Un manichino e il suo paesaggio.

di CARLA PERUGINI.

Sarà perché da un paio di mesi nessuno pulisce più i vetri, ma l’atmosfera qui dentro ha assunto un che di opaco e di greve, e il locale il silenzio dei luoghi abbandonati, come quello che deve accompagnare quel che resta di una città dopo la fuga della sua popolazione. Forse è così che gli uccelli di Pompei dovettero sentirsi quando ripresero a cantare dopo l’eruzione, come i legittimi abitanti di un territorio fino ad allora occupato da stranieri.

foto4E infatti ora li sento da qua, gli uccelli dico, mai ne avevo sentito così tanti cantare, cinguettare, richiamarsi dagli alberi di questa piazza, e perfino da panchine su cui non osavano avventurarsi, dalle vuote altalene, dai tetti delle automobili posteggiate da tempo. E gli uomini? Dove sono andati a finire? Talvolta ne vedo alcuni solitari camminare guardinghi, il viso e le mani coperti da inedite protezioni, scostandosi all’avvicinarsi di un proprio simile. Da questa vetrina non posso sentire parole, ma non mi pare che se ne scambino. Io, d’altronde, sono ancora così imbacuccato nei miei vestiti invernali, reclamizzati sul vetro dai saldi di fine stagione, che a stento riesco ad inquadrare l’orizzonte difronte a me, eppure tutti i segnali mi dicono che è ormai primavera. Esultante nei colori delle foglie e dei fiori, nella trasparenza dell’aria, nella tersa tinta del cielo… “Primavera/ viene – su veste blanca/flota en el aire de la plaza muerta…”, recitava, ricordo, la giovane commessa che lavorava qui per mantenersi agli studi di letterature straniere. Perché non torna? Perché non torna nessuno?

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Questa mia immobilità che credevo esclusiva ora sembra aver contagiato tutto ciò che sta fuori. Contagiato: perché ho usato proprio questo termine? L’ho sentito al di là del vetro? E da dove arriva questo lugubre suono di ambulanza? Eccola, s’è fermata proprio qui di fronte, ne sono scesi due marziani…

 

Le foto sono di Ugo Santinelli

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