stati Uniti? Molto accreditata la teoria dello studioso Kennedy Shortridge, secondo il quale la Spagnola, come la gran parte delle epidemie influenzali che si diffondono nel mondo, nasce nella Cina meridionale (propriamente nella provincia del Kwangtun); ciò per il tipo di agricoltura che vede intrecciarsi, in un mix patogeno di sistema produttivo, uomo, anatre, insetti, maiali. Il processo è così sintetizzato da Sabbatino e Florino: «Fin dal secolo XVII i contadini cinesi trovano l’opportunità di tenere le risaie libere da erbacce e insetti, grazie all’utilizzo delle anatre. Mentre il riso cresce, lasciano nelle risaie sommerse le anatre, che mangiano gli insetti e le erbacce, ma non toccano il riso. Quando questo comincia a maturare, tolgono le anatre dalle risaie e le spostano nei canali e negli stagni. Dopo il raccolto, riposizionano le anatre nelle risaie ora secche. Qui i volatili sui cibano dei grani di riso caduti a terra, ingrassando considerevolmente. La zootecnia dei suini viene svolta in contiguità con i volatili, così si realizzerebbe il passaggio dal virus influenzale ai suini e da questi l’adattamento del virus nei confronti dell’uomo si realizzerebbe attraverso modificazioni genetiche. A sostegno di questa tesi ci sarebbe l’evidenza che le epidemie influenzali sembrano cominciare sempre in quella regione dell’Asia corrispondente alla Cina meridionale». Secondo l’autore di tale teoria, le epidemie nascerebbero sì in questa regione, ma non si diffonderebbero nella stessa, perché i suoi abitanti sarebbero immunizzati, come mostrerebbe l’assenza della Spagnola.
Ma Jeffery Taubenberger, il patologo molecolare che ha scoperto proprio il virus influenzale della Spagnola, pubblicandone gli estremi nel 1997 (cfr. infra). obietta: in una pubblicazione del “National Medical of China” del 1919, si dà un ampio resoconto dell’andamento dell’epidemia in oggetto nella popolosa città di Harbin, che presenta le stesse caratteristiche dell’andamento in Europa e negli Stati Uniti. Perché dunque non è da ipotizzare la nascita del virus negli Stati Uniti? Cfr. Sabbatino-Florino, La pandemia influenzale “Spagnola”, cit., pp. 273-274.
[10] Nello stesso mese marzo 1918 e per lungo tempo ancora negli Stati Uniti, sulla scia del pregiudizio occidentale del pericolo giallo, è la Cina, il malato d’Asia, ad essere additata come il paese d’origine della pandemia.
[11] Nell’altro fronte, Richadr Strong, ex professore di medicina tropicale ad Harward, durante la guerra impegnato nella Croce Rossa americana, in un memoriale-proposta per il futuro, del 1919, ricorderà come si brancolasse nel buio quando l’influenza delle trincee (come la chiamava ancora dopo un anno) si era diffusa fra le truppe francesi e delle difficoltà di sperimentazione per individuare l’agente patogeno : «Au printemps 1918, la fiévre des tranchés causait plus de ravages que toute maladie contagieuse, dans certains unités françaises. Nous craignons que cette maladie ne s’etende aux autres armées allées e ne les affecte sérieusement. Son mode de propagation n’était pas ancora connue, et par conséquent, le mal ne pouvait être ni prevenu, ni enrayé. A l’éencontre des règlements de l’armée britannique, qui interdissait l’emploi de volontaires pour le travaux d’essasi, ceux de l’arée americaine permettaient l’étude de méthodes de trasmission d’un mal sur des sujets se soumettant volontairment aux experiences.»
[12] Pur non avendo il nostro lavoro pretese di approfondimenti strettamente microbiologici e virologici, va detto che il microbo che genera la malattia è un virus 20 volte più piccolo di un batterio, impossibile da osservare al microscopio ottico (strumento cui aveva fatto ricorso Richard Pfeiffer). Se l’ipotesi di Pfeiffer resse in qualche modo alle obiezioni scientifiche del tempo, è perché i vaccini prodotti ed effettuati agivano comunque con efficacia sulle malattie respiratorie concomitanti, salvo la morte dei pazienti più gravi che riproponevano il virus specifico della spagnola non aggredito.
Da ricordare ancora che il primo virus influenzale sarà individuato soltanto nel 1934 (Sabbatino-Florino, La pandemia…, cit., p. 276).
[13] Cfr. J. K. Taubenberger, Initial Genetic Characterization of the “Spanish” Influenza virus, in “Science” 1997, pp. 1793-1896, e, per una trattazione più ampia, J. K. Taubenberger – D. M. Morens, 1918 Influenza: the mother o all Pandemics, in “Emerging Infectious Diseases”, vol. 12°, n. 1, 2006, pp. 15-22.
Del nome del virus, H1N1, H sta per la proteina emoagglutinina e N sta per la seconda proteina virale, la neuramidasi, che consente al virus di legarsi agli organismi infetti, causando la tempesta immunitaria, che, invece di combattere il virus, ha l’effetto controproducente di attaccare gravemente i polmoni.
[14] Tre quarti delle truppe francesi, metà di quelle britanniche e circa 900.000 combattenti fra le truppe tedesche. Quanto all’Impero austro-ungarico e all’Italia, il contagio e la mortalità fra le truppe austro-ungariche sono di circa il triplo rispetto a quelli italiani: 1) le prime sono più mobili, impegnate ed esposte come sono in più fronti; 2) la dieta alimentare delle prime, maggiormente a base di carne, le espone di più al contagio, rispetto a quelle italiane, la cui dieta più vitaminica – verdure e frutta – aiuta di più a fronteggiare il virus. Cfr. Spinney, 1918…, cit., p. 40; Sabbatini-S. Florino, La pandemia influenzale “Spagnola”…, cit.
[15] Spinney, 1918…, cit., p. 49.
[16] I militari morti per la spagnola superano quelli morti in guerra.
[17] Cfr. Archivio Storico Stato Maggiore dell’Esercito (d’ora in avanti AUSSME), F-11, b. 112, fasc.li 7 e 8; b. 113 (oltre la metà dei fascicoli, la cui documentazione va sino al 1920); b. 115, fasc.li 1 e 4; bb. 125, 126, 128 (il faldone più cospicuo: tutti i fascicoli); b. 127, fasc.li 7 e 8; ACS, DGPS, PG 1915-11919, b. 1304.
[18] Spinney, 1918…, cit., 2018, p. 19.
[19] Illuminante uno studio sul Granducato di Toscana e, in controluce, sul Ducato di Milano, a proposito delle politiche statali relative alla peste del 1630-1633: nel primo, in cui si ha un coinvolgimento democratico (nei limiti di una società di ancien régime) della popolazione nelle misure restrittive della libertà individuale e collettiva, si hanno di gran lunga meno morti e meno contagiati, nonché una cospicua assistenza materiale ai ceti più poveri; nel secondo accade il contrario, con l’aggravante della caccia agli untori e della colonna infame di manzoniana memoria. Cfr. M. Brogi Ciofi, La peste a Firenze con particolare riferimento ai provvedimenti igienico-sanitari e sociali, in “Archivio Storico Italiano”, vol. 142, n. 1, Leo S. Olschki, Firenze 1984.
[20] La più diffusa è la norma igienica del lavaggio frequente delle mani e delle finestre aperte per impedire, con la ventilazione, che prosperino germi in ambienti umidi e caldi.
[21] Emblematico il caso di Rio di Janeiro, che citiamo, solo punta di un iceberg, comune a più paesi e culture: nella seconda metà del settembre 1918, nella città colpita dalla spagnola, veicolata da una nave postale inglese che aveva fatto scalo a Dakar in Senegal, dai bairros più poveri e degradati, affamati e malfamati (sono le bidonville dei neri e i mulatti marginalizzati dopo l’abolizione della schiavitù della fine degli anni ’80 del XIX secolo), rapidamente contagiati, si scatena l’assalto alle panetterie e negozi, mentre la polizia scorta cibo di lusso per dirigenti politici e ceti delle classi alte. La città in un breve tempo si svuota e piomba in un silenzio post-apocalittico, le partite agli stadi non hanno spettatori (ma non per restrizioni imposte dall’alto), le strade si riempiono di cadaveri abbandonati, turbe di monatti e di detenuti impiegati per il seppellimento in fosse comuni, si abbandonano ad amputazioni di orecchie, mani e dita, per asportare gioielli nelle strade dai deceduti abbandonati e nelle fosse comuni dove portano i cadaveri in decomposizione.
È quasi un replay delle ribellioni ai tentativi frustrati della neonata repubblica, nel primo decennio del secolo, di una riforma sanitaria e della vaccinazione di massa, accompagnandole con lo sventramento di molti bairros. La popolazione era insorta (passata alla storia come La rivolta del vaccino), non accettando l’intervento dello Stato in materia di salute pubblica, tanto da stigmatizzare, dieci anni dopo, l’epidemia spagnola “male di Seidl”, dal nome del ministro della salute, reo di aver sostenuto che il male era stato veicolato da microbi viaggianti nell’aria e provenienti dalla lontana città africana senegalese. Cfr. T. Meade, “Civilisng” Rio: Reform and Resistenze in a Brazilian City 1889-1930, University Park, Penne State Univewrsity Press, 1996. P. Nava, Rua Major Avila, in “Chão de ferro”, José Olympio, Rio de Janeiro 1976.
Le foto sono di Ugo Santinelli
Guerre e pregiudizio
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